Per ribellarsi, verbo riflessivo, occorre operare una sovversione su se stessi. È necessario, come si diceva negli anni ’70 nei gruppi femministi mettendo al lavoro le preziose riflessioni di Carla Lonzi (“Sputiamo su Hegel e altri scritti”, 1970), disordinare la Lingua, quella filosofica e quella politica, mettere a soqquadro la propria identità e le parole che la dicono, per fare posto a un nuovo ordine simbolico. Lezione in parte caduta nella dimenticanza, come se la tradizione, l’insieme della politiche e delle pratiche di quegli anni, non potesse essere oggetto di alcuna trasmissione e di nuove declinazioni.
Dunque, provo a smontare il legame fra le tre parole del titolo del dibattito svoltosi domenica 11 settembre: Beni Comuni Ribelli.
Il Bene, aggettivato da Comune, deve essere da questo separato, almeno inizialmente, in modo da recuperare per entrambe le parole un significato non banalizzato dall’uso. Il banale rappresenta l’avvenuto accesso a concetti ricchi di storia e di prestigio, e manifesta la loro vita diffusa. L’operazione non è però priva di rischi, quali la genericità e la metabolizzazione, digestione e assimilazione del loro portato simbolico da parte di coloro che possono elaborare informazione e consenso passivo.
La bibliografia sui Beni Comuni è vasta; molti sono gli equivoci giuridici, parecchi gli istituti che ad essi si richiamano (garanti, autorità, magistrature, norme, organizzazioni, ecc). Anche il cosiddetto municipalismo rischia di puntare molto sugli aspetti gestionali dei beni e di lasciare nell’ombra la potenza rivoluzionaria delle lotte che hanno portato all’attenzione collettiva il problema, soprattutto per quel che attiene alla trasversalità, alla capacità di una “sollevazione popolare” di operare dentro una cornice più ampia, ancora comunista, di lotta alle manovre neoliberiste.
Il Bene. In senso classico, il richiamo è alla Giustizia e alla Bellezza, come Virtù civiche. Nell’invadenza del parlottìo sul merito, sull’equità, sull’efficacia della performance, occorre tornare a riflettere sul cosa e sul come la Giustizia si fa bella. Non Legge che sanziona e colpevolizza, ma richiamo ad una buona vita, responsabile, capace di reggere insieme la norma e l’eccezione. Di accogliere, senza cassarlo, il conflitto, quel che in greco era la stasi, ovvero la necessaria conflittualità interna ad un gruppo sociale, che creava sempre nuovi equilibri. Lo spiegano con chiarezza coloro che sono impegnati nella battaglia contro la de-forma costituzionale. E non è un caso. Non perché richiamandosi al nesso Giustizia-Bellezza la Costituzione Italiana sia “la più bella”. L’aggettivo è forse adeguato, pur tenendo conto del compromesso politico che l’ha prodotta, se diciamo che ha dalla sua sia la forma chiara e leggibile, sia gli scopi che rimandano a leggi e norme applicative “giuste” che ne traducono lo spirito in comportamenti. Quel che va salvato dalla distruzione è un patrimonio di idee, di pensieri scambiati, su cosa deve essere la democrazia. Sennò anche il demos si svuota, le istituzioni invocano principi indiscutibili, danno corso a dispositivi, a regolatori di condotte. La “grigia” ricchezza del quotidiano, in cui rientrano gli usi e le parole per dirli, non riesce più a esprimere alcuna pratica resistente.
Il Comune. Non aggettivo ma sostantivo, se seguiamo Dardot e Laval (“Del Comune, o della Rivoluzione del XXI secolo”, 2015), l’introduzione di Rodotà e il commento in postfazione (Ciervo, Coccoli e Zappino) nell’edizione italiana. Se l’Uno, se il corpo singolare che noi siamo, è sempre marchiato dall’Altro, se è da sempre preso nella catena simbolica che ci costringe, per dirla con Judith Butler, sotto l’egida di un Nome e dentro una Lingua che si fa pensiero, allora è questo “comune linguistico” la nostra unica pratica di vita. “Il”, articolo determinativo, sostantiva la parola Comune. Benjamin scrisse che un Bene ha per sua natura di essere inappropriabile, di coincidere con la Giustizia come stato del Mondo, per cui ogni cosa è in sé, oltre ogni tentativo di possesso. Nel ricongiungimento fra Bene e Comune, il vettore che suggeriscono Dardot e Laval, è il Comune come archè, il cominciamento che sempre sta cominciando. Il “munus” dell’etimologia rimanda a “obbligazione” diffusa, ricerca di una sua collocazione possibile nel prefisso “com”, il collettivo, il sociale. La cosa che si è costituita come Bene è allora un modo, una pratica, una ricerca collettiva, a cui tutti siamo chiamati. L’obbligazione è pre-occupazione, non emendamento per una colpa. Lo sottolinea anche Paolo Godani (“La vita comune”, 2016) quando riflette sul processo di depressione e colpevolizzazione a cui siamo sottoposti, debitori tutti, senza contezza di aver contratto “quel” debito (quello economico-finanziario!), mentre si viene spinti a essere sordi verso l’Altro da noi, debitori solo verso il proprio interesse. Inter-esse senza tessitura sociale, appunto.
Venendo all’acqua, protagonista a Reggio Emilia della festa, siamo di fronte ad un Bene la cui semplicità è sconcertante e la cui appropriazione scandalosa. Elemento vitale per eccellenza, per questo è argomento politico, come ricorda il film cileno “La memoria dell’acqua” (di Patricio Guzmán, 2015). Se attribuiamo all’acqua un Nome proprio, le forniamo un’ontologia ristretta, la immettiamo nell’uso controllato, anche quando consuetudinario. La presa del Comune sostantivato è come se dovesse lavorare ad un prima della norma, della convenzione e del nome proprio. È nel discutere su quel che l’acqua rappresenta, oltre il consumo, che si può sviluppare un ragionare più ampio, su ciò che è di tutti e di nessuno, sul pubblico vs il privato, sul ruolo dello Stato e delle istituzioni. Su questi concetti i lavori dovrebbero essere sempre in corso, lingua comune e concetti problematizzati, in corso d’opera. Non è certamente con una distribuzione pubblica di un bene che lo si rende un potenziale rivoluzionario. La sua gestione, fuori da un continuo confronto con il gioco del profitto e dello sfruttamento rimane un fatto di mera amministrazione. Il capitale si indirizzerà altrove o troverà altri mezzi di esproprio e di valorizzazione economica. Non si apriranno autentici spazi democratici, la sua pubblicità non si trasformerà in un modello di educazione al pensiero critico. Quando le terre da pascolo erano libere, il regime dell’acqua irrigua regolato dalle comunità locali, la situazione dei contadini era certo meno miserabile. Ma le leggi che stabilirono, con il capitalismo ormai imperante, le enclosures (in Italia, gli editti sulle chiudende), non innescarono una ribellione uguale e contraria a “quel” modo di produzione, a ciò che significava. L’ultimo Marx, il più segreto, informandosi sulla obíčína dai compagni russi, aveva intuito il potenziale rivoluzionario della comune rurale, ma soprattutto ragionava sulla possibilità da essa offerta di inedite uscite dal capitalismo terriero e industriale, e dal pericolo del totalitarismo di un solo modello di economia (Ettore Cinnella “L’altro Marx”, 2014).
Provo ad entrare nel merito della questione-scuola come Bene Comune. Dove si manifesta oggi il Comune a scuola? Paradossalmente in un luogo dove ci sono cose, conoscenza, relazioni, rapporto insegnamento-apprendimento, che non sono in sé, non hanno una precisa ontologia, ma sono “qualcosa” in virtù dei discorsi che i molti, in questo luogo accumunati, scambiano. Allora, la domanda diventa: c’è ancora davvero un modo per l’esercizio di questo discutere, discorrere, “configgere”? La storia degli organi collegiali andrebbe riscritta a partire da queste domande, riandando all’humus da cui sono nati. Due mi sembrano i nodi storico-politici e sociali: 1. le esperienze informali e diffuse, proprie della cultura del dopoguerra e della metà degli anni sessanta, costituiscono l’immaginario collettivo diventato istituente, fissato in norme nel 1977; 2. oggi ci troviamo a difenderli come in una lotta di retroguardia, mentre già abbiamo perso molte battaglie e le buone pratiche si sono svuotate e burocratizzate. È qui in gioco un’altra parola-chiave: rappresentanza. Un concetto che è un atto e non una cosa, anche quando si esercita negli organismi, nei partiti, nei sindacati. Elezione, responsabilità e legame fra eletto e elettore, nel lungo tragitto di costruzione dello spazio democratico su cui oggi maturano tante incertezze e confusioni, dal momento che il potere economico si è fatto governo, senza troppe mediazioni che ne limitino il predominio sulle vite, sui bisogni, sui diritti. E ancora, così come l’utilizzazione sociale di beni inappropriabili non può essere solo derubricata a diritto del consumatore e alla sua rappresentanza, la scuola buona non è quella del servizio all’utente, non prevede difesa unilaterale di interessi, siano essi quelli dei lavoratori, degli alunni, o delle loro famiglie. L’interesse per l’asse insegnamento-apprendimento va colto nella sua dimensione dialogica, politica.
Mi domando ancora: ma la Cura, questa pratica, questo insieme di atti scambiati, quanto deve alla locuzione Bene Comune, o viceversa quanto pretende da essa? Molto ovviamente, simmetricamente, nei due sensi, a scuola soprattutto. Prendersi cura nel rapporto diseguale fra adulti e creature piccole, nei rapporti fra pari, in quelli verticali, è affare e affanno tipico della scuola. Il curare è sempre stato problema più di donne che di uomini. Affare materno, all’origine e evolutivamente. Nella nostra cultura molto raramente tale pratica si è giocata sul piano praticato dal maschile, quello del lavoro, della politica. Se la femminilizzazione della scuola continua ad essere un fenomeno in crescita, mi chiedo quanto dell’emancipazione, del pensiero della differenza, di quello dell’affido fra donne, e delle nuove ondate di femminismo ha attraversato la scuola. Oggi oltre il 55% della dirigenza scolastica è in mano alle donne. La qualità delle relazioni negli istituti scolastici è deplorevole: dirigismo, miseria culturale, managerialità ferocemente esibita, collaborazionismo… poca e nulla conoscenza dei problemi dell’età evolutiva. Anche per molte docenti, la carriera, quel poco di carriera come staff (come cortigiane…) che si può raggiungere, avvelena i rapporti, rende difficile insegnare anche nel modo implicito con cui insegna ogni adulto: con l’esempio delle sue pratiche. La comunità educante molte di noi l’hanno vissuta. Sempre in potenza, chiaro, facile da distruggere se scarsamente difesa. Nancy Fraser sostiene che sulla cura, sul curare come modello di relazione efficace non solo femminile e materno, sulla promozione personale come ci viene imposta dal modello neoliberista, le donne hanno lavorato poco e male. Addirittura la nuova ondata femminista, dice la Fraser, mescola di nuovo le carte, si auto-inganna su un progetto di emancipazione personale, si fa complice del neoliberismo e della privatizzazione dei servizi, snobba quel che resta del welfare state (“Fortune of Feminism”, 2013).
Eppure c'è uno spazio di ribellione. C’è ancora. Come dice Beatrice Bonato, insegnante e filosofa, basterebbe fare ordine simbolico, ancora. Perché riproporre la lentezza, l’astensione, la cura quotidiana dei rapporti, è oggi rivoluzionario (“ Sospendere la competizione”, 2015). “Preferire dire di no” è ribellione, giusta.