Secondo Mario Vegetti Aristotele ha sempre cercato di innovare il pensiero di Platone, sottoponendolo anche a radicali critiche e a una vera e propria decostruzione, ma ha finito per edificare un nuovo grandioso edificio filosofico usando principalmente materiali desunti dalle opere del maestro, la cui lezione non ha mai realmente tradito, ma piuttosto tentato di superare dialetticamente.
Aristotele ha profondamente innovato rispetto alla primigenia concezione platonica il ruolo del filosofo. Al contrario del maestro, geniale rampollo di una delle più aristocratiche casate ateniesi, lo stagirita da meteco non poteva aspirare come Platone alla presa del potere. Al contrario affermò l’idea del filosofo come uomo dedito alla riflessione e, perciò, distinto dall’uomo d’azione. Anche lo stile di Aristotele è completamente rinnovato rispetto a quello del maestro, lo stagirita abbandona il fascinoso stile artistico platonico per un argomentare sobrio e analitico da scienziato.
La decostruzione della filosofia di Platone da parte di Aristotele parte dalla volontà di superare la separazione, la scissione del mondo, un residuo di quel dualismo parmenideo che, in ultima istanza, era un indizio di una concezione del mondo ancora aristocratica, anche se intesa nel senso etimologico del termine quale governo dei migliori. Ciò porta Aristotele a rivalutare il mondo in cui viviamo – anche perché è l’unico reale – in quanto eterno e non dominato dal caos, ma da leggi umane e naturali.
Le stesse idee platoniche, sorte per indicare le cause dei fenomeni reali, sono per Aristotele degli inutili doppioni che, appunto, le duplicano in un altrettanto antieconomico iperuranio. “Ridondante sul piano ontologico, l’ipotesi delle idee appare ad Aristotele perfettamente inutile anche su quello epistemologico, cioè in vista della spiegazione scientifica del mondo” [1].
Secondo Aristotele il mondo deve trovare in sé la propria spiegazione e non in enti oltremondani come le idee, che non possono essere causa dei fenomeni, essendo totalmente indipendenti da questi ultimi. Aristotele critica altresì la matematizzazione della filosofia e gli esperimento in atto nell’Accademia platonica rivolti a porre come princìpi delle idee: l’Uno e la Diade infinita. Peraltro in tali critiche, che sono anche le più radicali rivolte da Aristotele a Platone, lo stagirita utilizza la prima persona plurale, indicando così che erano svolte nel momento in cui era ancora parte dell’Accademia platonica. A dimostrazione che – come generalmente avviene – le critiche più dure al proprio maestro o alla filosofia più sviluppata antecedente alla nuova che si intende fondare, siano generalmente formulate proprio nella prima fase, anche per giustificare la necessità di fondare una nuova visione del mondo.
Lo spirito antiaristocratico di Aristotele lo porta a criticare anche le nette separazioni e gerarchie che caratterizzavano il modo di pensare di Platone dal punto di vista epistemologico, antropologico, etico e politico. Sempre nel periodo accademico Aristotele critica la netta bipartizione nelle gnoseologia di Platone, per cui esisterebbe una scienza universale, la dialettica filosofica, in grado di risalire ai princìpi primi su cui fondare le altre scienze, sempre meno pure, in quanto sempre più compromesse con il mondo empirico del divenire. Per Aristotele le scienze hanno pari dignità in quanto ognuna è necessaria per dare conto di un differente aspetto della realtà. La dialettica muovendosi al livello dei princìpi delle altre scienze, non dà conto di nessun aspetto della realtà, ma ha una validità nella sola prospettiva della logica formale.
All’epoca della maturità di Aristotele si collocano invece le critiche alla psicologia, all’etica e alla politica di Platone. Aristotele critica il dualismo platonico, di derivazione pitagorica, fra anima e corpo, che non spiega la loro unione reale, anche perché queste concezioni ancora gerarchiche della realtà non si curavano di analizzare le determinazioni che rendono unico ogni corpo.
L’anima è la forma e l’atto che rende vivente un corpo dotato di organi. Perciò anima e corpo non sono separabili come l’occhio e la vista, dunque, quando muore il corpo, necessariamente muore anche l’anima. “Con questa rivendicazione dell’unità del complesso psicosomatico che costituisce il vivente (sulla quale si fondava fra l’altro lo studio scientifico dei rapporti fra organo e funzione, cioè l’anatomofisiologia), Aristotele segnava uno dei punti di massima distanza dal maestro, e uno dei momenti salienti della sua «rivoluzione» filosofica” (24).
Anche l’idea del buono, su cui si fonda l’etica platonica, è criticata da Aristotele in quanto astratta e, quindi, destinata a non essere realizzata. Inoltre, tale bene assoluto finisce per svalutare il beni reali perseguiti e realizzati dagli uomini con il loro agire. Anche la concezione più propriamente platonica del buono in sé come modello non funziona per Aristotele, in quanto nella sua astrattezza resta privo di contenuto reale e incapace di indicare all’uomo determinato come svolgere meglio il proprio compito determinato. Per Aristotele, quindi, “il punto di partenza per una chiarificazione concettuale della natura dei valori non sarà dunque un’idea separata e trascendente, ma consisterà nell’analisi fenomenologica delle finalità effettivamente perseguite dalle condotte umane, che rivela, come orizzonte comune e unitario, il desiderio di felicità” (ibidem).
Aristotele critica la politica di Platone per il suo utopismo, per il sui ideare un modello astratto contrapposto ai modelli politici reali. Infine, per Aristotele, la kallipolis platonica ha dei tratti distopici, in quanto finisce per togliere qualsiasi spazio all’individualità, rimanendo così legata al principale limite del mondo greco antico, aggiungiamo noi.
Per Aristotele invece di immaginare sistemi perfetti, ma non realizzabili e in realtà nemmeno auspicabili, si tratterebbe più concretamente di migliorare le società reali. Si potrebbe dire che, da questo punto di vista, Aristotele anticipa Hegel nel considerare il reale, in sé razionale, superiore al mero dover essere, ovvero alla sfera indeterminata del possibile.
Più in generale Aristotele cerca di ricondurre nell’unico mondo reale, la verità, i valori e l’ordine che Platone aveva confinato in un fittizio mondo ideale. Al contempo Aristotele disarticola i nessi fra le varie scienze stabiliti nei dialoghi platonici, proprio per salvaguardare l’indipendenza di ogni ambito scientifico. Inoltre, per quanto Aristotele destrutturi e decostruisca in tutto lo sviluppo della propria filosofia la visione del mondo del maestro, intende il compito da lui intrapreso del filosofare un percorso da continuare seguendo, dunque, la via tracciata da Platone. “Non è dunque difficile rilevare le persistenze del platonismo in Aristotele, ed è semmai significativo notare che esse sono più cospicue nelle opere della sua maturità, quando l’urgenza emancipativa poteva forse lasciare il posto a un riconoscimento più equilibrato dei comuni e irrinunciabili presupposti teorici” (26).
Se Aristotele aveva contrapposto alle astratte idee platoniche, la sostanza individuale, detta anche sostanza prima in quanto l’unica realmente esistente, in seguito ridefinisce la qualità di quest’ultima non più come sostanza seconda, ma prima, perché definizione e dimostrazione scientifica si danno solo degli universali, ovvero delle forme-specie, che definiscono l’essenza di ogni cosa. In altri termini la forma aristotelica, derivata dall’idea platonica, non è più separata – in quanto è ora priva di esistenza – ma torna a svolgere una funzione essenziale in Aristotele, in quanto consente di rispondere al fatidico che cos’è? di un ente. Quindi – pur esistendo soltanto il sinolo – la forma, sempre unita alla materia, svolge un ruolo essenziale connettendo ontologia e gnoseologia in Aristotele.
La stessa dialettica e filosofia – intese inizialmente in senso antiplatonico come universali, ma prive di contenuto, assimilabili dunque alla logica formale – acquistano il loro contenuto nella metafisica, ovvero in una sostanza che va al di là di quella naturale, in quanto immobile e divina. La filosofia diviene così scienza prima che studia l’essere in quanto tale e i suoi attributi. In tal modo, la filosofia diviene una scienza, avendo come suo ambito il divino, al tempo stesso universale e suprema, per lo statuto ontologico del proprio oggetto. Acquista dunque uno statuto analogo a quello della dialettica platonica che Aristotele aveva precedentemente inteso criticare. Ciò va di pari passo con l’asserita superiorità della vita contemplativa da parte di Aristotele, dopo aver tessuto per tutti i precedenti libri dell’Etica nicomachea l’elogio della vita attiva. Anche per quanto riguarda l’immortalità dell’anima, dopo averla esclusa, Aristotele introduce un enigmatico intelletto (nous) attivo, separato dal corpo e perciò eterno e immortale.
Come osserva a ragione Vegetti: “questi elementi, più o meno direttamente riconducibili alla filosofia platonica”, sono “una parte costitutiva e indispensabile del complesso edificio teorico costruito da Aristotele, che veniva reinterpretandoli e modificandoli nel momento stesso in cui li riutilizzava” (29). Se ne può concludere che “uno degli aspetti più vivi e stimolanti della filosofia di Aristotele – che anche per questo non forma un sistema chiuso e statico – consiste proprio nell’assiduo impegno teorico inteso a conservare, e insieme a superare, il platonismo” (ibidem).
Note:
[1] Vegetti, Mario e Ademollo, Francesco, Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, Torino 2016, p. 21. D’ora in avanti citeremo quest’opera direttamente nel testo, inserendo fra parentesi tonde le pagine dei brani riportati.