Il grande cinema vs la “grande guerra”

Breve guida dei film più realistici sulla Prima Guerra Mondiale imperialistica.


Il grande cinema vs la “grande guerra”

A cento anni dall’entrata del nostro Paese nella Prima Guerra Mondiale imperialistica, intendiamo fornire una breve guida dei film più realistici per ricordare e denunciare questa spaventosa tragedia e prevenire una sua sempre possibile replica.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Orizzonti di gloria di Stanley Kubrik (voto 9,5) è un capolavoro assoluto, indubbiamente uno dei migliori film della storia del cinema e forse la più efficace denuncia della guerra imperialistica. Il film, infatti, riesce a essere estremamente realistico, dialettico e a far emergere chiaramente l’assurda irrazionalità e la strumentalità al dominio di classe della guerra imperialistica. La pellicola è inoltre una eccellente critica – quanto mai attuale ora, visto che sedicenti comunisti si definiscono nazionalisti – del patriottismo quale “ultimo rifugio delle canaglie” e quale efficace mezzo della lotta di classe condotta dalla classe dominante a spese dei lavoratori. Il film, pur non negando realisticamente la possibilità di ufficiali coscienziosi che tradiscono la propria classe sociale per schierarsi a fianco degli oppressi, fa vedere in modo netto come il vero e primo nemico è sempre quello che marcia alla testa dei soldati-proletari.

Nel film emerge in maniera lampante come il mantra dell’ideologia nazionalista, per cui saremmo tutti nella stessa barca, è una menzogna funzionale allo sfruttamento e al mantenimento del rapporto servo-padrone. In effetti, non solo in guerra le condizioni di vita sono quanto mai spaventosamente distanti fra i ricchi generali - che vivono nel lusso - e i miserabili soldati-proletari - che, invece, muoiono nelle trincee - ma la funzione di comando della forza lavoro e il suo sfruttamento diviene assoluto. La brutalità del sistema totalitario che si afferma nel corso della guerra nei principali Paesi imperialisti è illustrato in modo del tutto realistico e con un’eccezionale utilizzo del linguaggio cinematografico.

Il limite del film è nel punto di vista paternalistico con cui si rappresentano, per quanto sempre realisticamente, le classi inferiori. Sebbene siano, a ragione, indicate come le vere vittime della guerra, esse appaiono del tutto incapaci di far sentire la propria voce, se non affidandosi al comandante filantropo (vera e propria eccezione dinanzi al “tipo” dell’ufficiale esponente di un ceto dominante che considera i soldati carne da cannone funzionale alla propria carriera), dimostrandosi assolutamente incapace di qualsiasi forma di riconoscimento della loro umanità.

Tali soldati, non essendo in grado di sviluppare forme di resistenza autonoma, ci vengono presentati come agnelli condotti al macello da generali vanitosi, inetti e disumani. In tal modo, però, manca una reale prospettiva di rovesciamento della situazione al di là della piuttosto debole catarsi della scena finale, in cui i soldati sembrano prendere coscienza che l’odio nazionalistico per gli stranieri fa loro perdere qualsiasi umanità.

Per il re e per la patria di Joseph Losey (voto 7+) è un bel film, ma non un capolavoro. Il film è indubbiamente realista e fa emergere in maniera nettissima l’aberrazione della guerra imperialista. Anche in questo caso la menzogna nazionalista, funzionale all’unità nazionale grazie alla quale i ceti dominanti mantengono i loro privilegi con il consenso più o meno indotto dei subalterni, è efficacemente decostruita. Tuttavia vi sono alcune concessioni alle mode autoriali ed esistenzialiste del tempo, che fanno apparire il film più datato e meno immortale di Orizzonti di gloria. Soprattutto nella parte finale, pur accentuando realisticamente le tragiche condizioni dei soldati, il film scade più volte nel grottesco.

Anche in questo film i rapporti di classe sono perfettamente delineati e fatti emergere gli strumenti utilizzati dalla classe dominante per portare avanti la sua lotta contro i subalterni. Questi ultimi però, come già nel film di Kubrik, non sono in grado di reagire, di sviluppare un’autonoma visione del mondo e di conseguenza un’autonoma posizione politica. Sono perciò costretti a procedere a rimorchio di alcuni intellettuali illuminati delle classi dominanti, disponibili fino a un certo punto a tradire le proprie origini per un senso di solidarietà umana con gli umiliati e offesi.

Il film è più efficace e realista di quello di Kubrik nell’evidenziare i limiti dell’eroe borghese, anche perché Dirk Bogarde e Losey padroneggiano meglio l’effetto di straniamento appreso dalla collaborazione con Brecht, mentre il grande Kirk Douglas e il geniale Kubrik finiscono per impersonarsi troppo nel loro protagonista, per quanto realisticamente sconfitto. Tuttavia, il film di Kubrik ha un ritmo e una capacità di utilizzare in modo pienamente corrispondente allo scopo lo specifico filmico, che manca alla pur meritoria opera di Losey.

Uomini contro di Francesco Rosi (voto 7,5) è un film prezioso e utile perché sfata ulteriormente il mito degli “italiani brava gente” e qualsiasi possibilità di declinare a sinistra l’unità nazionale. Nel film appaiono nel modo più evidente le pesantissime responsabilità degli alti ufficiali italiani, membri delle classi dominanti, principali nemici e causa della morte dei soldati appartenenti alle classi dominate. La loro totale incapacità, il loro ridicolo patriottismo, il loro considerare subumani i propri soldati, proprio perché appartenenti alle classi subalterne, svela l’ipocrisia del loro apparente patriottismo, che in realtà è strumentalizzato alla difesa dello status quo, del loro status sociale e dei privilegi che garantisce loro.

A differenza degli altri film sulla Prima Guerra Mondiale, si vedono finalmente interi reparti che si ammutinano, soldati che cercano in ogni modo di disertare o di farsi riformare con atti di autolesionismo. Inoltre, vengono finalmente espresse le parole d’ordine dei socialisti, e l’esigenza di trasformare la guerra fra lavoratori in una guerra contro i comuni oppressori. Peccato che tali posizioni siano espresse da un ufficiale, un intellettuale borghese, che le interpreta individualisticamente nel sacrificio personale e, anzi, frena nel momento dell’ammutinamento i suoi soldati, pronti a unirsi agli altri insorti, in nome di una “ora x” destinata a non arrivare mai. Emergono così tutti i limiti del Pci, partito politico del regista Rosi, a partire dalla scelta stessa di fare proprio nel momento di più alto scontro di classe un film sulla Prima Guerra Mondiale, che non poteva che apparire un diversivo a chi era impegnato nell’assalto al cielo e avrebbe avuto bisogno di intellettuali organici.

Detto questo, il film è certamente valido, è realista, ha personaggi tipici, dà molto da pensare, è a tratti godibile esteticamente, anche se molto distante da Orizzonti di gloria. Inoltre, nella parte conclusiva, vediamo finalmente, anche se per un momento breve, la guerra attraverso gli occhi dei proletari che la subiscono, assistiamo a un loro disobbedire ad un ordine suicida (il rifiutare di fucilare i propri commilitoni in una assurda decimazione) ma, anzi, rivolgere i fucili verso il sadico maggiore che la pretende.

A pagare per tutti è il giovane ufficiale, che dovrebbe esser il protagonista del film, anche se nella prima parte è oscurato da Gian Maria Volonté. Il processo catartico segnato dalla sua progressiva presa di coscienza, che arriva al punto di coprire i soldati insubordinati che hanno ucciso il superiore, di brindare alla presunta morte del generale, si interrompe in maniera piuttosto brusca con la sua fucilazione. Certo si tratta di una conclusione realistica, ma lascia poco spazio alla prospettiva e lascia l’amaro in bocca, finendo per produrre più sconforto che volontà di lotta, al punto che per alcuni aspetti ricorda la conclusione del Processo di Orson Welles.

La grande guerra di Mario Monicelli (8-) ha il pregio di affrontare con un tono da commedia, con un linguaggio cinematografico nazional-popolare in grado di rivolgersi a un pubblico amplissimo, la tragedia della Prima Guerra Mondiale, senza perdere di vista il contenuto sostanziale della vicenda. Certo, nel film sono meno accentuati i conflitti di classe fra ufficiali e soldati e, quindi – anche per la trasformazione della guerra imperialistica dopo Caporetto in una guerra di difesa nazionale – passa in secondo piano l’aspetto presente negli altri film, per cui il nemico marcia sempre alla testa della truppa. D’altra parte tale nemico, pur non essendo rappresentato dagli ufficiali, è comunque rappresentato dal ceto politico e sociale dominante con il suo ridicolo e ipocrita patriottismo, che si gode la vita incurante dei lavoratori costretti a morire in trincea.

Il film non perde mai di vista la rappresentazione realista e critica della tragica realtà della guerra, non perde di vista la diversa condizione dei diversi ceti sociali e mostra con chiarezza come le prime vittime della guerra siano i proletari. Certo, la prospettiva che si apre con la conclusione del film, la catarsi non convince del tutto. In primo luogo perché i protagonisti finiscono fucilati proprio nel momento in cui prendono coscienza, anche se ciò li riscatta e la loro non è una sconsolante morte kafkiana come quella che vediamo nel film di Rosi. Anzi, la fucilazione nel film di Monicelli segna il superamento della prospettiva sottoproletaria, assunta in precedenza dai due protagonisti, che in qualche modo si riscattano dinanzi al disprezzo razzista e classista dell’ufficiale nemico.

In questo caso emergono, però, anche i limiti di questa rappresentazione filmica nazional-popolare della guerra, che finisce per mettere troppo in secondo piano gli aspetti del conflitto di classe. Per i personaggi rappresentati dai due protagonisti una maggiore e più avanzata presa di coscienza sarebbe apparsa non realista, ma proprio qui si concretizza il limite di un film che non appare in grado nemmeno di abbozzare una posizione più avanzata e alternativa a quella del lazzarone anarcoide messa alla berlina e infine, per quanto possibile, riscattata. Il rischio è di cadere in un certo brescianesimo, per cui finiscono per essere gli ufficiali i personaggi più complessi, mentre è solo sui personaggi popolari e piccolo borghesi che si sfoga l’amara ironia del regista, arrivando in alcuni casi a ridurli a macchiette folcloristiche ai limiti del razzismo.

Detto questo, la capacità del film di essere apprezzato al contempo dalla critica, con il Leone d’oro a Venezia, e da ampi settori popolari, ha dato particolarmente fastidio all’ala conservatrice della classe dominante, che ha cercato in ogni modo di contrastarlo. E ciò è la migliore controprova della sua funzione progressiva.

24/10/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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