Mai come oggi si pone l’urgenza di separare nettamente la prospettiva della rivoluzione nazionale dal nazionalismo sempre più sciovinista. Il patriottismo nasce nella rivoluzione, cioè nella lotta per l’indipendenza nazionale degli Stati uniti di America. I patrioti saranno gli indipendentisti, radicali e generalmente appartenenti alle classi subalterne. Perciò patriota era sostanzialmente sinonimo di radicale che si batte per l’autogoverno e per l’indipendenza contro il giogo coloniale.
Il concetto di nazione si afferma con la Rivoluzione francese, in particolare nel tentativo di praticare le idee radicali di democrazia moderna elaborate da Jean Jacques Rousseau. Il concetto di nazione si lega, perciò, strettamente al concetto fondamentale della democrazia moderna: la sovranità popolare e al concetto, centrale nella filosofia democratica di Rousseau, della volontà generale, che si contrappone alla volontà particolare e individualista della tradizione liberale.
L’idea della nazione sorge, dunque, in strettissima connessione con l’idea di Rivoluzione, tanto che nella Rivoluzione francese sembravano indissolubilmente connessi. Non a caso la lotta contro l’ancien régime è condotta dall’Assemblea nazionale costituente. In tal modo la forma democratica dell’assemblea e l’esigenza di creare uno Stato moderno di diritto, dove a governare non siano più dei sovrani, ma delle leggi eguali per tutte, è indissolubilmente connesso con l’affermarsi dell’idea di nazione da cui sorgeranno i moderni stati nazionali.
La difesa della patria, della nazione e della Rivoluzione tendono a divenire sinonimi nel momento in cui il paese della rivoluzione è invaso dalle truppe al servizio delle monarchie assolutiste straniere e degli aristocratici emigrati all’estero e schierati con i nemici della patria. Quando i comandanti aristocratici dell’esercito francese favoriscono le vittorie del nemico, patriottismo e spirito rivoluzionario costituiscono un connubio inscindibile da cui nasce il nuovo, moderno e democratico esercito popolare. Sorge così la lotta per questo grande obiettivo democratico, cioè il diritto dei popoli all’autodeterminazione nazionale, che implica la possibilità di scegliere liberamente la propria forma di governo, indipendentemente da ogni potenza straniera.
Così è proprio con l’esercito che si diffondono in Europa le idee della rivoluzione francese e con essi l’ideale nazionale. D’altra parte, la guerra per liberare i popoli oppressi dalle catene tende a confondersi con la classica guerra di conquista. In Italia come altrove la politica napoleonica è contraddittoria: da una parte esporta i princìpi della rivoluzione francese: l’autogoverno nazionale, lo Stato di diritto, le riforme economiche, dall’altra rende gli stati occupati vassalli. D’altro canto, in tutti i paesi toccati dalle armate francesi, i rivoluzionari comprendono il legame fra la libertà politica e la necessità di uno Stato nazionale. Nonostante saranno rapidamente sopraffatte, le repubbliche giacobine italiane (1796-99), connettendo nazione, libertà e democrazia, gettano le basi del Risorgimento. Saranno proprio le nazioni che la grande Rivoluzione ha evocato, a sconfiggere la dispotica prospettiva imperiale di Napoleone. L’ideale nazionale e la patria grande svolgono, in seguito, una centrale funzione rivoluzionaria nelle lotte per l’emancipazione dell’America latina.
Quando però la borghesia, all’interno della quale nasce e si sviluppa l’idea di nazione, diviene da classe progressista e rivoluzionaria classe dominante e, perciò, conservatrice e reazionaria, l’ideale rivoluzionario nazionale tende progressivamente a divenire il nazionalismo liberale. Così, in questa nuova fase motore della politica internazionale non sono più le rivoluzioni, ma le guerre. La solidarietà internazionale rimane prerogativa dei soli socialisti, mentre nella borghesia al potere si afferma il nazionalismo che, a differenza di quello dell’età rivoluzionaria, è aggressivo ed esclusivista.
Con la progressiva presa di coscienza del proletariato moderno e la crescente contraddizione fra l’eccezionale sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione e proprietà capitalisti, la borghesia tende ad assumere posizioni sempre più reazionarie. Il nazionalismo liberale tende a divenire sempre più sciovinista, è influenzato dalla volontà di potenza di Nietzsche e dal darwinismo sociale e diviene l’ideologia razzista dell’imperialismo.
Sfruttando la difficoltà che si ha generalmente a distinguere le sacrosante rivoluzioni nazionali e il nazionalismo tendenzialmente sciovinista si afferma la sedicente “rivoluzione conservatrice” un vero e proprio ossimoro, brodo di cultura dei fascismi. Più in generale il nazionalismo diviene l’ideologia della tendenza, dinanzi a crisi di sovrapproduzione sempre più lunghe e intense, a trasformare in senso autoritario e totalitario lo Stato liberale. Il nazionalismo diviene, così, il fondamento della deriva oligarchica e bonapartista regressiva caratteristica dei paesi a capitalismo maturo.
Tale uso ideologico da parte del fascismo e, più in generale, del nazionalismo sciovinista del concetto di rivoluzione nazionale ha portato e porta ancora una parte significativa della sinistra a considerare negativamente tale concetto, come se fosse in quanto tale di destra. Più in generale, in nome dell’antifascismo e della necessità di contrastare il nazionalismo sciovinista una parte della sinistra tende a considerare con sospetto la stessa prospettiva nazionale della propria politica. Tanto più che la sinistra socialista e comunista è tradizionalmente internazionalista. Senza contare che, dopo la tragica esperienza del nazionalsocialismo in Germania, mettere in relazione il concetto di socialismo e di nazionale può apparire quantomeno sospetto.
D’altra parte i fascismi, più in generale la sedicente “rivoluzione” conservatrice e tendenzialmente ogni forma di rivoluzione passiva, tendono a occultarsi utilizzando una terminologia ripresa proprio dalla tradizione socialista. Non a caso il partito di Hitler si definiva non solo socialista, ma anche partito dei lavoratori, o meglio dei lavoratori salariati, degli operai. Dunque sarebbe assurdo dover rinunciare a dei concetti e a degli aspetti decisivi e determinanti della sinistra come socialista, lavoratore, lavoratore salariato, socialista e anche nazionale.
Ancora più significativo è l’evidente contrasto, per non dire l’antitesi, fra la prospettiva internazionalista della sinistra radicale e il nazionalismo sciovinista, quale ideologia tipica della destra radicale. Troppo spesso a sinistra si tende a concepire l’internazionalismo come una negazione semplice, assoluta del nazionale e non come una negazione determinata, un superamento dialettico che toglie quanto di limitato c’è nella prospettiva nazionale, tesaurizzandone al contempo gli aspetti positivi e ancora validi. Del resto, una posizione internazionalista, che rifiuta di declinarsi sul piano nazionale, rischia di essere inevitabilmente astratta. Tanto è vero che le forze della sinistra radicale le quali, in nome dell’internazionalismo, non si pongono la questione di una prospettiva politica nazionale non possono che apparire poco affidabili e poco concrete alle classi sociali di riferimento. Tanto che tali forze politiche si limitano per lo più a un ruolo di testimonianza, da anime belle che non intendono fare i conti con le contraddizioni e le limitatezze del piano nazionale. In tal modo, ci si potrebbe mantenere puri da ogni compromesso, ma si assumerebbe una posizione più morale che politica. Del resto, se non ci si dimostra affidabili, con una prospettiva nazionale, nei confronti delle masse popolari si diviene incapaci di incidere, cioè si ritorna a interpretare diversamente dall’ideologia dominante il mondo, senza essere in grado di modificarlo in modo rivoluzionario.
Ciò spiega non solo l’incapacità di incidere di buona parte della sinistra radicale italiana, da troppi anni a questa parte, ma anche il successo, per quanto possa essere stato relativamente effimero, di forze politiche populiste se non, addirittura, qualunquiste come il Movimento 5 stelle, in quanto almeno apparentemente dotate di un progetto politico nazionale. Tanto più che, come dovrebbe essere noto, la rivoluzione in occidente è fallita, condannando al sostanziale fallimento anche le rivoluzioni in oriente, proprio in quanto non si è stati in grado di riadattare e concretizzare sul piano nazionale la strategia rivoluzionaria e il programma massimo. Tale successo è inoltre andato a prosciugare il bacino elettorale delle forze della sinistra radicale, facendo breccia in molti simpatizzanti di quest’ultima.
D’altra parte, non di rado l’internazionalismo che si contrappone non solo al nazionalismo, ma anche al nazionale, rischia di regredire a una forma, più o meno mascherata, di cosmopolitismo. Quest’ultimo non può affatto venir considerato come una prospettiva superiore e più progressista del nazionale, in quanto fa riferimento a una prospettiva illuminista, antecedente alle grandi rivoluzioni borghesi di fine settecento. Del resto il cosmopolitismo non solo si declina, non di rado, nel sostegno politico a forme di dispotismo illuminato, ma non sempre riesce a distinguersi radicalmente da prospettive imperiali e bonapartiste.
D’altra parte, se la contrapposizione della prospettiva internazionalista della sinistra radicale nei paesi a capitalismo avanzato, cioè nei paesi imperialisti, non può che essere antitetica al nazionalismo, in paesi in lotta contro l’imperialismo e il neocolonialismo, l’idea di patria e di nazione mantengano un’impronta così radicalmente rivoluzionaria (si pensi al celeberrimo slogan della Rivoluzione cubana: Patria o muerte!) da poter egemonizzare persino il nazionalismo, portandolo a una completa rottura con lo sciovinismo.
Al contrario, nei paesi colonialisti e imperialisti il nazionalismo tende a divenire così “naturalmente” sciovinista da rendere pericoloso persino il richiamo al patriottismo. Ciò non toglie che, proprio in tali contesti, i nazionalisti – tendenzialmente sciovinisti – sono quasi sempre i primi e i principali nemici non solo della prospettiva di una rivoluzione nazionale, ma persino del basilare principio democratico all’autodeterminazione nazionale del proprio stesso popolo. In effetti, nei paesi colonialisti e poi nei paesi imperialisti sino ai nostri giorni quasi sempre i nazionalisti non solo non sostengono il diritto degli altri popoli oppressi all’autodeterminazione nazionale ma, nei fatti, finiscono – in modo più o meno consapevole – per ostacolare una piena e reale autodeterminazione del proprio stesso popolo. Pensiamo al caso italiano in cui il nazionalismo tendenzialmente sciovinista si è a tal punto compromesso con il fascismo, che da dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, pur pretendendo di essere il massimo del patriottismo è di fatto, per non rimanere all’angolo e proporsi come forza di governo, pronto a svendere non solo il proprio popolo, ma la stessa patria ai poteri forti stranieri, internazionali e transnazionali. Pensiamo come la destra missina e i suoi attuali eredi per poter pesare nella politica dell’Italia repubblicana e, ancora oggi, per stare addirittura al governo debbano completamente svendere agli Stati uniti e, più in generale, all’atlantismo i propri stessi interessi nazionali.
D’altra parte, la rivoluzione socialista e tanto più la rivoluzione internazionalista si deve, necessariamente, sviluppare in primo luogo sul piano nazionale se vuole sperare di essere credibile e di incidere sulla realtà. Perciò i rivoluzionari debbono in primo luogo mirare a una rivoluzione nazionale e, più in generale, le forze della sinistra radicale possono tornare a essere efficaci solo mettendo in campo una prospettiva credibile, in primo luogo, sul piano nazionale.
Ciò non toglie che la sacrosanta critica alla sinistra liberale e, più in generale cosmopolita, alla sinistra antinazionale, non può in nessun modo rischiare di slittare su posizioni rosso-brune. A tal proposito resta indispensabile, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato, distinguere bene l’ideale e la prospettiva nazionale, da ogni forma di nazionalismo che, nei paesi imperialisti, tende a essere, in quanto tale, imperialista. Né, tanto meno, si può prendere la scorciatoia di rinunciare, per non perdere contatto con la prospettiva della rivoluzione nazionale, all’internazionalismo, altrimenti non può che essere difficile distinguere nettamente la prospettiva di un socialismo nazionale, con la deriva nazionalsocialista.