Andando oltre le retoriche democraticistiche e le enfasi “wilsoniane”, qualunque storico contemporaneista ben conosce le reali ragioni per le quali gli Stati Uniti entrarono nel Primo conflitto mondiale. A parte la prosaica volontà di recuperare gli ingentissimi crediti accordati all’Intesa, la minaccia non peregrina di una leadership mondiale della Germania e la guerra sottomarina indiscriminata promossa il 31 gennaio 1917 dallo Stato Maggiore tedesco (che direttamente danneggiava i traffici marittimi della potenza d’oltreoceano), una funzione cruciale nell’accelerare l’intervento svolse il celebre “telegramma Zimmermann”, del giorno 16 dello stesso mese e anno. In quel documento, intercettato dai servizi britannici e opportunamente “girato”, il neo-ministro degli Esteri del Reich guglielmino sollecitava l’ambasciatore tedesco Heinrich von Eckardt a proporre al governo del Messico un’alleanza contro gli Stati Uniti (da estendere potenzialmente al Giappone) in cambio della riacquisizione degli ex-territori del Texas, del Nuovo Messico e Arizona, persi nel conflitto del 1846-1848 contro il potente vicino del nord. Il governo americano, in tal senso, s’ispirava al principio fondante espresso nel 1823 dall’allora presidente James Monroe nella formula de “l’America agli americani”, che intendeva formalmente salvaguardare l’autonomia del Continente dalle risorgenti mire della Gran Bretagna e dagli appetiti europei e “stranieri” in generale - nella sostanza rivendicando una primazia “interna” e dunque una mano libera degli stessi USA nella rappresentazione degli interessi delle “Americhe”, dunque un concreto diritto di “prelazione” sulle politiche e la geo-strategia dell’area. In sé, tuttavia, il documento germanico rappresentava un’obiettiva e sinistra interferenza nelle relazioni internazionali, una macroscopica sfida, che insidiava una cruciale area di interesse degli Stati Uniti, di cui minacciava l’integrità e nientemeno la sicurezza dei confini.
Peccato che, con l’andar del tempo, con la pelosa pratica “realistica” di una memoria selettiva e a geometria variabile, l’ossessione egemonistica che scaturisce da una fondativa e visionaria pretesa di “eccezionalità”, il sospetto originario e “competitivo” nei riguardi della potenza russa (o sovietica che fosse), la nazione oggi guidata dal malfermo Joe Biden poco indulga a riconoscere la validità della formula da allora sempre rivendicata per la propria politica di sicurezza per chi non risponda ai suoi criteri di legittimità e compatibilità politica. Che, insomma, essa applichi con classica disinvoltura la logica del doppio standard e che l’enfatizzato piano dei principi conosca ampie deroghe, allorché si tratti di tutelare l’esclusivismo “darwiniano” che ne caratterizza l’anima profonda e le arroganti pretese unipolari.
D’altra parte, ricorda l’autore di questo saggio puntuale, “la politica degli Stati Uniti […] incarna l’idea che sia di fondamentale importanza dove un potenziale avversario schiera le proprie forze”, da essa derivando il “principio che costituisce la pietra angolare della politica estera e militare americana”, violare il quale “è considerato un valido motivo di guerra” (p. 3). Quando, nel 1962, su sollecitazione di un Castro febbrilmente memore della vicenda “monroiana” della Baia dei Porci, l’Urss di Nikita Kruscëv organizzò l’installazione di impianti missilistici a un centinaio di miglia da Key West [1], l’amministrazione statunitense non esitò a minacciare la risoluzione estrema, pur di scongiurare quell’eventualità, riservandosi di fatto il diritto di inibire agli “stati potenzialmente minacciosi di dispiegare forze militari nell’emisfero occidentale” (p. 32).
Ma ai nostri giorni, e per esser più precisi dal crollo dell’impero orientale, e proprio in conseguenza dell’immediatezza del trionfo di modello, “l’impulso a stravincere” (p. XI) dell’Occidente a trazione Usa, goffamente cosmetizzato dagli iniziali fervori unanimistici dei primi anni ‘90 circa una diffusione universale e conclusiva della democrazia liberale (con tanto di soddisfatta teorizzazione di una “fine della storia”), ha finito col prevalere in modo impudico e superficiale, replicando un copione sul quale chi si è occupato del primo dopoguerra molto avrebbe da dire e ammonire.
La guerra in Ucraina, seguita all’invasione russa di quel Paese il 24 febbraio 2022 e ormai cronicizzata, pare rappresentare il distillato e il culmine di questa vera e propria coazione a ripetere, sotto la quale, tuttavia, traluce la percezione di una difficoltà strategica dell’impero americano, di un allarme isterico per gli esiti imprevisti ed entropici di una globalizzazione che quelle trionfali aspettative unipolari sembrerebbe aver vanificato, producendo piuttosto un’articolazione di soggettività statuali tutt’altro che periferiche o residuali e una ridislocazione dei rapporti di forza internazionali. Una difficoltà complessiva, complicata dalla lunga incubazione della crisi dell’Est europeo, intossicata dalla pessima gestione della fase seguita al crollo dell’Unione sovietica.
Tracce vistose e inquietanti segnali di un’onnivora inadeguatezza (e velleitarietà) a coprire il ruolo di superpotenza unica sono sparsi e condensati nella documentazione raccolta da Abelow, che investe un arco temporale che parte dall’indomani dell’unificazione tedesca e si estende ai nostri giorni. Essi attingono a un vasto repertorio di autorevoli voci e personalità statunitensi (insospettabili di simpatie filo-russe), che confermano il dato di irresponsabilità non solo dell’attuale amministrazione travicella, ma di quelle figure politiche che in quella fase climaterica largheggiarono nel garantire (dietro esplicita richiesta) alla dirigenza ex-sovietica che mai avrebbero acconsentito a indebolirne le frontiere occidentali, ammassandovi qualsivoglia dispositivo militare (cioè la Nato, a suo tempo sorta per difendere l’Europa occidentale da eventuali puntate offensive sovietiche, di fatto svuotata di funzione dopo il crollo del Muro di Berlino, comunque rappresentativa di enormi interessi economici). Già allora figure di spicco del mondo politico, diplomatico e militare della potenza atlantica ammonivano nel tempo le sfere dirigenti circa l’esigenza di tener conto delle percezioni dell’ottocentesco Orso, promuovendo un approccio morbido alla de-sovietizzazione e suggerendo di rispettarne tempi e modi di fuoriuscita dal precedente sistema per ricreare un ambiente internazionale emancipato da pulsioni catastrofiche e dal riproporsi di dinamiche belliche [2]. Eppure, come documenta implacabile Abelow, scattava all’epoca una “trentennale storia di provocazioni alla Russia da parte dell’Occidente […] continuate fino all’inizio del conflitto attuale” (p. 10) nello scacchiere est-europeo, con la repentina vanificazione della “miriade di rassicurazioni in merito alla sicurezza sovietica [offerte] dai leader occidentali a Gorbacëv e ad altri funzionari sovietici durante il processo di unificazione tedesca”. A stare al National Security Archive della George Washington University, esse ”riguardavano l’espansione della Nato non soltanto nella Germania orientale, come talvolta si afferma, ma anche nei paesi dell’Europa orientale” (p. 15). E benché quelle promesse (che avevano impegnato addirittura il più volte segretario di Stato James Baker) “non fossero state sancite da trattati ufficiali, le conseguenti lamentele dei sovietici e dei russi per il fatto di esser stati ingannati in merito all’espansione della Nato non erano solo propaganda ma […] si fondavano su memorandum scritti ai massimi livelli dei governi occidentali” (p. 16). È da quella specifica temperie che si originano il piano inclinato, gli smottamenti progressivi e la catena di quelle che ai russi non potevano non apparire “provocazioni” [passim], beffarde smentite delle promesse generosamente elargite nel momento del trionfo politico occidentale, puntualmente registrate e regolarmente segnalate dalla nuova dirigenza russa. In un percorso, da Abelow scandito in un’impietosa cronologia, che non lascia adito a perplessità di sorta (e giustifica l’icastica espressione di vera e propria “trappola perfetta” ordita ai danni della Russia, usata nell’Introduzione da Luciano Canfora, p. XIII). La sequenza degli eventi è, da questo punto di vista, tanto impressionante quanto eloquente, e consente di sgomberare il campo dal polverone mediatico che intorno alla vicenda è stato sollevato in un sussulto di goffo servilismo, variamente declinato. Esso investe le classi politiche dirigenti europee, condannandole a una subalternità imperitura al grande fratello d’oltreoceano, così consegnando il “progetto europeo” all’asfissia suicida di un richiamo della foresta atlantico. Ma trascina con sé lo specifico, inquietante capitolo dell’informazione, che per i toni usati e la gravità delle consapevoli omissioni all’occhio dello storico novecentista evoca lo spettrale deja-vu della canea ideologica delle “giornate d’agosto” 1914, allorché la civiltà del Continente ebbe modo di evocare i peggiori fantasmi della sua cattiva coscienza. Quando, insomma, le classi dirigenti del Vecchio continente si irretirono reciprocamente nella sindrome sonnambolica che condusse al manniano “abisso”, e i tanti organi di stampa tirarono la volata agli spiriti della guerra, cinicamente intingendo “le penne nel sangue e le spade nell’inchiostro” [3].
Nell’assecondare frettolosamente l’assunto protocollare “aggressore-aggredito”, ad esempio, il sistema mediatico si è rivelato infatti parte decisiva della narrazione e della politica occidentale, in un’eloquente coazione a ripetere che ha resuscitato addirittura non solo i volgari stereotipi antropologici che la conclusione del secondo conflitto mondiale sembrava aver definitivamente cancellato dal lessico della contemporaneità (recuperando una mai sopita pulsione anti-russa), ma anche un clima di rozza caccia alle streghe, verso coloro che hanno operato per ricondurre alla freddezza dell’analisi storico-razionale gli eventi, ricomponendone la genesi e articolando le specifiche responsabilità delle parti in campo.
Per la sua parte Abelow si limita alla stilizzazione del ruolo specifico dei diversi attori e alla nuda sequenza delle scelte succedutesi negli ultimi decenni, le elenca puntiglioso, per riassumerle infine nella sintesi estrema del titolo del libro, che racchiude il senso degli eventi dopo la caduta dell’Unione Sovietica, denuncia la miseria cognitiva dei classi dirigenti di questa parte del pianeta e la loro sconfortante e subalterna direttrice catastrofica. Ne sortisce un atto d’accusa, che non lascia margini per una problematizzazione salomonica delle colpe ed è efficacemente compendiata dalle parole pronunciate dallo scrittore americano Gilbert Doctorow già nel 2015, quando si era ai preliminari della ferita inflitta alla regione del Donbass: “[…] se l’intento americano è quello di distruggere la Russia, allora l’intento americano è l’autodistruzione. L’America ha davanti a sé una minaccia esistenziale che essa stessa ha creato. E la via d’uscita da questa minaccia è davanti agli occhi di tutti: trovare un accordo con Putin” (p. 70). Le cose, come si sa, sono andate diversamente ed è ormai difficile “pensare come coloro che sono stati talmente sciocchi da infilarsi in quel fango possano trovare la saggezza per uscirne prima di affondare del tutto e portare giù con sé tutti noi” (p. 71).
Note:
1. La gran parte del giornalismo con ambizioni storiche sorvola sul fatto che questo avveniva poco dopo l’installazione di missili americani Jupiter all’idrogeno in Turchia, che minacciava direttamente il territorio dell’Urss. Il cui sgombero, avvenne alla chetichella e solo alcuni mesi dopo quello sovietico dall’isola caraibica, e non prima della promessa di non invadere l’isola.
2. Valgano a titolo d’esempio i nomi di Henry Kissinger, ex segretario di Stato, George Kennan, a suo tempo artefice della politica del containment e ambasciatore in Unione Sovietica, per il quale già nel 1997, nel deplorare “l’insensatezza dell’intero progetto espansivo” ammoniva che “l’allargamento della Nato “sarebbe l’errore più fatale della politica americana in tutta l’era post guerra fredda ” (p. 43). Ma il repertorio si allarga a figure “organiche” e di spicco delle classi dirigenti Usa, come quella di Robert MacNamara.
3. Karl Kraus, In questa grande epoca, Venezia, Marsilio, 2018, pag. 53.