Luca di Enrico Casarosa, animazione e avventura, Usa 2021, Pixar distribuito sulla piattaforma di streaming Disney+, voto: 6. Il film ha avuto una nomination a miglior film d’animazione ai premi Oscar. Realizzato dalla Pixar, è certamente meno peggio dell’insostenibile Encanto della Disney. Anche in questo caso c’è la trovata di una ambientazione “esotica”, nel caso specifico in Liguria. Il film è certamente formalmente ben orchestrato e assicura un certo godimento estetico. Anche il contenuto incentrato sull’importanza di riconoscere l’altro, il diverso, contro ogni guerra di civiltà, è di un certo rilievo. Peccato che rimangano le tipiche impostazioni antidialettiche della Disney, per quanto limitate ai personaggi principali, con un super cattivo e due eroi un po’ troppo astrattamente buoni.
Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger, drammatico, storico, Germania, Usa 2022, distribuito da Netflix, nomination miglior film straniero ai Golden globe e ai Critics Choice Award 2023, voto: 6.
Essere Giorgio Strehler di Simona Rosi, documentario, Italia 2021, voto: 6; grande occasione mancata per narrare la vicenda di un grandissimo regista del teatro pubblico italiano. Pur avendo a disposizione aspetti molto significativi della vicenda storico-biografica del grande regista – dalla partecipazione alla resistenza, alla militanza nel Partito Socialista, all’aver portato in Italia l’eccezionale teatro di Bertolt Brecht – il documentario, privo di qualsiasi spina dorsale e taglio interpretativo, mette insieme testimonianze di mediocrissimo interesse sugli avi del regista e interviste scarsamente significative fatte negli ultimissimi anni della vita di Strehler, quando ormai non aveva più nulla di veramente significativo da comunicare. Anche la questione potenzialmente molto interessante del controverso rapporto con il movimento del sessantotto viene appena accennata nel documentario.
Quando eravamo re di Leon Gast, documentario, Usa 1996, distribuito da Cineteca di Bologna, voto: 6; documentario ben realizzato – con un’ottima colonna sonora – a tratti interessante, godibile e avvincente. Dal film emerge tutta la subalternità ideologica della componente moderata del movimento di liberazione degli afroamericani, ben impersonato dall’eccezionale atleta Mohamed Ali. Quest’ultimo ha certamente assunto una posizione decisamente rivoluzionaria ed eroica quando si è rifiutato di andare a combattere le forze antimperialiste in Vietnam, sostenendo che i reali nemici degli afroamericani sono i razzisti e filoimperialisti del loro stesso paese. In tal modo, pur giunto all’apice di una eccezionale carriera, il pugile ha affrontato con coraggio la condanna al carcere e il dover rinunciare al lavoro proprio nel momento in cui aveva conseguito la piena maturità. Proprio al contrario, in Quando eravamo re, Mohamed Ali finisce per farsi strumentalizzare dal peggior tiranno criminale filoimperialista d’Africa, il generale fellone Mubuto, colpevole del tradimento e del barbaro assassinio di Lumumba, simbolo vivente della lotta di liberazione antimperialista dell’Africa e del suo, a oggi essenzialmente abortito, processo di unificazione. Peraltro, nonostante l’amicizia con Malcom X, Mohamed Ali continua a far parte dei Fratelli musulmani, sebbene fossero stati proprio loro a perpetrare l’assassinio del grande rivoluzionario afroamericano. Oltre a tutte queste ambiguità ideologiche – di cui gli autori del film appaiono del tutto inconsapevoli – il documentario essendo tutto incentrato su un incontro di boxe per quanto epico, finisce per essere ripetitivo e anche un po’ noioso. Anche la presentazione adialettica, apologetica e, dunque, acritica di questo grande campione sportivo finisce per essere, alla lunga, un po’ stucchevole. Resta l’eccezionale classe e la grande intelligenza tattica di un eccezionale boxeur che riesce a vincere una sfida impossibile.
ll nostro Eduardo di Didi Gnocchi e Michele Mally, documentario, Italia 2020, voto: 6; un film di mediocre qualità che parte nel modo peggiore parlando dei nipoti, alcuni dei quali non hanno nemmeno mai conosciuto Eduardo De Filippo, e che, soprattutto, non si sono mai occupati di teatro. Se si riesce a superare questa introduzione assolutamente insostenibile, la grandezza del personaggio – la cui parabola ricostruisce il documentario – lo rende di certo meritevole di essere visto, alquanto godibile e, a tratti, persino emozionante.
La fiera delle illusioni – Nightmare Alley, azione e drammatico, Usa 2021, voto: 6. Melodrammone con tinte noir certamente ben congegnato, ma altrettanto decisamente sopravvalutato. Il film ha qualche spunto interessante quando svela i trucchi degli imbroglioni sedicenti dotati di poteri paranormali, anche se finisce, con la consueta vena reazionaria antintellettualistica statunitense, a porli sullo stesso piano degli psicoanalisti. Il film sembra una ripresa in chiave hollywoodiana de La strada di Fellini contaminato con Freaks di Tod Browning. Si tratta, dunque, di una ripresa manieristica di due grandi classici del cinema. Siamo di fronte a una merce ben confezionata dell’industria culturale statunitense, indubbiamente emozionante, ma che lascia troppo poco su cui riflettere allo spettatore.
Reservation Dogs è una serie televisiva brillante statunitense creata da Taika Waititi e Sterlin Harjo, in Italia è disponibile su Disney+, come Star Original, voto: 6; serie piuttosto realista sulle difficili condizioni sociali dei nativi nelle riserve. Reservation Dogs ha certamente ritmo e ha come sfondo delle questioni sostanziali, anche se è troppo minimal e la forma della commedia pare poco adatta, dal momento che i temi affrontati sono decisamente tragici. Peraltro l’impronta sostanzialmente verista non favorisce quell’effetto di straniamento necessario a una comprensione critica degli eventi. Inoltre, la sostanziale assenza di grandi ambizioni e di spirito dell’utopia finisce con l’appiattire un po’ troppo i personaggi, dal momento che l’unica via di fuga dalla condizione deprimente della riserva pare essere l’emigrazione nella presunta terra promessa del capitalismo.
L’aspetto positivo della serie è che vi è una consonanza sentimentale fra gli autori e il loro popolo di cui, pur evidenziando realisticamente le contraddizioni, si evita di dare esteriori giudizi moralisti e non ci si lascia andare a quel rimestare nel torbido tanto caro a troppi registi italiani. Il limite è che ci si accontenta del punto di vista sulla storia del cameriere proprio dei personaggi messi in scena, abdicando al ruolo dell’intellettuale che nell’opera dovrebbe esprimere lo spirito assoluto dell’umanità.
La scuola cattolica di Stefano Mordini, drammatico, Italia 2021, voto: 6; film che denuncia a ragione la violenza, il filisteismo, la depravazione, il nichilismo della classe dominante, ma che perde di vista la denuncia dei suoi settori più reazionari, ovvero dei nazi-fascisti autori della strage in questione. Dunque, se da una parte fa certamente bene il film ad allargare lo sguardo e a mettere in questione l’intera classe dominante e le sue scuole private e confessionali, poi omette in modo assurdo la denuncia della matrice nazi-fascista degli esecutori della violenza cieca e terroristica degli oppressori e le complicità che hanno loro, generalmente, permesso di farla franca.
Elvis di Baz Luhrmann, biografico, Stati Uniti e Australia 2022, voto: 6; solito polpettone di discreta qualità dell’industria culturale, volto a rilanciare il sogno americano e a mettere in scena, in modo apologetico, alcuni dei personaggi più esecrabili dello star system a stelle strisce. Nel caso specifico abbiamo come sostanziale protagonista un personaggio che avrebbe impresso una svolta ulteriormente reazionaria al ruolo di manager, implementando lo sfruttamento dei suoi assistiti e lavorando in modo sostanzialmente diretto al servizio della malavita organizzata. Tale allucinante personaggio viene al solito presentato, pur non potendo occultare del tutto le sue colpe, per cui è stato pubblicamente condannato, come un grande protagonista del sogno americano in quanto da oscuro immigrato clandestino era diventato un manager apparentemente potentissimo. In realtà rimaneva vulnerabilissimo in quanto, per la sua smodata avidità e passione per il gioco d’azzardo, era diventato una marionetta dei poteri forti e della malavita organizzata. Tanto che aveva sfruttato in modo così smodato la sua gallina dalle uova d’oro, che ne provocherà la morte prematura ad appena quarantadue anni, dopo aver reso Elvis Presley il fantasma di se stesso, rendendolo totalmente schiavo degli stupefacenti. Il film avrebbe potuto essere un perfetto esempio di fascismo quotidiano, se avesse avuto il coraggio di mostrare come perseguendo esclusivamente i propri interessi particolari, con tutti i mezzi necessari, non solo si diviene di fatto dei criminali, ma si distrugge se stessi e la propria famiglia senza poter mai essere felici. Di tutto ciò, naturalmente, non c’è traccia nel film anche perché, come generalmente avviene, si rimane inchiodati al sistema Stanislavskij, cioè alla completa e acritica identificazione degli attori e dell’intera troupe nei personaggi, per quanto meschini ed esecrabili, che si intende mettere in scena. Mattatore nel film di questo ormai completamente superato e inaccettabile metodo di recitazione è Tom Hanks che ha il grande demerito di far di tutto per far impersonare lo spettatore in un personaggio di uno squallore davvero straordinario. Quest’ultimo viene presentato come un epico genio del male, tanto da essere costantemente messo a confronto con gli eccezionali personaggi negativi interpretati da Orson Welles, senza rendersi conto di quanto il paragone sia del tutto fuori luogo, tanto che la tragedia non poteva che scadere nella farsa. Ancora più esecrabile è la scelta di assumere come punto di vista per raccontare una, in realtà, piccola storia ignobile, la prospettiva più reazionaria e particolarista. Senza contare che, al solito, la totale mancanza del benché minimo pensiero critico, porta gli artefici del film a sentirsi dei grandi artisti e a prolungare oltre i limiti dell’umana sopportazione un plot alquanto scadente. A rendere comunque tollerabile il film è l’essere un prodotto di quella terrificante industria monopolistica culturale che, dovendo imporre i suoi prodotti al grande pubblico, non può ricorrere a quei formalismi ideologici reazionari cari al pensiero debole postmoderno, di cui sono sovraccarichi i sottoprodotti sedicenti d’autore, tanto cari agli a-critici della a-sinistra (imperialista).
La syndicaliste di Jean-Paul Salomé, con Isabelle Huppert, thriller, Francia 2022, voto: 6; ennesimo film costruito intorno alla grande protagonista Isabelle Huppert, dimostra ancora una volta l’attenzione del cinema francese alle tematiche socio-economiche. Il film contiene anche una significativa denuncia della violenza dei politicanti e dei dirigenti di aziende pubbliche vicini alla destra e del maschilismo dominante negli apparati repressivi dello Stato, ma ben piazzato anche all’interno della magistratura. Peccato che si idealizza una sindacalista di un sindacato sostanzialmente di destra e si porti avanti la solita campagna sinofoba, funzionale alla nuova guerra fredda portata avanti dall’imperialismo occidentale.
The Gilded Age, serie televisiva statunitense creata da Julian Fellowes e ambientata durante la Gilded Age [l’età d’oro] degli Stati Uniti, nel decennio degli anni '80 del 1800 a New York, prima stagione in 9 episodi, in Italia in onda su Sky serie, voto: 6. Serie godibile, ma molto discutibile in quanto descrive in modo acritico e sostanzialmente apologetico un periodo tragico della storia degli Stati Uniti. Al centro della vicenda troviamo infatti la lotta della donna della famiglia dei nuovi ricchi, capitalisti privi di scrupoli, che vogliono essere accettati nell’esclusiva cerchia degli aristocratici, composta dalle famiglie dei più antichi immigrati, generalmente d’origine fiamminga. Il film intende rilanciare il sogno americano di una società aperta secondo cui, grazie allo spirito di intraprendenza, si potrebbe – pur partendo dal fondo – raggiungere meritocraticamente i vertici della società. Nella serie non emerge per niente come per uno che magari corona il sogno americano ce ne sono almeno altri novantanove che falliscono tragicamente e restano oppressi, subalterni e sfruttati per tutta la vita. Inoltre non si vede come l’età dell’oro si sia potuta affermare solo attraverso il genocidio degli amerindi e una politica estera sempre più aggressiva e imperialista, senza contare l’enorme sfruttamento degli immigrati, alimentando ad arte il razzismo. Certo nella serie si sfiorano alcune questioni sostanziali, come la tragica condizione degli afroamericani, anche se da un punto di vista assolutamente atipico di una famiglia benestante che, a propria volta, sfrutta il lavoro servile di altri afroamericani. Certo la serie è indubbiamente piacevole, ci sono degli spunti di critica sociale alla Balzac, anche se a un livello naturalmente decisamente più basso e commerciale.
Hustle, regia di Jeremiah Zagar, commedia, Usa 2022, distribuito da Netflix, voto: 6. Si tratta di un film ben confezionato e coinvolgente sulla difficoltà di emergere, anche a livello sportivo, per chi ha il gravissimo handicap di dover fare l’operaio per sopravvivere. Per quanto piacevole, in particolare per chi ama il basket, il film lascia troppo poco di sostanziale su cui riflettere allo spettatore.
Genius: Aretha, miniserie, di National Geographic, trasmessa in Italia da Disney plus, dedicata ad Aretha Franklin, voto: 6. Discreta miniserie che racconta la vita, per certi aspetti tipica, della cantante afroamericana; Aretha ha l’impostazione naturalista tipica dei prodotti dell’industria cinematografica a stelle e strisce, con tutti i suoi pregi e difetti. L’idea del genius è decisamente borghese, come piccolo borghese è la storia della lotta della cantante per abbandonare il jazz per conquistarsi fama e soldi attraverso il pop. Nella cosiddetta musica popular e nelle canzoni di successo della Franklin ritroviamo tutta l’ambiguità del termine popolare per come viene utilizzato dall’ideologia dominante, per connotare una merce sostanzialmente gastronomica spacciata dall’industria culturale. Per quanto si tratti di un’impresa capitalistica nella sua fase di decomposizione, si tratta della più importante e dominante industria culturale, con tutti i suoi pregi e limiti. La serie è mediamente interessante in quanto intreccia alcune questioni storiche sostanziali con una vicenda particolare, anche se non propriamente tipica. D’altra parte gli autori della serie evitano eccessi di ideologia postmoderna che la indebolirebbero in quanto si tratta di una merce destinata a un ampio pubblico. Ciò fa sì che diversi temi significativi siano affrontati con una certa verosimiglianza e ciò consente, altresì, di far emergere diverse contraddizioni reali che rendono così interessante l’analisi della realtà. Abbiamo innanzitutto la questione centrale per l’artista di discernere sino a che punto ci si può spingere per raggiungere il successo e rivolgersi a un grande pubblico scendendo a patti con le dinamiche dell’industria culturale. Abbiamo poi la questione del rapporto dell’artista di successo con le grandi dinamiche del mondo storico e sociale del proprio tempo. In entrambi i casi si tratta di temi di indubbio spessore, anche se la soluzione che ci viene proposta – in modo adialettico e sostanzialmente agiografico, dal punto di vista della protagonista – appare non all’altezza della posta in gioco. Certo nel secondo caso, sopra evidenziato, la serie si anima in quanto la realtà con cui si deve confrontare la ormai celebre cantante è il grande sviluppo, alla fine degli anni sessanta, del movimento per l’emancipazione, in primo luogo degli afroamericani. Tale tematica incrocia, peraltro, anche la prima, in quanto Aretha Franklin nel momento in cui decide di partecipare attivamente alle lotte politiche e sociali è costretta a sacrificare il tempo dedicato all’industria culturale, da cui deriva il suo successo e la possibilità di poter raggiungere un ampio pubblico. Appare, inoltre la difficoltà oggettiva – già presente nella figura del padre quale intellettuale religioso afroamericano di successo – di trovare un accordo fra il prender parte alla lotta per l’emancipazione di una minoranza, particolarmente martoriata, di cui si è parte e l’esigenza di difendere i privilegi acquisiti, anche grazie a una brillante carriera, dinanzi alla lotta anche violenta di quella che ci viene presentata come una moderna plebe. Da qui il sostegno dato alla battaglia per i diritti civili, portata avanti da Martin Luther King attraverso la nonviolenza e la religione, in cui si mescolano anche inconsapevolmente posizioni opportuniste e revisioniste da una parte e progressiste dall’altra. La serie sfiora anche la tragedia del movimento di emancipazione degli afroamericani con le sue contraddizioni interne, dovute alla prospettiva tutto sommato reazionaria del ritorno in Africa e all’avventurismo della sfida allo Stato imperialista dal punto di vista militare, necessariamente suicida. Emerge anche lo sfruttamento da parte dell’industria culturale dei suoi dipendenti, soprattutto se donne e afroamericane. Infine, emerge l’emancipazione di Aretha dal suo marito-protettore, ma anche da una partecipazione alla politica attiva che metterebbe in questione la sua prospettiva di carriera nella società civile. Infine, emergono le contraddizioni dei predicatori afroamericani, nei quali si mescolano lotta per l’emancipazione del “proprio popolo”, oppio per il popolo, maschilismo e ipocrisia. All’inizio degli anni settanta vi è finalmente una svolta in senso radicale, anche se permane nella protagonista la consueta ambiguità, in quanto questa fase è segnata dalla relazione sentimentale con un imprenditore di “sinistra” ed è legata alla voglia di emergere della cantante nella società civile. Interessante come l’impegno “politico” porti Aretha Franklin a smettere di bere alcolici, dei quali era divenuta dipendente. Tale dipendenza era peraltro sfruttata dall’industria culturale per meglio tenerla sotto controllo. Gli ultimi due episodi risultano penosi e segnano il progressivo declino della cantante che procede di pari passo con la fine dei grandi movimenti sociali sviluppatisi nella seconda metà degli anni sessanta e nella prima metà degli anni settanta. Così negli anni ottanta la smania del successo porta la cantante a vendersi compiutamente non solo all’industria culturale, ma alla cricca mafiosa e di estrema destra di Las Vegas, contribuendo con la sua produzione di disco music al diffondersi dell’idiozia nella musica. Naturalmente nell’impianto naturalista della serie non vi è traccia né di una critica sociale, né di una critica storica e culturale, ma si mira esclusivamente a dimostrare l’assioma, presupposto sin dal titolo, del “genio”.
Il signore delle formiche di Gianni Amelio, Italia 2022, drammatico, biografico, voto: 6; il film rappresenta l’ennesima conferma del successo dell’ideologia dominante, imperialista, nello spostare l’attenzione dalle problematiche socio-economiche – connesse al conflitto sociale, compresa la contrapposizione alle politiche imperialistiche – alle questioni legate ai diritti civili e, in particolare, alla lotta contro le discriminazioni delle minoranze. Non è un caso che almeno tre dei film italiani presentati alla Mostra di Venezia insistano sulla lotta per la libertà sessuale delle minoranze e la totalità dei film italiani al Lido si disinteressino dell’opposizione all’imperialismo e dei conflitti economici e sociali. Quindi il film di Gianni Amelio, per quanto apprezzabile nel mostrare come prima della rivoluzione della fine degli anni sessanta anche in Europa occidentale ci fosse una dura repressione degli omosessuali, si disinteressa completamente di comprendere come tale questione si inserisca nel contesto socio-politico. In tal modo, paradossalmente, a essere messo alla berlina, dopo la religione, è il Partito comunista, cioè la forza politica che più ha contribuito a superare tali discriminazioni nei paesi in cui è riuscito a incidere sulla realtà.
Maigret di Patrice Leconte, drammatico, Francia 2022, con Gérard Depardieu, voto: 6; siamo infine stati costretti, a causa dei tempi oscuri in cui siamo costretti a vivere, a vedere e recensire un film di un regista espressione dell’industria culturale. L’occasione è stata la trasposizione cinematografica di un’opera del grande Georges Simenon. Perciò il plot del film, aspetto peraltro essenziale, è decisamente una sicurezza, mentre la trasposizione cinematografica è senza infamia né lode. Valida la scelta come protagonista di Depardieu, che interpreta in modo lodevole e naturale il protagonista. Certo, al di là degli spunti di critica sociale offerti dal testo di Simenon, il film non lascia molto su cui riflettere allo spettatore.
A casa tutti bene di Gabriele Muccino, drammatico, commedia, Italia 2018, voto: 6-; dopo aver visto la serie recentemente uscita, può valere la pena rivedere il film, anche perché si è ora in grado di comprenderne meglio e più a fondo le dinamiche e di apprezzarne meglio pregi e difetti. Fra i pregi, oltre alla indubbia capacità di sintesi, vi è una prova decisamente superiore degli interpreti e anche dei personaggi meglio costruiti, più contraddittori e dialettici, mentre nella serie tendono a cristallizzarsi in maschere. Ciò che invece emerge, anche a paragone con la serie, come maggiore e più significativo difetto del film è la mancanza di contenuto sostanziale dal momento che A casa tutti bene non si occupa praticamente per niente delle problematiche storiche, politiche, filosofiche e sociali e dimentica, in particolare, i conflitti sociali, vero motore della Storia. Da questo punto di vista il film è ancora più carente della serie che, con tutti i suoi limiti, sviluppa comunque una critica decisa alla classe dominante borghese.