Fenomeno e linguaggio in Aristotele

Proseguiamo la nostra recensione analitica delle parti più significative e meno specialistiche dell’opera: Incontro con Aristotele. Quindici lezioni di Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Einaudi, Torino 2016 – occupandoci, in particolare, della quarta parte intitolata: Vedere e ascoltare il mondo: il fenomeno e il linguaggio.


Fenomeno e linguaggio in Aristotele

Per quanto il mondo sia costituito da un numero enorme di fenomeni, processi e relazioni differenti, non per questo non deve essere considerato un tutto unitario, secondo Aristotele. Inoltre, gli uomini già spinti dalla curiosità dalla realtà che li circonda, hanno la possibilità di comprenderla progressivamente, in quanto essa tende inevitabilmente a manifestarsi. Da questo punto di vista la cosa stessa tende a corrispondere alla verità, sebbene non sempre gli uomini, per i loro pregiudizi, per i loro limiti soggettivi, riescono a cogliere tale stretta e indissolubile relazione. D’altra parte, per quanto gli uomini del passato avessero delle capacità conoscitive limitate e il singolo cada non di rado in errore, tuttavia dall’impegno comune la conoscenza del mondo nella sua verità si è sviluppata in modo sempre maggiore.

È, dunque, la cosa stessa e la forza persuasiva della realtà che ha condotto, a poco a poco, gli antichi studiosi della natura ad abbandonare le vie fallaci che inizialmente avevano seguito, limitandosi a ricercare la causa più bassa, quella materiale, o considerando unilateralmente l’aspetto logico, come aveva fatto Parmenide, in seguito costretto anche lui a cedere e ad accogliere l’importanza che ha, altresì, la conoscenza sensibile, per giungere anche il “venerando e terribile” filosofo di Elea alla conclusione che non può che esservi una pluralità di princìpi.

La modalità linguistica per distinguere il vero dal falso è l’enunciato predicativo, che asserisce l’appartenenza o meno di un attributo a un soggetto. La verità consiste in questi nessi del reale e dire la verità significa enunciare ciò che è realmente separato e asserire ciò che è effettivamente unito. Per comprendere se un enunciato è vero o falso bisogna prendere in considerazione la realtà cui si riferisce. Due fenomeni non sono collegati da un nostro enunciato, ma il nostro linguaggio è portato a considerarli in relazione in quanto lo sono di già nella realtà.

Per accertare la verità bisogna guardare al suo manifestarsi nei fenomeni. Questi ultimi sono rivalutati, insieme alle sensazioni e alle opinioni autorevoli e condivise del passato, contro la concezione parmenidea che aristocraticamente le negava, influenzando ancora il modo di pensare della scuola platonica.

Perciò Aristotele contestava il modo di pensare eleatico – presente per la sua attitudine aristocratica ancora in Platone – che pretendeva di poter conoscere a priori il mondo, deduttivamente, matematicamente e dialetticamente, senza farne la necessaria esperienza. Quest’ultima, al contrario, è essenziale – come mostra Aristotele – soprattutto per la conoscenza dei fenomeni naturali, che richiedono l’attenta osservazione della natura e non vuote costruzioni logiche aprioristiche. I sensi sono essenziali in quanto proprio per la loro passività ci restituiscono fedelmente la cosa stessa di cui facciamo esperienza. In quest’ultima è però decisivo il senso comune, che ci consente di unire le informazioni dei vari sensi, per poter così costruire l’oggetto stesso, di cui altrimenti con i singoli sensi conosceremo solo le distinte qualità sensibili.

Essenziale termine medio fra le sensazioni percettive e il pensiero sono le rappresentazioni in cui ci fissiamo nella memoria le immagini di ciò di cui abbiamo fatto esperienze e da cui, in seguito, il pensiero astrae le forme comuni delle singole cose diverse che ci siamo rappresentati nei ricordi. Qui emerge la destrutturazione, da parte di Aristotele, della gnoseologia di Platone. Certo anche per Aristotele l’eìdos – per lui la forma, mentre per Platone l’idea – è un prodotto del pensiero, ma quest’ultimo si forma non distogliendo lo sguardo dal mondo sensibile, ma imparando ad astrarre sempre a partire da esso. Altrimenti si tratterebbe di una astrazione vuota, puramente logica e dialettica e del tutto formale e aprioristica. Peraltro per Aristotele il pensiero non deve essere creativo, costruttivo, razionalistico, ma deve avere la dote essenziale della passività propria della stessa percezione, in quanto si tratta di accogliere in sé la cosa stessa. Le forme non sono un prodotto a priori della mente, ma nascono sempre a partire dalla percezione sensibile e dal suo fissarsi in immagini della nostra memoria, da cui è poi possibile astrarre le forme comuni alla realtà, che devono sostituirsi ai costrutti mentali aprioristici. Vi è dunque una unicità lineare per cui i fenomeni oggettivi fissano le loro qualità nelle percezioni, sono montati dalla rappresentazione, che ci dà l’immagine dell’oggetto percepito, e sono la fonte – astraendo dalla quale – l’intelletto coglie la forma della realtà materiale. 

Per le asserzioni dichiarative, riguardanti i fenomeni naturali, decisiva resta la testimonianza delle percezioni sensibili, in generale necessarie a convalidare o falsificare quanto asserito. Nel caso di asserzioni di contenuto antropologico, di giudizi etici e politici i fenomeni indispensabili per ritenerli veri o meno sono da ricercare nelle opinioni del passato più autorevoli e condivise, nel cui ethos si sono venute consolidando le esperienze collettive del passato. Per cui le problematiche etico-politiche sono risolvibili in relazione ai fenomeni etici.

Al contrario di quanto avevano fatto Socrate e Platone, per Aristotele non si tratta di sovvertire paradossalmente le esperienze consolidare del passato. Esse si basano su fenomeni e sulla predisposizione degli uomini a conoscere la verità, per cui le opinioni consolidare e degli individui più autorevoli devono contenere, quantomeno, un fondo di verità che andrà depurato e riordinato, non astrattamente ricusato.

Le verità, soprattutto in ambito umanistico, hanno un proprio portato storico, costituitosi collettivamente nel corso del tempo, al contrario della concezione metastorica di Platone, ancora influenzato da una visione del mondo, almeno parzialmente, religiosa. Discorso analogo vale per gli antichi miti che, seppure in modo non adeguato, concettuale, avevano sempre un fondamento veritativo, in quanto prodotti della ragione umana.

Per altro le opinioni condivise, formatesi nel corso del tempo, hanno grande importanza dal punto di vista epistemologico – come, non a caso, sottolinea Aristotele – per comprendere dialetticamente quali sono i fondamenti delle singole scienze. Dal momento che queste ultime non possono che accogliere i propri fondamenti nella forma di assiomi, non dimostrabili. 

Anche da questo punto di vista spicca in Aristotele il superamento dialettico del platonismo, che tendeva ancora a mantenere il dualismo – proprio di una visione aristocratica del mondo – fra scienza e opinioni. Queste ultime in Aristotele, se intese come convinzioni condivise, giocano un ruolo fondamentale per discutere dialetticamente i fondamenti della scienza, anche se non hanno la certezza e il rigore dimostrativo di quest’ultima.

Così la rettitudine morale di un Socrate si fonda – secondo la concezione di Aristotele – su quelle concezioni morali condivise che si fissano nell’eticità pubblica, allo stesso modo i fondamenti delle fisica sono difesi di contro all’eleatismo, grazie a quella credenza comune che attesta la molteplicità dei princìpi dei fenomeni naturali. Peraltro l’ambito della discorsività linguistica è essenziale per Aristotele per poter intuire la struttura stessa della realtà, che le forme del linguaggio tendono a rispecchiare

Vi è innanzitutto la funzione copulativa del verbo essere, alla base degli enunciati predicativi su cui si fonda la possibilità di distinguere il vero dal falso, funzione posta fondamento di quella ontologia grammaticale su cui si basa in Aristotele la relazione fra la sostanza e i suoi attributi. Peraltro implicita nei modi in cui ci gioviamo del linguaggio, vi sono i molti e diversi significati del verbo essere, che consente di superare quei problemi posti dall’eleatismo e ancora in parte condivisi dal platonismo, per cui si teneva fermo il solo significato esistentivo del verbo essere, senza comprendere il valore cha assume come copula e che è alla base delle preposizioni predicative e del rapporto fra sostanze e attributi.

Aristotele, inoltre, cerca di introdurre i suoi concetti fondamentali, come ad esempio l’essenza, da domande proprie del linguaggio comune, come il famoso “che cos’è?”, ad esempio, Socrate. Per cui l’essenza di Socrate è di essere un uomo. La posizione antiaristocratica di Aristotele lo porta a ritenere che il linguaggio corrente, essendo di fondo razionale, non è lontano dallindividuare i corretti punti di vista da cui interrogarsi per comprendere il senso del reale. Così anche nell’individuazione delle cause, Aristotele parte dalla domanda corrente del “perché” di un determinato fenomeno, insegnando semplicemente a non accontentarsi della prima risposta – ad esempio qual è il suo fine? – ma di ricercare anche di cosa è fatta, ovvero la causa materiale, chi la ha fatta?, ossia la causa efficiente, che cos’è, cioè la causa formale e, naturalmente, a quale scopo?, ossia la causa finale. 

Per Aristotele bisogna abbandonare sia l’idea di un sapere esoterico, destinato esclusivamente ai pochi eletti, sia la concezione superomistica e soggettivista di un sapere costruttivista, creato dal filosofo-sapiente. La verità è già presente, almeno in potenza, nella realtà, il reale è almeno in sé razionale, è già insito – come sottolinea Aristotele – nel mondo che si dà ai nostri sensi, manifestandosi attraverso i fenomeni, per mezzo della natura, o tramite quel sapere sociale, bene comune storico e collettivo, dell’umanità che è alla base dello stesso linguaggio in cui sono presenti, in potenza, i grandi interrogativi filosofici. Anzi, sebbene l’uomo comune da solo non ne sia consapevole, lo stesso linguaggio – come mostra Aristotele – ci offre anche la traccia per la loro soluzione. Si tratta dunque di vedere, di ascoltare il mondo e poi di dirlo nel modo più rigoroso possibile.

D’altra parte, Aristotele mostra come non è sufficiente cogliere la cosa stessa, in quanto il compito fondamentale del sapere consiste nell’interrogarsi sul “perché” la realtà è così e sul perché non potrebbe essere altrimenti, occorre dunque non solo rispecchiare il reale, ma anche spiegarlo, interrogandosi principalmente sulle sue cause. In altri termini, il mondo ha in sé il suo senso, il suo ordine, che l’uomo però deve comprendere e spiegare nella sua necessità. Quindi l’attività conoscitiva non è solo passiva, come s’illude, in qualche modo, l’empirismo più rozzo, cui troppo spesso si è cercato di ridurre la visione del mondo di Aristotele.

25/11/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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