Gli operai sono morti, ma il fatto non sussiste. Tutti assolti gli imputati della Marlane-Marzotto di Praia a Mare. I morti della Marlane-Marzotto sembrano morti di serie B. A pochi giorni dalla sentenza nessuno ne parla più, nemmeno per chiedere la tanto agognata “riforma della Giustizia” come in occasione della sentenza nel caso Eternit.
Tutti assolti, perché “il fatto non sussiste” e per “insufficienza di prove”, gli imputati della Marlane-Marzotto di Praia a Mare. Il 19 dicembre scorso il Tribunale di Paola ha assolto in primo grado gli 11 ex dirigenti e responsabili dello stabilimento tessile accusati a vario titolo di aver causato la morte di 107 operai (le morti sospette sarebbero 140), tutti colpiti da patologie tumorali contratte, secondo la pubblica accusa, sul posto di lavoro. Sotto inchiesta i vapori inalati senza alcuna protezione, l'amianto sui freni dei telai, i prodotti utilizzati per la colorazione dei tessuti e i rifiuti sversati illegalmente.
Per tutti e 11 la procura di Paola, lo scorso 21 settembre, aveva chiesto complessivamente 60 anni di carcere, con accuse che andavano da omissione dolosa di tutele sul lavoro e lesioni gravissime a omicidio plurimo colposo e disastro ambientale.
Tra gli 11 imputati anche Pietro Marzotto, ex presidente del gruppo che gestiva lo stabilimento, e Carlo Lomonaco, ex responsabile del reparto tintoria, nonché ex sindaco di Praia a Mare: per loro i pubblici ministeri Paola Sonia Gambassi e Maria Camodeca avevano chiesto rispettivamente 6 e 10 anni di carcere. E ancora: 5 anni per l’ex amministratore delegato del gruppo Silvano Storer, per Jean De Jaegher, presidente di Marzotto USA a metà anni Novanta, e per Lorenzo Bosetti, ex sindaco di Valdagno e vicepresidente della Lanerossi; 8 e 3 anni per Vincenzo Benincasa e Salvatore Cristallino, quadri in Marlane; 4 anni e sei mesi per Giuseppe Ferrari; 7 anni e 6 mesi per Lamberto Priori; 5 e 3 anni per Ernesto Antonio Favrin e Attilio Rausse. L'assoluzione era già stata chiesta per Ivo Comegna. Si tratta di una lunga inchiesta condotta dalla Procura di Paola, che includeva tre diversi filoni di indagine, il primo dei quali risalente al 1999.
Il processo, inaugurato ad aprile 2011 e rinviato sei volte, era iniziato con un anno di ritardo, il 30 marzo 2012, e rischiava di finire prescritto. Con la sentenza letta il 19 dicembre scorso dopo 10 ore di aula di consiglio, il tribunale di Paola di fatto dà torto alla Procura non riconoscendo il nesso di causa-effetto tra le patologie tumorali -cavo orale, colon, laringe, polmone, pelle, prostata, vescica, occhio, encefalo, linfomi non Hodgkin e leucemie, quelle accertate ed esposte dal consulente di parte civile Paolo Crosignani durante l'udienza del 31 maggio 2013 – e le esalazioni tossiche sprigionate dai coloranti.
In attesa di leggere le motivazioni della sentenza - difficilmente ribaltabile dato che il presidente del Tribunale di Paola, Domenico Introcaso, è anche presidente della Corte d'Appello di Catanzaro - è necessario tenere a mente alcune cose: se dal punto di vista penale le prove della colpevolezza sono “insufficienti”, dal punto di vista civile il gruppo Eni-Marzotto l'anno scorso ha concordato un risarcimento economico (in totale avrebbe versato 7milioni di euro circa) con i parenti delle vittime, ottenendo la revoca della costituzione di parte civile e dunque ammettendo implicitamente la propria responsabilità; il silenzio di molti operai nel corso degli anni fu comprato, anche sul letto di morte, con i soldi, o con la promessa di assumere in fabbrica figli o mogli che la Marlane stessa trasformava in orfani o vedove; i materiali inquinanti sono sempre stati seppelliti nel territorio di Praia a Mare, e il primo ad autodenunciarsi fu Franco De Palma dopo essersi egli stesso ammalato di tumore.
Lo stabilimento fu costruito nel 1957 dal conte Stefano Rivetti, imprenditore del ricco Nord che negli anni Cinquanta scese a investire al Sud, tra Maratea e Praia Mare, feudo elettorale della Democrazia Cristiana dove ancora si facevano ghiotti affari con la Cassa per il Mezzoggiorno. Che infatti diede a Rivetti sei miliardi di vecchie lire per costruire prima il lanificio di Maratea (R1) e poi quello calabrese (R2). Così Rivetti con soldi non suoi portò lo sviluppo industriale in quella terra in perenne dopoguerra, che il “boom economico” non poteva guardarlo nemmeno in televisione.
Ma insieme al lavoro portò la morte e nessuno per decenni sembrò notare che in quelle poche centinaia di metri di “Calabria industrializzata”, con vista sul mare e sull'Isola di Dino, gli operai morivano a 35 anni perché tutto diventava velenoso.
Prima che le notizie della Marlane varcassero i cancelli della fabbrica si dovette aspettare il 1990, quando due coraggiosi operai della Marlane, Luigi Pacchiano e Alberto Cunto, intervennero a Scalea in occasione di un incontro dedicato all'ambiente: per la prima volta si parla degli operai calabresi che muoiono di lavoro.
Si legga Marlane: La fabbrica dei veleni, di Antonio Cirillo e Luigi Pacchiano (Coessenza, pagg. 189).
Ancora oggi i morti della Marlane-Marzotto sembrano morti di serie B. A pochi giorni dalla sentenza nessuno ne parla più, nemmeno per chiedere la tanto agognata “riforma della Giustizia”, come si fa in questi casi e come ha fatto Matteo Renzi in occasione della sentenza nel caso Eternit.
Molti attivisti che in questi anni hanno lottato al fianco dei parenti dei 107 operai, a Cosenza come nell'alto Vicentino (patria della famiglia Marzotto), parlano del caso Marlane come di una brutta storia bipartisan, che mette d'accordo quasi tutti dal centrodestra al centrosinistra.
E ricordano i nomi di alcuni degli avvocati che hanno difeso il gruppo industriale nel processo di Paola: Niccolò Ghedini (Pdl), Guido Calvi (PD) e Giuliano Pisapia (Sel).
Vista così la Marlane sembra una piccola Ilva, solo un po' più a sud dell'Ilva.