“Le persone e il pianeta prima dei profitti”. Mobilitazione globale contro il TTIP

18 aprile 2015, ore 11. È scoccata l’ora X. All’unisono, in tutte le piazze del mondo occidentale, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Italia a Malta, dal Portogallo alla Germania ed in tutti i 28 paesi dell’Unione Europea, centinaia di migliaia di cittadini si sono dati appuntamento per manifestare nei modi più fantasiosi 


“Le persone e il pianeta prima dei profitti”. Mobilitazione globale contro il TTIP

Il 18 aprile le principali piazze del mondo occidentale hanno detto no al Trattato di libero scambio tra Europa e USA: associazioni e movimenti locali, agricoltori e sindacati, ambientalisti e attivisti di Stop TTIP, tutti uniti contro il “colpo di stato silenzioso”. Intanto prosegue la raccolta firme per fermare l'accordo prima che Parlamento e Consiglio europei lo approvino.

di Beatrice Bardelli

18 aprile 2015, ore 11. È scoccata l’ora X. All’unisono, in tutte le piazze del mondo occidentale, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Italia a Malta, dal Portogallo alla Germania ed in tutti i 28 paesi dell’Unione Europea, centinaia di migliaia di cittadini si sono dati appuntamento per manifestare nei modi più fantasiosi  il proprio “no” agli accordi di libero scambio che la Commissione Europea sta trattando segretamente con gli Stati Uniti. “Un trattato fantasma si aggira in Europa…Fermiamolo! Le persone e il pianeta prima dei profitti” si è letto in tutte le lingue dei paesi europei e di quelli che si affacciano sull’Atlantico.  Una trentina gli eventi (molti i Flash Mob) in Italia (da Torino a Milano, da Bologna a Firenze, da Pisa a Roma, con due iniziative, a Villa Pamphili ed in piazza SS. Apostoli, da Napoli a Cosenza e Bari), 300 in Europa e migliaia nel mondo. In questa prima Giornata di azione globale contro i Trattati di Libero Scambio hanno fatto rete le associazioni ed i movimenti locali, gli agricoltori, i sindacati, gli ambientalisti, le donne, i giovani, gli attivisti di Stop TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), ma anche quelli contro il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo di libero scambio siglato nell’ottobre 2013  tra Canada e Commissione Europea (non ancora ratificato), che contiene la stessa clausola-ghigliottina che si vorrebbe inserire anche nel TTIP e che ha messo in allarme i democratici di tutto il mondo. In una sigla, ISDS (Investor-State Dispute Settlement), si nasconde quello che lo scrittore tedesco Juergen Roth, in un contesto simile, ha chiamato “Il colpo di stato silenzioso” (Der stille Putsch, 2014), l’attacco alla democrazia degli stati sovrani e, quindi, alla sovranità nazionale dei singoli popoli. Tale clausola si ritrova anche nel capitolo sugli investimenti di un terzo trattato, il TPP (Trans-Pacific Partnership), l’accordo commerciale transpacifico tra Stati Uniti, Canada e undici paesi bagnati dall’Oceano Pacifico (Cile, Perù, Messico, Giappone, Australia, Malesia, Brunei, Nuova Zelanda, Singapore, Vietnam e Corea del Sud), che doveva restare segreto per quattro anni, dopo la sua entrata in vigore, ma che, grazie a WikiLeaks, è diventato di dominio pubblico nel marzo scorso.

Se le due parti, Commissione Europea e Stati Uniti, firmassero il TTIP comprensivo di clausola ISDS, questa diventerebbe una bomba ad orologeria per le democrazie europee, compresa quella italiana, hanno scritto gli attivisti di Stop TTIP Italia. Perché, saltando a piè pari le giurisdizioni nazionali, verrebbe garantito il diritto per gli investitori transnazionali di citare in giudizio, presso un tribunale arbitrale creato ad hoc, i governi sovrani e le autorità locali qualora le loro società subissero perdite, anche solo potenziali, di profitti in seguito a decisioni adottate dalle autorità del paese ospite a tutela di settori altamente sensibili come l’agricoltura, l’ambiente, la sanità, il mercato del lavoro. Infatti, l’obiettivo primario del TTIP è quello di eliminare tutte le barriere “non tariffarie”, ovvero tutte le normative che limitano la piena libertà di investimento ed i profitti, anche potenzialmente realizzabili, delle società transnazionali, ad est e ad ovest dell’oceano Atlantico. In tutti i settori, nessuno escluso. Con il TTIP si vuole, in pratica, trasformare l’Europa in un paradiso delle multinazionali nordamericane svendendo lo Stato di diritto ai profitti degli investitori privati, “sopprimendo le norme in difesa dei diritti dei lavoratori e degli standard ambientali, mercificando i beni comuni e privatizzando i servizi pubblici locali”, come ha scritto la FIOM. Studi non solo italiani ma anche statunitensi, come quello dell’Università TUFTS del Massachusetts, hanno già previsto che, con l’applicazione degli accordi TTIP, in Europa si produrrà una perdita di 600.000 posti di lavoro ed un calo di reddito pro capite fino a 5.000 euro. Se fossero approvati i due trattati (CETA e TTIP), si potrebbe assistere anche ad un ingresso massiccio in Europa, ed in Italia in particolare (dove esistono ben 271 tipicità riconosciute), di prodotti alimentari contenenti alte quantità di pesticidi o di prodotti OGM, vietati fino ad oggi, come la mela OGM canadese che non marcisce mai, insieme ad un’ondata di frutta e verdura OGM che entrerebbe, grazie al TTIP, insieme al latte ed alla carne (di maiale e di manzo) agli ormoni ed al pollo disinfettato al cloro: un must sulle tavole dei cittadini degli Stati Uniti. Dove, secondo dati ufficiali, ogni anno, 1 persona su 4, pari a 76 milioni di persone, si ammala di patologie legate dal consumo di cibo. Se fosse approvato il TTIP, si legge sul volantino distribuito sabato, il commercio tra paesi europei crollerebbe e, nel settore agroalimentare, sarebbero buttati fuori mercato centinaia di migliaia di produttori, in primis gli agricoltori biologici. Così, i 13 milioni di agricoltori europei, alla fine, si potrebbero ritrovare succubi dei 2 milioni di agricoltori statunitensi abituati da sempre più alla quantità che alla qualità, è stato detto. 

Lo sanno molto bene gli agricoltori messicani, condannati alla fame dall’Accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA), siglato nel 1992 tra USA, Canada e Messico, che contiene la stessa clausola ISDS. Contro quell’accordo, lo stesso giorno della firma, il 17 dicembre, si ribellarono le popolazioni indigene che dettero inizio alla rivoluzione zapatista nel Chiapas. E contro il rischio di allargamento di quel trattato capestro in tutta l’America Latina ed in alternativa all’ALCA (Area di libero commercio delle Americhe) voluta dagli USA,  la Cuba di Fidel Castro ed il Venezuela di Chavez hanno creato, nel 2004, un accordo diverso, l’ALBA (Alleanza Bolivariana per l’America Latina ed il Caribe), basato sulla solidarietà e su progetti di mutuo soccorso e cooperazione, politica, sociale ed economica, tra le nazioni e i popoli. Dove al centro c’è l’uomo ed il suo ambiente, da proteggere, e non il profitto e la speculazione. Se in America Latina “un altro mondo” è già possibile, in Europa, il testo del TTIP continua a rimanere, per così dire (accidenti al “politically correct”!) “sotto traccia”. Nonostante che, dietro le pressioni della società civile e le richieste dell’Ombudsman, il mediatore europeo, la Commissione Europea sia stata costretta a pubblicare sul suo sito, in gennaio, otto testi del negoziato, che, tuttavia, sono stati giudicati scarsamente rilevanti (perché non dicono nulla sui punti di caduta del negoziato) dagli attivisti Stop TTIP Italia. Che hanno denunciato il fatto che i parlamentari europei, ad oggi, conoscono solo parzialmente il testo (che, comunque, ha già destato forti preoccupazioni nelle Commissioni Ambiente, Sviluppo e sulle Libertà civili del Parlamento europeo), che rimane praticamente secretato per decisione della Commissione Europea che lo ha reso accessibile solo ai membri della Commissione Commercio internazionale “Inta” con l’obbligo di non diffonderlo. Così come non conoscono il testo integrale del trattato i nostri ministri italiani nonostante il premier Renzi abbia già dichiarato che “il TTIP ha il nostro appoggio incondizionato e totale”. 

Per questo la Campagna Stop TTIP si è concentrata, da una parte, sul far presentare, in Italia, nei vari Consigli comunali, mozioni per il ritiro del nostro governo dal TTIP, nell’ambito del Consiglio Europeo, e per la non approvazione del trattato da parte dei nostri parlamentari europei; dall’altra, sul fare pressione, a nome di 375 organizzazioni della società civile d’Europa, su tutti i parlamentari europei per concordare una forte Risoluzione che respinga il TTIP e “qualunque futuro accordo commerciale o sugli investimenti che non sia al servizio dell’interesse pubblico” e che non preveda “un processo democratico” ed una “completa ed effettiva consultazione pubblica”. Intanto, prosegue la raccolta di firme in tutti i paesi europei su una petizione da inviare alla Commissione Europea per chiedere l’immediato arresto delle trattative sul TTIP. Obiettivo,  2 milioni di firme entro il prossimo ottobre (ad oggi: quasi 1 milione e 700.000 firme), termine dell’iter dei negoziati prima dell’approvazione nel Parlamento e nel Consiglio Europeo. Purtroppo l’Italia non sta facendo una bella figura di fronte alle grandi nazioni europee che, in alcuni casi, hanno addirittura raddoppiato il loro obiettivo di raccolta firme. Noi abbiamo raggiunto solo il 39% dell’obiettivo datoci (21.818 firme su 54.750), per questo invitiamo tutti i nostri lettori a firmare (cliccando qui).

Per difendere, prima di tutto, il principio costituzionale della nostra sovranità popolare.

19/04/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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