Nel precedente articolo ci siamo occupati di approfondire l’evoluzione della disciplina sull’immigrazione e asilo nel contesto legislativo italiano, sottolineando la discrepanza tra le aspettative contenute nella Costituzione e tradite (anche) in materia di asilo, rispetto al contenuto effettivo delle leggi intervenute in tale ambito a partire dai primi anni 90. Con la caduta dell’URSS, com’è noto, venne meno il principale motivo di dissuasione alla ripresa dell’offensiva imperialista su scala europea e globale. Così, dopo la sanguinosa guerra in Jugoslavia e la riconduzione del mondo ad un modello unico di pensiero e di produzione economica, quello capitalistico, era necessaria una accelerazione ed un potenziamento del processo di “unificazione europea” che, accanto alla costruzione del mercato unico, contemperasse anche l’esigenza di regolamentare i flussi migratori in entrata in Europa, in fuga dallo sfacelo delle aree ex sovietiche e da altre zone extra-europee dove la NATO avrebbe “esportato la democrazia” (o, come di dice più spesso oggi, “contrastato il terrorismo”). Se non si può certamente parlare, neanche lontanamente, di nascita di una sorta di “diritto dell’immigrazione europea”, tuttavia in ambito comunitario sono stati intensificati gli sforzi per la costruzione del già menzionato CEAS (sistema europeo comune di asilo), ossia un sistema comune ai diversi Stati membri di gestione delle problematiche connesse alla protezione internazionale.
Nel corso di circa un decennio, a partire dai primi anni 2000, sono state approvate norme che hanno definito degli standard comuni a livello comunitario riguardanti principalmente: a) l’attribuzione della qualifica di rifugiato e di persone comunque bisognose di protezione internazionale attraverso la direttiva 2004/83/CE (recepita con d.lgs. 251/2007), che è stata poi riformulata con la direttiva 2011/95/UE (recepita con d.lgs. 18/ 2014) che ha chiarificato ulteriormente i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, migliorando e coordinando le condizioni di accesso alle misure e ai diritti connessi alla protezione internazionale; b) le condizioni di accoglienza dei richiedenti (direttiva 2003/9/CE, modificata con direttiva 2013/33/UE e recepita nel d.lgs. 142/2015); c) le procedure applicabili dagli Stati membri ai fini del riconoscimento e revoca dello status di rifugiato attraverso la citata direttiva del 2005, poi modificata attraverso la direttiva 2013/32/UE e recepita in Italia anch’essa col d.lgs. 142/2015; d) la prevenzione della commissione di reati gravi, con particolare riguardo al terrorismo, attraverso la predisposizione di una banca dati europea delle impronte digitali dei migranti come delineata dal Regolamento Eurodac 603/2013, aggiornato rispetto alla precedente versione; e) la determinazione dello Stato responsabile all’esame della domanda di protezione internazionale e dei conseguenti rapporti fra Stati membri, di cui si è nuovamente occupato il terzo Regolamento Dublino 604/2013.
La “direttiva qualifiche”: alcuni ampliamenti della protezione
All’interno della direttiva qualifiche del 2004 e in quella nuova del 2011 viene introdotta (art. 2 lett. d), e), f), g)) una definizione di rifugiato e di persona ammissibile alla protezione sussidiaria e dei relativi status, che rappresentano le due possibili articolazioni dell’istituto in questione [1]. I rifugiati vengono perciò definiti riprendendo il testo della Convenzione di Ginevra 1951, affiancando, inoltre, al fondato timore di subire una persecuzione, anche l’ipotesi di assenza di protezione contro tali atti (art.9 par. 3) ed annoverando, ai sensi dell’art. 10 par. 1 lett. d., quale caratteristica comune del gruppo sociale soggetto a persecuzione, anche l’orientamento sessuale. I beneficiari della qualifica dello status di rifugiato sono sottoposti ad un trattamento uniforme ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria (circa l’accesso all'occupazione, all'assistenza sanitaria e agli strumenti di integrazione) al cui regime di protezione sono ammessi, secondo le precisazioni della direttiva, i cittadini di Paesi terzi o apolidi. Nei confronti dei quali, pur non possedendo i requisiti previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato, si ritiene sussistano fondati motivi per credere che, in caso di ritorno al paese di origine o di dimora abituale, correrebbero un rischio effettivo di subire un grave danno. Ossia, ai sensi dell’art. 15, una condanna a morte o l’esecuzione, torture o altre forme di trattamento inumano o degradante, minaccia grave e individuale alla vita o alla persona a causa di situazioni di generalizzata instabilità interna o internazionale del paese dovuta a conflitto armato. Una volta ottenuto tale status, costoro possono ottenere da parte della Questura un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria la cui durata è stata elevata a 5 anni. Tramite tali direttive, in sostanza, si è svolta una funzione estremamente importante circa la definizione di criteri comuni applicabili dai paesi membri dell’Unione Europea per l’identificazione delle persone effettivamente bisognose di protezione internazionale, nonché la definizione giuridica del concetto basilare di “persecuzione”, dal cui accertamento dipende l’accesso al regime di protezione e il diritto del richiedente di non essere respinto verso il Paese nel quale rischia di essere sottoposto ai gravi pericoli per la persona umana e la sua dignità che la persecuzione stessa comporta (protezione dal respingimento, ai sensi dell’art. 21 direttiva 2011/95/UE, che accoglie il “principio di non refoulement”). Inoltre la direttiva fornisce elementi essenziali per l’individuazione dei livelli minimi di tale protezione, che può articolarsi tanto negli elementi esigibili dal richiedente quanto nelle prestazioni dovute dai soggetti che prestano protezione (Stato, partiti e organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una consistente parte del suo territorio, dotati della capacità e della volontà di prestare protezione effettiva).
La “direttiva accoglienza” e “direttiva procedure”: l’ossatura del sistema-asilo
Per quanto riguarda la fisionomia del sistema di accoglienza, la direttiva 2013/33/UE stabilisce quali sono le condizioni che gli Stati membri devono creare per garantire al richiedente, in attesa della decisione relativa alla propria richiesta di protezione internazionale, un livello dignitoso di vita, con particolare riguardo a: 1) le strutture e le modalità di accoglienza e i presupposti per il trattenimento dei richiedenti, che deve essere tale da evitare pratiche arbitrarie, ridotto nei confronti delle persone vulnerabili e soprattutto dei minori, essere tale da non impedire le comunicazioni con organismi di assistenza legale e sociale nonché coi familiari; 2) l’introduzione di garanzie del richiedente connesse ad una sua adeguata informazione (per iscritto e/o con l’ausilio di interpreti) nelle lingue a lui/lei comprensibili sin dall’ingresso nel paese, al rilascio di documentazione valida e alla possibilità di assistenza legale gratuita; 3)particolari tutele e condizioni per i minori, il cui interesse superiore costituisce una priorità da garantire nell’applicazione delle misure di accoglienza. La direttiva procedure 2013/32/UE detta, invece, la disciplina da seguire per l’intero iter della domanda di protezione, garantendo un livello di accesso a procedure di asilo eque ed efficienti in tutti i paesi membri, in particolare: 1) maggior efficacia e celerità delle procedure che, nel complesso, dovrebbero contenersi in un periodo massimo di 6 mesi, e che prevedono la possibilità di presentare domanda di protezione sin dalle zone di confine, al primo contatto con le autorità di polizia, con la previsione anche di procedure accelerate per i casi di richieste presumibilmente infondate; 2) maggior formazione per il personale che opera in tale campo e per i responsabili delle decisioni; 3) maggiori garanzie relative al colloquio personale del richiedente dinnanzi alla Commissione territoriale e chiarificazione sulle modalità di impugnazione dinnanzi al giudice nazionale ordinario delle decisioni delle Commissioni.
Entrambe queste direttive sono state recepite in Italia all’interno del d.lgs. 142/2015 che ha delineato il funzionamento generale del sistema di accoglienza e delle procedure connesse alla presentazione della domanda di protezione internazionale sino all’entrata in vigore del recentissimo decreto Minniti 13/2017, convertito in L. 46/2017, che lo ha parzialmente modificato assieme alla restante normativa previgente e che analizzeremo in un prossimo articolo.
Eurodac e Dublino III
Il regolamento UE 603/2013 ha implementato il funzionamento di Eurodac, ossia il sistema informatico, operativo dal 2003, all’interno del quale confluiscono (e possono essere velocemente rintracciati e confrontati) i dati relativi alle impronte digitali delle persone straniere che fanno ingresso in UE, richiedenti asilo compresi (teoricamente, se di età non inferiore a 14 anni). Ai sensi della nuova disciplina, i dati raccolti grazie alle operazioni svolte dalle forze di polizia nazionali ed immessi nella banca dati informatica collegata all’unità centrale Eurodac, vengono trasmessi più celermente dagli Stati membri (non appena possibile e, in ogni caso, entro 72 ore dalla presentazione della domanda di protezione internazionale o, al massimo, entro 48 ore dal nuovo rilevamento delle impronte nel caso in cui il primo non risultasse qualitativamente adatto al confronto mediante sistema informatizzato). Dati che vengono trattati, trasmessi e conservati garantendo la sicurezza dei sistemi informatici, in considerazione dell’esigenza di protezione dei dati personali; inoltre è previsto un sistema di cooperazione tra Eurodac, forze di polizia nazionali ed Europol (Ufficio UE di polizia) nei soli casi in cui, ai fini di prevenire reati gravi e terrorismo, sia necessario confrontare i dati relativi ai richiedenti asilo contenuti in Eurodac con quelli in possesso delle autorità che conducono indagini penali.
Strutturalmente collegato ad Eurodac è, infine, il Regolamento UE 604/2013 (Dublino III) che ha apportato una serie di modifiche sostanziali ai due precedenti (convenzione di Dublino del 1990 e Regolamento CE 343/2003 detto Dublino II) sul tema dell’individuazione dello Stato membro competente all’esame di una domanda di protezione internazionale ed è applicabile e obbligatorio in ogni suo elemento (come, del resto, tutti i regolamenti UE) dal 2014. Il principio cardine alla base di Dublino III è che competente all’esame della domanda è uno solo tra gli Stati membri, in primis quello che ha svolto il maggior ruolo in relazione all’ingresso e soggiorno del richiedente (ossia, come già osservato in precedenza, nella maggior parte dei casi, i paesi di primo approdo) e si determinano gli obblighi in capo allo Stato che prende in carico (artt. 21 e 22) l’esame della domanda, se risulta competente sulla base dei criteri elencati nel capo III, o la riprende in carico (artt. 23-25) nei casi in cui la sua competenza derivi dal fatto che ha già avviato l’esame della stessa, evitandosi quindi un doppio esame sulla medesima domanda. In caso di disaccordo persistente tra Stati sulla corretta applicazione del regolamento e individuazione delle competenze, Dublino III introduce una procedura di conciliazione (art. 37), tale per cui una soluzione (non vincolante per i destinatari, ma che deve essere tenuta comunque in “massima considerazione”) è proposta entro un mese da un comitato composto da 3 membri in rappresentanza di Stati estranei alla controversia. In linea generale può dirsi che le principali novità introdotte da tale regolamento – derivanti in larga parte dall’accoglimento degli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia UE – riguardano: 1) l’ampliamento delle definizioni riguardanti i familiari e i parenti (art. 2 lett. e, h, j) ai fini dell’operatività dei criteri di determinazione della competenza previsti dal regolamento e l’introduzione della definizione del “rischio di fuga” (art. 2 lett. n). Ciò è fondamentale ai fini del corretto ricorso al trattenimento, ai fini del trasferimento (art. 28) del richiedente soggetto a procedura Dublino (ossia a ricollocamento) da parte degli Stati membri, che in ogni caso deve avere una ragionevole durata in relazione agli adempimenti amministrativi da espletare per eseguire il trasferimento stesso; 2) l’obbligo centrale di considerare in ogni caso l’interesse superiore del minore (art. 6 e conseguenti ampie possibilità di valutazione del ricongiungimento), l’obbligo del colloquio personale col richiedente da effettuarsi prima della decisione di trasferimento in altro Stato (art. 5), obbligo di fornire maggiori e più dettagliate informazioni ai richiedenti sia prima che dopo una eventuale decisione di trasferimento (art. 4); 3)il divieto di ricorrere al trasferimento se esistono fondati motivi di credere che sussista un rischio per il richiedente di subire trattamenti inumani o degradanti nello Stato di destinazione (art. 3, che recepisce quasi letteralmente una serie di pronunce della Corte del 2010) nonché la previsione (art. 27) di un ricorso contro la decisione di trasferimento esperibile con maggiori garanzie rispetto al passato; 4) introduzione di tempi più stringenti per le procedure di presa in carico (entro 3 mesi dalla presentazione della domanda, ridotti a 2 se la competenza dello Stato UE è individuata grazie ai dati Eurodac) e ripresa in carico (entro 2 mesi dal ricevimento della risposta da Eurodac o 3 mesi dalla data di presentazione della domanda se la richiesta di ripresa in carico è basata su prove diverse da quelle presenti in Eurodac) e di un meccanismo di “allerta rapido, preparazione e gestione crisi” in caso di eccessiva pressione su un paese (art. 33), introduzione dell’obbligo di scambio dei dati sul richiedente con lo Stato verso cui è disposto il trasferimento allo scopo di garantire la continuità dell’assistenza specifica del caso (artt. 31 e 32), chiarificazione in ordine alle modalità e al costo dei trasferimenti (artt. 29 e 30).
Nonostante ciò, Dublino III è in assoluto il provvedimento maggiormente discusso a causa dei fortissimi dubbi sull’efficienza del sistema, ancora non ritenuto all’altezza della situazione concreta da affrontare, e delle conseguenze negative che ciò ingenera sui livelli di vita dei richiedenti nella misura in cui l’individuazione della corrispondenza Stato competente-Stato responsabile all’esame della domanda di asilo, rischierebbe di non tenere adeguatamente conto delle reali prospettive e aspirazioni dei richiedenti stessi. Soprattutto dal punto di vista dell’integrazione sociale e lavorativa, in paesi strutturalmente non in grado oggi di farvi fronte in maniera adeguata. Oltretutto, va presa in considerazione la discrepanza ancora esistente tra il livello di protezione “auspicato”, all’interno dell’area europea, e quello concretamente operante. Una disomogeneità che rende oggettivamente difficoltosa l’applicazione efficace di un sistema che prevede una ripartizione di responsabilità nella protezione internazionale da parte degli Stati membri, attraverso l’uso ponderato del trasferimento/ricollocamento ma che poi, nella pratica, viene praticato poco o per nulla. Sembra, tuttavia, che sia in corso un superamento del criterio del paese di primo ingresso sulla determinazione della responsabilità dell’esame della domanda di protezione internazionale ai sensi dell’attuale Dublino III. La Commissione sulle libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento UE ha infatti, lo scorso ottobre, approvato una riforma del Regolamento in questione, predisponendo il terreno per l’adozione di un criterio maggiormente solidaristico che preveda una ripartizione per quote fisse della responsabilità su tutti gli Stati membri, senza esacerbare l’automatismo tra paese di primo ingresso ed esame della domanda. In novembre, anche la plenaria del Parlamento UE ha approvato la riforma – non senza polemiche – che dovrà comunque prossimamente superare il vaglio del Consiglio europeo. Le principali resistenze sono state finora opposte dagli eurodeputati di paesi come Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca.
Curiosità (soprattutto alla luce dei “vincitori” delle elezioni italiane 2018, ossia Lega e 5stelle): mentre gli eurodeputati leghisti – per i quali bisogna parlare tout court di “bloccare l’invasione”, altro che ricollocamenti - si sono astenuti dal voto, gli eurodeputati pentastellati hanno invece opposto strenua resistenza alla proposta di modifica di Dublino III. I leghisti hanno quindi accusato i grillini di volere, col loro “no”, difendere e preservare il business italiano delle cooperative dell’accoglienza (e quindi, potenziare l’”invasione”). Della serie, il bue che dà del cornuto all’asino.
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Note
[1] Altre forme di protezione internazionale esistono, come abbiamo osservato anche nei precedenti articoli, ma sono difficilmente paragonabili (per estensione, portata, operatività o benefici connessi) alle due forme “classiche” di riconoscimento dello status di rifugiato e protezione sussidiaria. Bisogna infatti considerare l’inoperatività sostanziale del diritto di asilo ai sensi della nostra Costituzione, come più volte ricordato; il fatto che la protezione umanitaria è anch’essa una peculiarità del solo ordinamento italiano che non rileva in sede di diritto comunitario, e che, comunque, concede benefici meno significativi rispetto ai rifugiati e alla protezione sussidiaria; infine, la previsione comunitaria circa la “protezione temporanea” nelle ipotesi di arrivi massicci (quale provvedimento d’urgenza introdotto nella direttiva 2001/55/CE) non è mai stata applicata concretamente, essendosi fatto sempre ricorso alle misure di emergenza di cui all’ art. 78 TFUE.