Il terzo omicidio di Kore'eda Hirokazu, Giappone 2017, voto: 10-; quando ormai c’eravamo rassegnati, per la spaventosa penuria di grandi film distribuiti nel 2019, a lasciare il primo posto a una serie tv, proprio a fine anno è stato finalmente distribuito in Italia – naturalmente in modo quasi clandestino – questo autentico capolavoro del grande maestro del cinema giapponese contemporaneo. Per la verità – a ulteriore dimostrazione che il 2019 sia un anno da dimenticare, anche dal punto di vista cinematografico – si tratta di un film del 2017, distribuito in Italia a causa del successo internazionale finalmente conseguito da Kore’eda grazie a Un affare di famiglia, meritata palma d’oro a Cannes, e a Le verità, prima produzione internazionale. Il terzo omicidio è in realtà migliore non solo del discreto Le verità, ma anche dell’ottimo Un affare di famiglia, di cui rappresenta la versione tragica. Al centro del film vi è, non solo come nei due precedenti, la grande questione filosofica del rapporto fra verità e apparenza, ma la più complessa relazione fra il fondamento veritativo, la sua manifestazione fenomenica e il grande tema della giustizia. Tema finalmente inteso correttamente come giustizia necessariamente classista, in una società ancora divisa in classi sociali con interessi necessariamente antagonisti. A decidere la “verità” giudiziaria restano così i rapporti di forza, al momento decisamente favorevoli alla grande borghesia al potere, tanto che sin dall’inizio il verdetto sembra scontato, considerato che abbiamo un operaio che ha assassinato il suo padrone. Tanto più che il proletario è anche recidivo, avendo giustiziato trent’anni prima una coppia di sciacalli usurai, per di più mafiosi, che tormentavano i ceti popolari in crisi dell’isola più povera del Giappone. In quel caso, i rapporti di forza erano differenti, tanto che persino i giudici borghesi, oggi accesi sostenitori della condanna a morte, erano costretti a tener conto del contesto sociale. Tanto che allora il proletario era sfuggito alla condanna a morte, finendo con lo scontare trent’anni di prigione. Mentre ora la sua condanna a morte pare scontata. Anche il vecchio giudice che lo ha assolto, ora pensa astrattamente, vedendo in lui solamente un criminale recidivo.
In realtà, naturalmente, le cose non stanno affatto così. È un modo di pensare intellettualistico, astratto e reazionario vedere nel criminale soltanto l’assassino recidivo. Anche quest’ultimo, infatti, è un uomo decisamente più complesso, dialettico, ricco di sfaccettature. Discorso analogo vale per il contesto in cui si svolgono questi crimini, che naturalmente non sono fini a se stessi, ma riconnettendoli alle loro cause economiche e sociali assumono un significato decisamente differente. Tutto ciò evidentemente non può interessare alla “giustizia” classista borghese, assolutamente disinteressata ad approfondire cosa si cela dietro i profitti del capitalista e i motivi sociali e umanistici che portano il proletario, privo di coscienza di classe, alla vendetta che assume un significato a sua volta sociale. Dal punto di vista della magistratura inquirente non solo la giustizia reale, ma la semplice ricerca della verità non hanno alcun interesse, ciò che conta è sbattere al più presto il tipico mostro in prima pagina, cui comminare una pena esemplare che serva d’esempio per tutte le classi “pericolose” dei ceti subalterni. Anche dal punto di vista del giudice ciò che conta è di dimostrare la produttività della giustizia “classista” borghese, per cui se c’è da condannare un proletario che ha ucciso il padrone, tanto generoso da dargli un lavoro nonostante fosse un ex criminale, non ha senso prolungare il processo, per approfondire la questione, visto che emergono diversi aspetti nuovi e imprevisti, che dovrebbero portare a istituire addirittura un nuovo procedimento penale. Ciò che resta è la questione fondamentale, che rappresenta la presa di coscienza per quanto tardiva del proletario, ovvero chi è che decide chi sia da giudicare. Questione che sostanzialmente la giustizia di classe, stante gli attuali rapporti di forza, neppure si pone, ritenendo naturale che sia la classe dominante a giudicare il subalterno, nel momento che osa alzare, in qualche modo, la testa.
When They See Us di Ava DuVernay, Usa 2019, miniserie in quattro parti, disponibile su Netflix, voto: 9,5; indubbiamente la migliore e l’unica serie davvero imperdibile della stagione. When they see us, opera della grande regista afroamericana Ava DuVernay – autrice fra l’altro del bel film Selma - La strada per la libertà – è una serie a tal punto avanzata e rivoluzionaria da poter essere interpretata come una magnifica confutazione dell’idealismo di Unbelievable, quasi certamente la seconda serie di maggior spessore distribuita quest’anno. In effetti, When They See Us mostra nel modo più crudamente realistico la effettiva attitudine degli apparati repressivi dello Stato statunitense – a prescindere se i commissari inquirenti siano uomini o donne – nei riguardi del delitto dello stupro subito da una donna bianca benestante. Non a caso la storia vera raccontata da When They See Us denuncia, sin dal titolo, come soltanto in questi tragici casi gli apparati dello Stato sembrano ricordarsi dell’esistenza degli afro-americani e degli ispanici, per il resto confinati in ghetti, per immolarli come capri espiatori sulla base del topos razzista dell’uomo nero sempre pronto a stuprare la donna bianca. Nel secondo episodio si denuncia il completo stravolgimento della “giustizia” in strumento di repressione delle classi “pericolose”, connotate razzialmente negli Usa, ovvero quale repressione preventiva degli afroamericani e dei latinos dei ghetti. Si tratta di un puro sfoggio di violenza del tutto gratuita e indiscriminata con il solo scopo terroristico – simile a quella praticata dai dori spartani nei confronti degli Iloti, per mantenerli in uno stato di assoluta subordinazione. Ecco così che non solo gli apparati repressivi dello Stato, ma lo stesso procuratore non devono accertare la verità e individuare il colpevole, ma individuare nel tempo più rapido possibile i “colpevoli” meglio spendibili sul piano politico-sociale, da dare in pasto agli apparati ideologici dello Stato, affinché sbattano come mostro in prima pagina il capro espiatorio su cui scaricare il disagio sociale creato da un modo capitalistico di produzione sempre più in crisi. Nella terza puntata si denuncia come dei bambini del tutto innocenti, essendo afroamericani di famiglie non benestanti, non solo sono stati condannati a passare tutta l’adolescenza in carcere, ma, una volta usciti, sebbene riconosciuti innocenti, sono completamente bruciati per la società civile e non gli è data una reale possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro. Così uno di loro si vede costretto a divenire spacciatore e finisce così, come previsto e auspicato dal sistema, per tornare in carcere; un secondo riesce a reinserirsi solo aderendo all’islam; un terzo deve rinunciare alla ragazza per poter risparmiare e pagarsi gli studi; un quarto ha difficoltà a fare i conti con il padre che, per difendere il posto di lavoro, si è visto costretto ad abbandonarlo dopo la falsa accusa di stupro. Il quarto episodio, infine, mostra il vero e proprio calvario dell’unico dei cinque ingiustamente incriminati che aveva appena raggiunto la maggiore età e, quindi, è stato costretto a scontare ben quattordici anni di carcere duro, dove subisce ogni forma di sevizie dai secondini e dai carcerati suprematisti bianchi. In ultimo, per un puro caso il vero stupratore e assassino seriale, già in carcere, confessa di essere l’unico artefice del delitto, facendo così emergere la spaventosa montatura architettata dagli apparati di sicurezza dello Stato, dal pubblico ministero e dai mezzi di comunicazione di massa per criminalizzare il proletariato afroamericano e latino-americano, costruendo artificiosamente – a partire da Trump – una spaventosa macchina di menzogne che non solo ha rovinato la vita a cinque adolescenti innocenti e alle loro famiglie, non solo ha criminalizzato l’intera comunità di Harlem, ma ha nei fatti coperto gli stupri e assassini seriali di un criminale, che sarebbe stato facilissimo arrestare, se solo ci fosse stato il minimo interessare a individuare il reale colpevole. Naturalmente, neanche la critica più radicale italiana si è accorta di questa serie da non perdere.
Ancora un giorno di Raúl de la Fuente e Damian Nenow, documentario e animazione, Spagna, Polonia, Germania e Belgio 2018, voto: 9+; film rivoluzionario sia nella forma che nel contenuto, narra l’epopea della lotta per la liberazione dal colonialismo e dall’apartheid attraverso un geniale utilizzo estremamente significativo di immagini di repertorio, odierne e di disegni animati. Anche questo film è stato ampiamente bistrattato dalla “critica” e dalla distribuzione.
Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, Italia 1948, voto: 9; un classico immortale, tra i capolavori assoluti del cinema neorealista, il film assicura ancora oggi elevato godimento estetico, lasciando al contempo molto da riflettere agli spettatori. Colpisce drammaticamente come la situazione di proletari e sottoproletari del tempo, dopo una guerra disastrosamente persa, non siano molti diversa da quella attuale, a dimostrazione che anche la guerra fredda è stato un conflitto disastrosamente perso dal mondo del lavoro.
Sorry We Missed You di Ken Loach, Gran Bretagna, Francia e Belgio 2019, voto: 9-; grande film di denuncia sulle condizioni di sfruttamento del proletariato moderno, che pare sempre più prossimo a precipitare nelle drammatiche condizioni del diciannovesimo secolo, dal momento che le conquiste di un secolo di epiche lotte sociali vanno perdute a una a una, a causa del crescente individualismo e della mancanza di coscienza di classe degli sfruttati.
Grazie a Dio di François Ozon, Francia 2019, voto: 8,5; grandioso film, ricco di profondi sentimenti umani, a tratti davvero commovente, denuncia con indubbio coraggio le gravissime responsabilità dei vertici della chiesa cattolica nella copertura dei propri membri, anche nel caso siano stupratori seriali di bambini. Tali delitti sono resi possibili dalla profonda ipocrisia dei benpensanti fedeli e dal classismo dei tribunali borghesi che, persino dinanzi a prove schiaccianti – corredate da continue autoconfessioni dei propri delitti da parte dei prelati e da denunce del mancato aiuto della gerarchia affinché gli impedissero di perpetrare tali crimini – finisce con il non condannare alcuno, ritenendo presunti innocenti anche i più recidivi e incalliti colpevoli. D’altra parte solo la lotta paga, portando ad aumentare da 20 a 30 anni il tempo di prescrizione di reati così difficili da denunciare per le povere creature innocenti che continuano a subirli.
Vice - L'uomo nell'ombradi Adam McKay, USA, Gran Bretagna, Spagna ed Emirati Arabi Uniti 2018, voto: 8+; un coraggioso film da non perdere su uno dei protagonisti più oscuri e malvagi della maggiore potenza imperialistica mondiale. Il film assicura godimento estetico e questioni sostanziali su cui riflettere allo spettatore.
Il coraggio della veritàdi George Tillman Jr., Usa 2018, voto: 8; ottimo film, finale a parte, sulla lotta contro le discriminazioni razziali che tendono a rendere impossibile negli Stati Uniti la vita degli afroamericani anche ai nostri giorni.
L'ufficiale e la spia di Roman Polanski, USA 2019, voto 8; magistralmente girato e diretto, il film resta attualissimo e molto istruttivo sui danni dei pregiudizi razziali, sulle tendenze eversive dei militari, sulla difficoltà a contrastare il senso comune nutrito di pregiudizi della guerra. Notevole la denuncia della lista di proscritti da internare in caso di guerra, comprendente tutti gli stranieri e tendenzialmente anche i cittadini di religione ebraica. Peccato che, come spesso accade, Polanski si dimostra reazionario. Persino in un film volto a denunciare le malefatte dell’esercito in un paese imperialista, riesce a rendere l’eroe che risolve la difficilissima questione un militare di destra e antisemita, per altro posto alla direzione dei servizi segreti. Paradossalmente, con un clamoroso rovescismo storico, il merito della liberazione di Dreyfus appare tutto suo, mentre lo stesso Zola appare sostanzialmente come un comprimario prestanome. Infine, l’avvocato di sinistra martire della causa viene presentato come lo poteva considerare il militare a capo dei servizi segreti, alquanto antisemita, ovvero come un personaggio mefistofelico, furfantesco e incapace di raggiungere gli obiettivi comuni.
Sarah & Saleem - Là dove nulla è possibile di Muayad Alayan, Palestina 2018, voto: 8; importante film di denuncia della condizione di apartheid che vivono gli arabi israeliani, a causa della perdurante occupazione del proprio paese. Occupazione che finisce per ritorcersi, violando la stessa libertà personale, contro gli stessi ebrei israeliani.
Goldstone dove i mondi si scontrano di Ivan Sen, Australia 2016, voto: 8-; ottimo film politico di denuncia dello spaventoso razzismo, classismo ed estrattivismo che dominano nell’Australia profonda. Molto significativa la denuncia delle condizioni di sfruttamento sessuale delle schiave del sesso orientali, ancora ridotte alla condizione dei coolie cinesi. Altrettanto importante è la denuncia della condizione spaventosa dei sopravvissuti nativi al genocidio. I personaggi sono tutti tipici e complessi, in quanto rappresentati in modo realistico con tutte le loro contraddizioni: da quello del direttore della grande miniera, a quello della sindaca, dal nativo rinnegato postosi al servizio dei padroni caucasici, ai due poliziotti. Peccato che gli eroi sono comunque membri degli apparati repressivi dell’imperialismo australiano, peccato che ci sia una visione sostanzialmente idealistica degli aborigeni legati alle loro più antiche tradizioni, senza mostrare le pur a ragione denunciate catastrofi prodotte dalla diffusione dell’alcol. Peccato, infine, per l’ambigua presentazione dei cinesi che, per quanto continuano a essere sfruttati – poco realisticamente, come i coolie di un tempo – al contempo vengono denunciati come assetati di denaro tanto quanto i colonialisti e conquistadores bianchi.
Un'altra vita – Mug di Malgorzata Szumowska, Polonia 2018, voto: 8-: finalmente un gran bel film dai paesi ex in transizione al socialismo dell’est Europa. Il film denuncia con forza, realismo e ironia cosa ha prodotto la transizione al capitalismo nella società rurale polacca.
Panama Papers di Steven Soderbergh, Usa 2019, voto: 8-; importante film di denuncia dei meccanismi diabolici del capitale finanziario e dei paradisi fiscali, a partire da quelli posti negli Stati Uniti. Il film fa controinformazione su questi aspetti decisivi senza annoiare, anzi riuscendo a suscitare più di una volta un sorriso amaro. Unico neo è che la storia è narrata dai due principali imputati impersonati da due attori molto popolari, ma incapaci di utilizzare il quanto mai necessario, in casi come questo, effetto di straniamento.
Schindler's List- La Lista di Schindler, di Steven Spielberg, Usa 1993, voto: 7,5; ottimo film che dimostra la capacità di egemonia dell’imperialismo statunitense capace di una netta denuncia della barbarie nazista, senza metterne in discussione la causa, ovvero il modo capitalistico di produzione. Al punto che eroe della salvezza degli ebrei diviene uno spietato e ultra sessista avventuriero imprenditore che, dopo aver sfruttato in ogni modo la manodopera ridotta a uno stato di schiavitù offerta dai nazisti, ne mette in salvo una minoranza insignificante, in quanto trova irrazionale la soluzione finale che elimina manodopera gratuita.
Sofia di Meryem Benm'Barek, Francia, Qatar, Belgio 2018, voto: 7,5; film estremamente interessante, sviluppa un’analisi di classe sulle discriminazioni di genere e socio-economiche nel Marocco contemporaneo.
Vertigo - La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, Usa 1958, voto: 7,5; ottimo prodotto, puramente culinario e mirabilmente confezionato dell’industria culturale. Come ha osservato a ragione Scorsese decisamente superiore agli attuali prodotti d’evasione. Il film appare piuttosto datato, in quanto si basa sul pregiudizio idealista della predestinazione ereditaria, volto a rendere immutabili i rapporti sociali. Colpisce inoltre il maschilismo più accentuato e una concezione ancora sostanzialmente aristocratica nei confronti del lavoro. Ancora più incomprensibile è l’esaltazione del tutto acritica di questi prodotti, per quanto mirabilmente confezionati, dell’industria culturale da parte dei cinefili.
Voglio mangiare il tuo pancreas di Shin'ichirô Ushijima, animazione, Giappone 2018, voto 7,5; film d’animazione per tutte le età davvero toccante e che lascia al contempo molto su cui riflettere allo spettatore.
Unbelievable di Susannah Grant e Lisa Cholodenko, miniserie televisiva in otto puntate disponibile su Netflix, Usa 2019, voto: 7,5; notevole l’episodio pilota di questa serie dedicata alla denuncia di una questione sostanziale come la violenza (in primo luogo sessuale) degli uomini sulle donne. Non solo lo stupro è denunciato realisticamente in tutta la sua oscena brutalità, ma si evidenza l’ancora più incredibile violenza della società capitalista e maschilista nei riguardi delle donne vittime, soprattutto se esponenti delle classi subalterne, che sono in modo incredibilmente rapido trasformate in inquisite e, nei fatti, costrette ad autodenunciarsi per falsa testimonianza. Il primo episodio, apparentemente compiuto in modo perfetto, dà l’impressione di una assoluta necessità che sembra negare la possibilità di reagire liberamente anche dinanzi a una situazione apparentemente priva di via di uscita. Nel suo apparentemente estremo realismo, il primo episodio ha il limite di una rappresentazione naturalista o verista, in cui non c’è alcuna prospettiva di riscatto, tanto che appare necessario il fatto che moltissime donne delle classi subalterne preferiscano non denunciare la violenza sessuale subita. Nel secondo e terzo episodio il telefilm rientra per un certo verso nei ranghi con una detective impeccabile e stacanovista e una collega dura, segnata dalla vita, ma in gamba. Entrambe sanno bene cosa possa significare uno stupro per una donna e sanno anche come venga generalmente sottovalutato dai colleghi maschi. La loro determinazione le porta a comprendere che, considerata la quasi assenza di delinquenti molto intelligenti, i delitti seriali di stupro commessi senza lasciar traccia non possono che essere il prodotto di un collega. Ancora una volta, così, abbiamo una rappresentazione molto realistica di questa problematica sostanziale, impensabile in un paese provinciale e bigotto come il nostro, nel quale mai sarebbe stato prodotto e diffuso un telefilm che denuncia come la polizia occulti la violenza subita da una povera ragazza subalterna e sia al contempo fra i maggiori indiziati di questi delitti finalmente denunciati in tutta la loro barbarie. Per altro in Italia una serie del genere avrebbe creato uno scandalo senza fine, mentre negli ultra reazionari Stati Uniti anche questi scottanti contenuti riescono a passare senza sollevare un pretestuoso polverone da parte dei benpensanti. Certo, le eroine della serie sono, anch’esse, membri della polizia, che poco realisticamente sembrano vivere come una missione la loro azione di contrasto agli stupratori, anche se realisticamente ci sono presentate più come l’eccezione, che la regola. Il quarto e quinto episodio accentuano la denuncia del sessismo e del numero incredibilmente elevato di membri della polizia che confessa di aver compiuto azioni violente contro le donne. Allo stesso modo, nella maggior parte dei casi, le inchieste per stupro suscitano scarso interesse in particolare negli agenti maschi, in quanto non sono in grado di coglierne o non intendono intenderne gli effetti devastanti sulle donne. D’altra parte, come un po’ tutte le serie, anche in questo caso si tende ad allungare un po’ troppo il brodo. Nella settima puntata tutti i nodi sembrano venire al pettine. Il poliziotto per quanto criminale è scagionato e lo stupratore si rivela essere un congedato con onore dai marines, il che dà da pensare su quanto quell’esperienza possa avere conseguenze tragiche. Infine, l’ultimo episodio cerca di far emergere, attraverso le due protagoniste, il lato buono della polizia, anche se finiscono con l’apparire quasi delle mosche bianche, in un ambiente in cui sono gli stessi poliziotti a offrire con un libro su “come realizzare lo stupro perfetto”, strumenti didattici decisivi per i potenziali stupratori seriali, ai quali è offerta la possibilità di perpetuare i loro delitti senza lasciare tracce. Al punto che è chi denuncia lo stupro a correre molto più il rischio di essere denunciato per falsa testimonianza, cosa decisamente impensabile per chi denuncia una rapina o un furto, ovvero un delitto decisamente di minore gravità.