Migranti, la carità umana non basta

“Rispedirli tutti a casa!”; “Ci vogliono le ruspe!”. Sono le frasi ricorrenti: nei social network, in strada, al bar e pure in qualche talk show televisivo, dove sempre più spesso si dà spazio a personaggi come Salvini che rigurgitano frasi di odio e violenza razzista. Ma è la strategia del capitale che frammenta la classe lavoratrice, e che questa sia composta da maschi o femmine, da vecchi o giovani, da nativi o migranti poco importa.


Migranti, la carità umana non basta

“Rispedirli tutti a casa!”; “Ci vogliono le ruspe!”. Sono le frasi ricorrenti: nei social network, in strada, al bar e pure in qualche talk show televisivo, dove sempre più spesso si dà spazio a personaggi come Salvini che rigurgitano frasi di odio e violenza razzista. Ma è la strategia del capitale che frammenta la classe lavoratrice, e che questa sia composta da maschi o femmine, da vecchi o giovani, da nativi o migranti poco importa.

di Carmine Tomeo

“Bisogna rispedirli tutti a casa!”; “Non bisognerebbe nemmeno soccorrerli in mare”; Le ruspe… ci vogliono le ruspeeeeee!!1!”; “Buonista! Se ti piacciono tanto, portali a casa tua”. Sono frasi ricorrenti: nei social network, in strada, al bar e pure in qualche talk show televisivo, dove sempre più spesso si dà spazio a personaggi come Salvini che rigurgitano frasi di odio e violenza razzista. Quando uno xenofobo è mosso per un momento da sentimenti di pietà, al massimo si spinge ad affermare che “bisogna aiutarli a casa loro”. Che poi è un vecchio refrain che la destra usa per mascherare i propri istinti razzisti e la propria visione politica classista.

Poi capita che qualche “magnate”, predisposto ad una particolare forma di filantropia, si muove per aiutare qualche “poveraccio” in casa sua. Così quello svuota una fabbrica qua e trasferisce macchine, impianti e produzione in un Paese povero. Porta lavoro dove non c’è, il magnate; il nostro filantropo non dà un pesce ad un poveraccio, gli dà una canna da pesca per pescare. Peccato che poi quel pesce non potrà essere mangiato da quel poveraccio, ma verrà preso dal filantropo e venduto in un Paese del cosiddetto Nord del mondo a poco prezzo. Il lavoratore a basso reddito del Paese ricco può allora mangiare il pesce a poco prezzo pescato dal poveraccio, che è un lavoratore pure lui ma più povero e più sfruttato; ed il magnate (che a questo punto, si sarà capito, è un padrone) fa così i suoi affari. Nei Paesi poveri si produce a poco ciò che verrà acquistato nei Paesi ricchi, e così pure i salari dei lavoratori dei Paesi ricchi possono essere tenuti bassi, smorzando le tensioni dovute alla crescente povertà.

Si instaura quindi, come descrive Vasapollo in un suo trattato, quel “rapporto di dipendenza delle periferie” del mondo “fondato sulla subordinazione economica, politica, culturale dei paesi dominati a quelli dominanti”. Una subordinazione particolarmente necessaria al capitale in un periodo di crisi da sovrapproduzione qual è quello attuale e grazie alla quale, continua Vasapollo, “nelle periferie la forza-lavoro produce un superprofitto che, bilanciando i tassi di profitto striminziti realizzati al centro, garantisce la sopravvivenza dei complessi industriali centrali e dello stesso capitalismo”. Insomma, nei Paesi ricchi si vive anche dello sfruttamento dei lavoratori dei Paesi poveri.

Ma, fa notare Carla Filosa, l’accumulazione di miseria “è proporzionale all’accumulazione capitalistica” e “l’ignoranza, la brutalizzazione e il degrado morale, la schiavitù d’ogni genere, il commercio di esseri umani nel prosperare di mafie internazionali, ecc.” rendono “desiderabile per il padronato l’emigrazione di subumani già pronti al consenso del comando secondo le opportunità capitalistiche”. Il padronato, così, può trovare sul mercato interno una forza-lavoro più ricattabile, più facilmente sfruttabile, a minor costo, priva di diritti, da impiegare in un processo che de-qualifica e de-valorizza il lavoro.

Non è, pertanto, il lavoratore migrante a chiedere di svolgere lavori spesso umilissimi e sottopagati che, secondo il luogo comune, “gli italiani non vogliono più fare”. È semmai il padronato che impone condizioni di sfruttamento ai lavoratori migranti, usate come strumento di attacco alle condizioni di lavoro di tutti i lavoratori, migranti e nativi. Le condizioni di lavoro così imposte, spingendo verso il basso qualificazione e salario attraverso la sostituzione di manodopera qualificata con quella meno qualificata e più sfruttabile, spingono alla conflittualità tra lavoratori migranti e lavoratori autoctoni. E se ci si pensa un attimo, il meccanismo non è poi diverso dalle tensioni che vengono artificiosamente create per mettere in competizione i lavoratori anziani con quelli giovani, i lavoratori con gli ex lavoratori (pensionati), i lavoratori cosiddetti “privilegiati” con quelli precari.

La strategia del capitale, insomma, è di frammentare la classe lavoratrice, e che questa sia composta da maschi o femmine, da vecchi o giovani, da nativi o migranti poco importa. Le differenze di genere, di età e di passaporto sono un pretesto artatamente creato, utile al padronato che, utilizzando il vecchio sistema del divide et impera, può mantenere e aumentare il suo comando sul lavoro impedendo una ricomposizione di classe. E chi politicamente soffia sul fuoco dello scontro tra migranti e autoctoni, non fa altro che fare il gioco dei padroni.

Non aiuta, in questo senso, nemmeno la carità umana quando questa viene portata senza notare il dato di classe dello sfruttamento del lavoro migrante, limitandosi perciò alla compassione.

Perchè senza porre la questione in termini di classe, l’azione politica non potrà che limitarsi alla carità senza combattere lo sfruttamento. Un’azione che, se non accompagnata dal tentativo di ricomporre la classe e la sua coscienza, certo potrà aiutare una parte degli sfruttati a migliorare le proprie immeditate condizioni di vita, ma non inciderà sullo sfruttamento che rimarrà intatto per tutti i lavoratori. Con il vantaggio, non secondario, per il padronato, di tenere bassa la conflittualità di una parte dei lavoratori, di alimentare tensioni tra chi non ha niente e chi riceve la carità di un pasto o di un sussidio da spendere (ovviamente) per compare merci prodotte con lo sfruttamento di tutti i lavoratori, siano essi vecchi o giovani, uomini o donne, bianchi o neri, italiani o migranti.

28/06/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carmine Tomeo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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