È stato da poco edito da Momo edizioni questo libro, che raccoglie sei saggi sul tema del populismo, organizzato da Alessandro Barile. Fin dall’introduzione appare chiara al lettore l’intenzione di scandagliare il fenomeno populista, nella sua versione sovranista, fuori da retoriche e scomuniche di sorta. Se, infatti, il primo momento populista si era caratterizzato per la contrapposizione tra alto e basso, nel secondo momento si assiste alla ripresa della retorica nazionalista in funzione antiglobalizzazione, dove gli scontenti a essa pensano, o in qualche maniera sognano un ritorno alla vita di prima, lontana dagli scompensi della globalizzazione e dalla crisi economica.
Il primo saggio, quello di Stefano Azzarà, si concentra sul revival sciovinista della politica italiana, che ha portato al recupero della bandiera nazionale e che ha portato diverse organizzazioni della sinistra a interrogarsi sulla reale natura del concetto di nazione. L’autore, riprendendo Losurdo, dimostra chiaramente come la sinistra occidentale nel corso del XX secolo fosse spesso incorsa in gravi equivoci, vedendo la questione dello Stato legata a qualcosa di puramente negativo e quindi, contrapponendo unicamente proletari e borghesi, avesse perso di vista la questione nazionale. Ma questo nuovo recupero non avviene nel solco dei grandi classici del marxismo, ma piuttosto nel mito transpolitico, che contrappone ciò che è nazionale da ciò che non lo è, “popolo” contro élite globaliste, volte a espropriarlo dalle sue ricchezze. Il populismo-sovranismo dunque non rappresenta per Azzarà una rivolta “popolare” contro la crisi e i suoi veri responsabili, ma piuttosto un elemento in più di manifestazione di crisi dell’egemonia liberale. Che non sia qualcosa di fruibile a sinistra è dimostrato dall’approccio alla questione dei migranti: invece di prendersela con l’imperialismo, si colpevolizzano i migranti, presentati come “marxiano” esercito industriale di riserva.
Piuttosto il sovranismo va dunque inteso come tentativo di reazione aggressiva alla grande convergenza della globalizzazione, risposta volta a contrapporre a essa il particolarismo nazionale, incardinato sulla lotta all'Ue, presentata come matrigna e guidata da quelle élite globaliste tanto aspramente combattute. In realtà l'Ue rappresenta per Azzarà, seppur parzialmente, un ostacolo al progetto americano di Trump.
Il secondo saggio, di Raffaele Sciortino, si propone di analizzare il fenomeno del neopopulismo dal punto di vista geopolitico. Il punto da cui partire non può che essere per l’autore la crisi del 2008, che ha provocato uno sconvolgimento nello sviluppo della globalizzazione, e ha rimesso in moto la lotta di classe. Una crisi scoppiata fin dagli anni ’70, ma che in qualche modo aveva trovato una via di fuga per il capitale da un lato nella finanziarizzazione dell’economia, dall’altro nella delocalizzazione di gran parte del comparto produttivo americano in Cina; una crisi da cui si è potuti almeno apparentemente uscire scaricando sui bilanci degli Stati nazionali e sulle classi subalterne i costi di essa. Gli Stati Uniti sono dovuti in qualche modo uscire allo scoperto dopo lo scoppio di essa, praticando una guerra commerciale nei confronti della Cina, partner sempre più scomodo, cercando di isolarla dalla Ue e dagli altri possibili alleati. Questa strategia rischia però di isolarli, senza che nel frattempo sia uscita allo scoperto un’altra potenza in grado di sostituire gli Usa nel controllo dell’economia mondiale; solo la lotta di classe appare per Sciortino in grado di rimescolare le carte.
Ma questa lotta ha perso forza tra i subalterni, relegati all’ambito individualista dalla disgregazione taylorista; per questo motivo la contestazione assume forme legate alla cittadinanza attiva, magari legate all’ambito no-global all’inizio del secolo, oppure in ambito più contemporaneo alle forme populiste, come contestazione diretta alla globalizzazione. Il neopopulismo non rappresenta comunque per l’autore una nuova forma di fascismo, ma un tentativo di risposta alla crisi economica. Dalle forme con cui si produrranno le rotture, nei paesi più avanzati (vedi l’esempio citato dei Gilet gialli in Francia) oppure nei paesi emergenti, dipenderanno le sorti di questa risposta.
Il terzo contributo, di Raffaella Fittipaldi, è dedicato ad analizzare la relazione tra il pensiero politico del partito spagnolo Podemos e il populismo. Tale partito nasce sulla scorta delle mobilitazioni degli Indignados, sviluppatesi nel 2011, di cui cerca in qualche modo di essere erede e di rendere quelle contestazioni un programma di governo. Dal punto di vista ideologico Podemos rifiuta lo schema destra-sinistra, prendendo come soggetto di riferimento i cittadini in lotta contro l’austerità e i partiti politici tradizionali, mentre l’organizzazione viene determinata il più possibile dal basso e organizzando ampie campagne sui social network. La scelta di Podemos è stata quindi quella di sostituire alla dicotomia destra-sinistra (in crisi a causa dei partiti che rappresentano i due poli del bipartitismo tradizionale spagnolo) quella tra sotto e sopra, in modo tale da farsi interprete della lotta del popolo contro la “casta”, non solo dal punto di vista politico ma anche economico; nonostante ciò molti dei suoi valori, dalla redistribuzione della ricchezza alla difesa dei diritti dei lavoratori, rimettono all’orizzonte ideologico della sinistra radicale. L’analisi del fenomeno populista rimette per l’autrice a Laclau, il quale reinterpreta Gramsci per definire il populismo come quel movimento attraverso il quale le domande inascoltate della società, da lui definite democratiche, diventano popolari; Podemos rappresenterebbe dunque il tentativo riuscito di ibridazione tra le istanze populiste e quelle della sinistra, sebbene la recente alleanza elettorale e il conseguente patto di governo con il Psoe tendano a far prevalere l’istanza di sinistra su quella del populismo.
Il quarto saggio, di Marco Santopadre si interroga invece sulla difficile relazione tra la sinistra e parole come “sovranità” e “nazione”. Tali temi sarebbero tornati con forza sulla scena europea in relazione allo sviluppo di diversi movimenti indipendentisti, da quello catalano a quello scozzese; la stessa Ue che ha appoggiato le rivendicazioni autonomistiche dei popoli dell’Europa orientale per disgregare la Jugoslavia e allargare le sue frontiere verso gli Stati provenienti dalla dissoluzione dell’Urss, si rifiuta di riconoscere le rivendicazioni nazionali al suo interno. Il caso catalano in particolar modo ha dimostrato secondo l’autore la difficoltà della sinistra radicale europea, e quindi italiana, ad approcciare al tema dell’indipendentismo; la maggior parte di essa si è infatti affrettata a presentare tale movimento come una secessione delle classi alte volte a pagare meno tasse, trascurando che le mobilitazioni vedono una centralità della sinistra di movimento e una partecipazione consistente delle classi popolari e del ceto medio impoverito dalle politiche di austerity seguite alla crisi del 2008. Anche il caso basco, sebbene oggi in crisi dopo la fine della lotta armata nel 2011, vede un legame forte tra indipendentismo e questione sociale; più in generale nello Stato spagnolo i movimenti indipendentisti hanno sempre mantenuto un forte legame tra socialismo, indipendenza nazionale e lotta contro la monarchia, vista come erede della dittatura franchista. In realtà a uno sguardo un po’ più attento sarebbe possibile osservare che la sinistra di impostazione marxista ha sempre avuto un legame molto forte con la questione nazionale, spesso ponendosi alla guida dei movimenti di liberazione nazionale, come avvenuto nel caso irlandese. Negare l’esistenza dunque di vari nazionalismi significherebbe stralciare centocinquant’anni di patrimonio di lotte per l’indipendenza nazionale spesso guidati da leader comunisti, che si sono intrecciate con fenomeni rivoluzionari, da quello cinese a quello cubano, solo per fare alcuni esempi; nonostante ciò la sinistra europea rimane schiacciata da un lato dall’ipotesi cosmopolita di un mondo senza frontiere, dall’altro tende ad assumere atteggiamenti conservatori, volti a difendere le frontiere nazionali come qualcosa di statico e di immutabile. Impensabile sarebbe per l’autore pensare a un popolo senza Stato, che non avrebbe dunque sovranità, per questo motivo dimostra come lo svilimento dello Stato rimetta al progetto di integrazione europea volto a limitare le forme di partecipazione popolare. Per questo motivo recuperare la sovranità nazionale è importante ma non sufficiente, perché a essa va affiancata il recupero della sovranità popolare attraverso un allargamento dei meccanismi di partecipazione democratica.
Nel penultimo contributo l’autore, David Tranquilli, si concentra sull’analisi dell’epifenomeno populista presentandolo nelle sue varie sfaccettature, contrastando quella “reductio ad unum” tipica del modo in cui la classe dominante neoliberista tende a definirlo. Questo avvento del populismo è conseguenza diretta della crisi dell’egemonia neo liberale sulle classi subalterne e sui ceti medi impoveriti, che si rivolgono a partiti politici apparentemente fuori dal sistema, come possono essere stati i Cinque stelle prima e oggi la Lega di Salvini. A quest’ascesa elettorale la classe dominante tende a reagire collocando tutti nello stesso calderone, quello del neofascismo, che in realtà continua a essere totalmente marginale nella società e dunque anche elettoralmente. A questa scomunica ha finito per unirsi anche parte consistente della sinistra radicale, che ha perso così il contatto con quei settori sociali che dovrebbero essere i suoi punti di riferimenti politici e solo conseguentemente elettorali. Questo a maggior ragione perché a un’analisi attenta dei flussi elettorali emerge chiaramente che esiste una polarizzazione chiara tra centro e periferia un po’ in tutti i paesi europei, con il centro schierato con i partiti tradizionali, e la periferia (da intendersi non solo geograficamente ma soprattutto come ciò che è periferico dal punto di vista del potere tradizionale) schierata con i movimenti cosiddetti populisti. Numerosi sono gli esempi portati dall’autore, dalla Brexit in Uk, alle elezioni statunitensi del 2016, con la periferia dell’interno del paese a premiare Trump e i grandi centri urbani a premiare Hyllary, o venendo al caso italiano le vittorie elettorali del movimento Cinque stelle a Roma e Torino o lo stesso referendum costituzionale perso da Renzi nel dicembre dello stesso anno. Successivamente l’autore dedica un interessante focus al voto ai partiti “populisti” nella città di Roma, dimostrando come esso veda un progressivo spostamento dei voti dai Cinque Stelle alla Lega di Salvini tra il 2016 e il 2019 nel cinturone periferico della Roma ai confini del Gra dove si è progressivamente spostata una parte della classe lavoratrice; mentre il Partito democratico e più in generale il variegato mondo della sinistra rimangono confinati nel centro storico o comunque nei quartieri benestanti della città. Fondamentale sarà dunque per la sinistra che non voglia ridurre il suo operato alla mera testimonianza interpretare queste trasformazioni per lavorare nella congiuntura e tentare di cambiare il corso degli eventi.
L’ultimo saggio, di Luca Alteri, si concentra invece sull’analisi delle migrazioni alla luce del dibattito populista, cercando di sfuggire sia all’approccio riduzionista sia a quello emergenziale. Per fare ciò è necessario osservare le migrazioni dal punto di vista globale, mostrando come i flussi migratori si rimescolino e i fattori di spinta possano essere diversi e contigui tra loro, dalle guerre alle crisi climatiche o semplicemente il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita; per questo motivo l’autore rifugge le ipotesi di autori come Smith che tendono a voler dimostrare una pressoché certa fuga dell’Africa in direzione dell’Europa. L’ostilità nei confronti dei migranti viene accentuata dalla crisi economica, che pone l’ultimo arrivato ad apparire come colui che contribuisce a peggiorare le condizioni di vita degli “autoctoni”, che per questo motivo in parte si rivolgono a movimenti populisti, che nello straniero trovano il destinatario perfetto di campagne di odio e discriminazione, una discriminazione che si articola su tre piani: lessicale, opposizione alle politiche di integrazione sociale e conseguente esclusione sociale dell’immigrato. Le forme di questa discriminazione possono essere molto diverse, l’autore per esempio cita il tentativo operato da parte del centro-destra per creare delle classi “speciali” per i figli degli immigrati, che se collocati in classi miste ritarderebbero l’apprendimento degli alunni italiani. Anche la terminologia utilizzata spesso crea discriminazione, l’autore infatti fa notare come il sostantivo etnia, che ha sostituito nel linguaggio comune il più negativo “razza” rimette comunque concettualmente a un’idea di subordinazione o comunque di differenziazione. In ogni caso quello che manca spesso è la capacità di comprendere l’immigrato nella sua totalità: dalle sue condizioni di partenza (non necessariamente miserabili) alle sue aspirazioni (magari semplicemente quelle di migliorare le sue condizioni di vita) fino ad arrivare alla sua cultura; in assenza di ciò il migrante rischia di rimanere appiattito in un contesto unidimensionale. Ma il problema si può risolvere per Alteri solo dal punto di vista politico: l'immigrato va infatti considerato come elemento parte della classe lavoratrice, fattore del conflitto e non limite al suo sviluppo.
In conclusione questa raccolta di saggi ci appare estremamente interessante per tutti coloro che si interessino alle tematiche del populismo e cerchino dei contributi che provino a investigare tale rilevante fenomeno politico senza cadere in scomuniche o semplificazioni di sorta, ma cercando piuttosto di analizzarlo in tutte le sue sfaccettature e complessità.