Il depotenziamento della medicina preventiva e territoriale ha visto la sanità pubblica impreparata davanti al contagio. Cosa è accaduto negli ultimi 30 anni alla sanità pubblica?
La riforma sanitaria (L. 833/1978) nata e approvata sotto la spinta del movimento operaio e delle associazioni ha superato il sistema a mutue allora imperante, ha impostato gli obiettivi del servizio sanitario (SSN) sui principi della universalità, per quanto riguarda l’accesso ai servizi, e della prevenzione primaria (prima della cura e della riabilitazione). A fine anni ’80 (in particolare con la L. 502/1992) inizia un processo di smantellamento a partire dalla entrata e parificazione del privato nelle prestazioni del SSN. Non si tratta solo di “concorrenza” del privato con il pubblico, più o meno esplicitamente favorita da governi regionali come la Lombardia, ma proprio di una “logica” privatistica che ha invaso le strutture pubbliche evidente anche dal cambio di denominazione tra Unità Socio Sanitarie Locali ad “Aziende” Sanitarie. Ha aiutato anche l’improvvido referendum attivato dagli “Amici della Terra” e votato a maggioranza dagli italiani per togliere le competenze ambientali alle USL e creare quelle che oggi sono le Arpa regionali. Si sono spezzettate le competenze e le funzioni (da ultimo, in Lombardia, centrando quasi tutto negli ospedali) rompendo il concetto di un approccio integrato ai determinanti della salute individuale e collettiva (condizioni di lavoro, di vita, ambientali).
Nei paesi ove governano le destre i contagi sono stati maggiori. Il liberismo e la privatizzazione della sanità sono tra le cause del diffondersi dei contagi?
La logica di non interrompere la catena economica del profitto ha portato sia a sacrificare centinaia di lavoratori (per rimanere in Italia) non solo nel comparto sanitario e socio-sanitario, che a ridurre l’unica arma immediata efficace di fronte a una minaccia sconosciuta, il distanziamento sociale. La privatizzazione, accentuata nel caso lombardo nello spostamento della centralità del sistema sanitario regionale sugli ospedali rispetto alla medicina territoriale, ha determinato un approccio ospedalocentrico della pandemia facendo divenire gli stessi ospedali i principali focolai di diffusione e favorendo il contatto tra pazienti e parenti che tramite gli operatori sanitari stessi. Dove era ancora in essere una medicina territoriale i danni sono stati minori.
Come riorganizzare allora la sanità pubblica?
Occorre ritornare principalmente a un approccio territoriale e basato sulla prevenzione prima che sulla cura. Parliamo di un concetto di salute diverso da quello tradizionale (anche dell’OMS quale stato di benessere complessivo dell’individuo) riconoscendo che le condizioni personali sono il risultato del contesto (lavoro, residenza, ambiente), se il contesto è “malato” è difficile pensare che il singolo rimanga in salute.
Da un punto di vista “sanitario” significa tornare, attualizzando e utilizzando anche le nuove tecnologie, a un sistema che oltre ad essere universalistico, fondato sulla fiscalità generale (e progressiva) configuri dei servizi a livello territoriale che garantiscano una capacità di intervento su tutti i determinanti la salute individuale e collettiva. Torniamo sempre alla “triade” lavoro, residenza, ambiente che comprende la tutela dell’igiene e della sicurezza nei luoghi di lavoro, gli stili di vita, le condizioni di inquinamento dell’atmosfera e quanto vi è correlato.
Torniamo a medicina preventiva e territoriale. Può esistere un modello nuovo di sanità pubblica e su quali basi?
Nel nostro manifesto abbiamo ripreso la proposta delle “Case della Salute” che fu di Giulio A. Maccacaro ancora prima della riforma del 1978. L’idea è di presidi territoriali nei quali vi sono tutte le risposte di primo livello alle diverse esigenze di salute. Oltre agli ambulatori di medicina generale, la medicina del lavoro, la medicina scolastica (pressoché scomparsa negli ultimi decenni), l’igiene pubblica e ambientale, i servizi sociali. Con una particolarità che va oltre la “tecnica” sanitaria: la partecipazione degli utenti e degli enti locali per modulare il livello dei servizi come peraltro è stata la impostazione originaria della riforma del 1978 (si veda la esperienza in corso della Consulta della città di Napoli), sostituita oggi dalle monocrazie dei “direttori generali” delle aziende sanitarie. Le strutture di cura (ospedali) e riabilitazione costituiscono il “secondo livello” come pure la diagnostica, la farmaceutica ecc.
Perché parlate di industria pubblica del farmaco? Quali sono i ruoli e gli interessi delle industrie farmaceutiche e quale ruolo hanno giocato nello smantellamento della sanità pubblica?
L’industria farmaceutica, per lo più fondata sulla ricerca di base pubblica, interviene ove si presentano occasioni di profitto. Malattie che interessano miliardi di persone (come la malaria) non sono oggetto di sforzi di ricerca perché poco profittevoli in quanto riguardano popolazioni povere; in casi come quello di ebola il vaccino e le cure sono state cercate e individuate solo quando si è temuto una estensione nei paesi industrializzati. Per non dire del sistema dei brevetti: non solo si brevetta la natura ma si cerca di allungare i tempi dei brevetti “scoprendo” l’efficacia di un farmaco su altre patologie rispetto a quelle in cui era impiegato. Avere una industria del farmaco pronta alla produzione di farmaci quando necessario per aspetti emergenziali e per calmierare il mercato dei medicinali essenziali nei periodi “normali” significa svincolarsi dalla capacità di ricatto e di sovrasfruttamento dei brevetti. L’industria farmaceutica ha pesato fortemente nell’indebolire la sanità pubblica sia scaricando su questa costi maggiori (cioè profitti per sé) sia promuovendo in continuazione nuovi “bisogni” di farmaci (e parafarmaci) favorendo ed espandendo una logica “prestazionale” della sanità: più analisi, più farmaci disponibili = più salute. Un inganno su cui è cresciuto lo spreco e la corruzione.
Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: nonostante il crollo delle ore lavorate il numero di infortuni e morti continua ad essere tra i più alti d'Europa. Cosa possiamo fare per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori?
L’incremento degli infortuni è andato di pari passo con l’espansione del precariato come pure della frammentazione e riduzione dimensionale delle imprese. Pesa anche la distruzione dei servizi di prevenzione sia in termini di personale, falcidiato da interventi di riduzione del pubblico impiego, sia in termini di funzioni, risultando del tutto secondari rispetto agli obiettivi di “bilancio” delle aziende sanitarie. È inoltre saltato anche qui l’approccio iniziale incluso nella riforma del 1978: l’incontro nei servizi di medicina del lavoro territoriali (SMAL), dei tecnici con i lavoratori per impostare campagne di intervento nelle aziende tenendo conto delle caratteristiche di rischio e le priorità locali. Non solo questo contatto oggi non è ricercato (nemmeno dai sindacati) ma i tecnici sono sottoposti a forme di organizzazione del lavoro che “premiano” non la qualità degli interventi ma la quantità, soprattutto quando non prevede ispezioni e confronti con gli attori sociali. Si finisce così che gli interventi di maggiore importanza sono indagini su infortuni e malattie professionali, ovvero dopo l’evento perdendo la capacità di agire sulla realtà per promuovere la prevenzione. Manca e va ricostruita la capacità dei lavoratori di individuare i rischi e costruire vertenze per la propria salute e sicurezza, vi sono delle realtà in controtendenza e sono quelle ove vi è un maggiore spirito collettivo anche di fronte a condizioni di rapporti di lavoro precari.
In Italia esistono decine di siti inquinati che sono fonte di malattie oltre a contaminare il territorio e i suoi prodotti. La lotta contro l'inquinamento è stata tra i cavalli di battaglia di Md. Avete dati aggiornati?
I siti inquinati rappresentano l’eredità di uno “sviluppo” economico e industriale che ha creato profitto sulla distruzione dell’ambiente e della salute, nella maggior parte dei casi si tratta poi di situazioni in cui l’inquinatore è riuscito a “fuggire” e i costi delle bonifiche, oltre agli effetti sulla salute, ricadono sul pubblico. Un pubblico che non è ancora in grado pienamente di “filtrare” correttamente le proposte di opere/attività ad elevato impatto come pure di agire con controlli efficaci sulle attività esistenti. Anche il recentissimo decreto legge sulle semplificazioni riduce tutele e indebolisce, ad esempio, le procedure di valutazione di impatto ambientale pur di “riattivare” opere che rischiano di produrre importanti e aggiuntivi conseguenze sui territori e sulle condizioni di vita degli esposti. La fotografia più aggiornata dei siti inquinati principali (i SIN, quelli “nazionali”) è stata fatta dal programma “SENTIERI”: nel quinto rapporto (2019) si riassumono i dati raccolti per 45 siti (corrispondenti a 319 comuni e quasi 6 milioni di esposti) confermando l’eccesso di malattie tumorali sia negli uomini che nelle donne che vivono in prossimità di tali siti come pure di malattie delle vie respiratorie. L’ultimo rapporto ha inoltre segnalato l’incidenza incrementale di malattie nei bambini in queste aree. E’ una conferma della giustezza delle nostre battaglie ovvero della correlazione tra nocività (nei luoghi di lavoro e che poi si riversano all’esterno) e la salute di chi vive nelle vicinanze (e vi lavora, spesso) e quindi della necessità di vertenze comuni tra popolazioni e lavoratori per superare ogni tipo di ricatto e di cause di patologie e di morte.
È nato il coordinamento nazionale per il diritto alla salute . Quali sono i vostri obiettivi?
Invito alla lettura del “manifesto” prodotto dal Coordinamento che cerca di andare oltre la protesta contro le modalità di gestione della emergenza pandemica che ha mostrato, soprattutto in alcune regioni, la debolezza e la “deviazione” dei servizi (o “sistemi”) sanitari regionali. I principali obiettivi possono essere così sintetizzati a partire dal titolo:
"la salute non è una merce,
la sanità non è una
azienda"
che vuole rovesciare la attuale direzione. L’efficacia va misurata in termini di incremento della salute collettiva, con strumenti come il Referto Epidemiologico Comunale, anziché di volumi e tempi di prestazioni erogate. La spesa sanitaria pubblica deve essere adeguata e indirizzata verso la prevenzione primaria, basata su condizioni di vita e ambientali sane. I Livelli Essenziali di Assistenza devono essere rimodulati e finanziati sulla base della appropriatezza e sostenuti da prove di efficacia. La prevenzione deve avere come perno una medicina territoriale, nella forma delle “case della salute” come punti di incontro delle esigenze locali (servizi sanitari, socio-sanitari e sociali) partecipata e coordinata con le strutture ospedaliere. Va superata l’impostazione aziendalistica fondata esclusivamente sulle “compatibilità” economiche, slegata dai reali risultati di salute, basata sulla figura monocratica dei direttori generali; va eliminata anche la catena del “rapporto fiduciario” dei lavoratori spesso ridotti al silenzio anche in caso di gravi inadempienze dei vertici. Azzerare la normativa che permette la libera professione intramoenia, altro fattore di diseguaglianza e la “sanità integrativa” (cavallo di troia della privatizzazione arrivata anche in molti contratti nazionali di categoria). Intervenire nell’ambito della formazione universitaria e delle specializzazioni conseguenti evitando la precarietà dei giovani medici laureati. La salute della donna va promossa a partire dal riconoscimento delle specificità, attraverso la medicina e la farmacologia di genere. Rimuovere ogni ipotesi di “regionalismo differenziato”, garantendo uniformità di accesso, e di qualità, alle cure in tutta la nazione. Le residenze sanitarie assistenziali come quelle per disabili fisici e psichici vanno poste in carico al SSN: va riconosciuta la necessità di cura della persona anziana, cronica, non autosufficiente.
Anche la sanità animale e le produzioni alimentari sono decisive; bisogna procedere ad una trasformazione agro-ecologica delle produzioni. La tutela della salute (dentro e fuori i luoghi di lavoro) e dell’ambiente sono connesse e interdipendenti e vanno affrontate in modo unitario e non distribuite su competenze diverse. Il riconoscimento delle malattie professionali deve passare dall’INAIL alle USL/ASL; il medico competente deve essere convenzionato con il SSN pubblico.
Va adottata una nuova organizzazione del lavoro che sia fonte di benessere per i lavoratori e non di stress. Dovrà essere rafforzato il ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) che devono poter partecipare attivamente alla Valutazione dei rischi. Va affermato l’obiettivo del MAC zero (cambio delle produzioni, eliminazione dalle produzioni delle sostanze tossiche). Nessuno “scudo penale” per gli infortuni da Covid. Sono i temi di una “riforma” della “controriforma” che, nel tempo, ha affossato i principi della legge 833/1978 e la loro pur parziale attuazione, sui quali chiediamo condivisione, sostegno e impegno diretto.