Mercoledì 3 novembre dalle ore 18 (puntuali) avrà luogo la decima lezione del corso di filosofia – tenuto dal prof. Renato Caputo – intitolato “Controstoria della filosofia da un punto di vista marxista”, secondo ciclo: “Dal comunismo utopistico di Platone al realismo immanente di Aristotele”.
Virtù dianoetiche e virtù etiche
Aristotele distingue tra due livelli di felicità, cui corrispondono differenti tipi di virtù. La massima realizzazione dell’uomo consiste nelle virtù dianoetiche, proprie della ragione e del pensiero (il termine greco dianoia equivale a pensiero, conoscenza razionale); il livello inferiore, invece, trova espressione nelle virtù etiche, che tutti possono raggiungere, legate al “costume” (ethos), ossia al controllo delle passioni mediante la ragione.
Le virtù etiche
Mentre Platone considera le passioni negative perché legate al corpo, Aristotele non le considera negative, purché siano disciplinate dalla ragione (questo perché per Aristotele corpo e anima sono un sinolo, mentre per Platone il corpo è la prigione dell’anima). Le passioni sono negative se si traducono in eccessi, il controllo della ragione garantisce la giusta misura, la medietà. La virtù è, dunque, considerata da Aristotele come il giusto mezzo tra due eccessi opposti, ad esempio la virtù del coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà.
Il comportamento come habitus
La virtù non è comportamento, ma un modo di essere da acquisire; per Aristotele si diventa virtuosi mediante l’abitudine, ripetendo comportamenti virtuosi, fino a quando il comportamento non diviene un modo di essere, un habitus. Contro l’intellettualismo etico di Socrate e Platone, per Aristotele conoscere il bene non implica il farlo. Ma cosa spinge l’individuo a comportarsi in modo virtuoso? Qualcosa di esterno all’individuo stesso, ovvero l’educazione e il costume, i valori sociali o meglio della polis. Come in Platone, anche per Aristotele etica e politica sono strettamente connesse e Aristotele considera la prima un ambito della seconda. Il costume rappresenta tuttavia solo un punto d’avvio: per essere morali le norme devono essere interiorizzate e fatte proprie dall’individuo. Perché si possa parlare di virtù l’azione deve avvenire per libera scelta senza costrizioni esterne.
La giustizia distributiva e commutativa
La virtù etica per eccellenza è la giustizia (proprio per lo stretto legame tra individuo e polis, Aristotele ne tratta nell’Etica più che nella Politica), perché è la virtù maggiormente rivolta agli altri e più direttamente legata alla polis.
Aristotele distingue tra giustizia distributiva e commutativa. La prima riguarda il rapporto tra la società e il cittadino e stabilisce i criteri mediante i quali devono essere distribuiti i beni comuni (come le ricchezze, gli onori, ecc.). Tale distribuzione dovrà avvenire secondo una proporzione geometrica in base al merito, cioè al contributo che ognuno dà al buon andamento della comunità. La giustizia commutativa riguarda invece i rapporti tra i privati, sia quelli volontari (ad esempio i contratti), sia quelli involontari (ad esempio il furto e la violenza). In questo caso la proporzione deve essere aritmetica, ovvero dovrà essere reso ciò che è stato dato, in modo da ristabilire l’uguaglianza (ad esempio: lo scambio attraverso l’equivalente in moneta, l’indennizzo per il danneggiato, la pena inflitta al reo).
L’Etica nicomachea
Aristotele dedica due libri su dieci dell’Etica nicomachea al tema dell’amicizia, che considera una virtù e comunque una cosa necessaria per vivere. Aristotele distingue tre tipi di amicizia: quella fondata sull’utilità reciproca, quella basata sul piacere e quella disinteressata che fa riferimento unicamente al bene e alla virtù. Le prime due sono destinate a durare fino a quando procurano utilità e piacere, solo l’ultima è vera amicizia, duratura e stabile, in questo caso si ama l’altro per se stesso, considerandolo un fine e non un mezzo.
Le virtù dianoetiche
Dato che l’uomo è caratterizzato dalla razionalità, la massima realizzazione della sua natura consiste nelle virtù che riguardano direttamente l’esercizio della ragione, ovvero le virtù dianoetiche. Esse sono:
- L’arte, ossia la capacità di produrre oggetti;
- La saggezza, ovvero la disposizione, accompagnata dal ragionamento, ad agire in vista del bene;
- L’intelligenza, ossia la capacità di intuire i princìpi primi;
- La scienza, ovvero la capacità di sviluppare i princìpi primi mediante il ragionamento deduttivo;
- La sapienza, ossia la disposizione verso la conoscenza che include sia l’intuizione intellettiva sia la dimostrazione deduttiva.
La sapienza (sophia) e la saggezza (phronesis)
Interessante è la distinzione introdotta da Aristotele fra la sapienza (sophia) e la saggezza (phronesis), ossia tra la disposizione a conoscere e quella ad agire bene. Ancora Platone, in effetti, le aveva identificate. Secondo Platone il sapiente (il filosofo) è anche saggio, proprio per questo gli aveva affidato la guida dello Stato (il filosofo in effetti conosce anche le idee valori). Per Aristotele invece le essenze sono oggetto delle scienze teoretiche, legate alle sapienza, mentre i valori sono oggetto delle scienze pratiche. Quindi sapienza e saggezza costituiscono due ambiti separati ed è possibile avere una delle due virtù senza l’altra. Per questo il filosofo, che ha la sapienza, non necessariamente sarà un buon politico.
La vita contemplativa
Le virtù dianoetiche si realizzano in una vita dedita allo studio e alla ricerca, ossia nella vita contemplativa, che per l’uomo è la massima realizzazione e la massima felicità. Dato che il pensiero è l’attività propria di dio (“pensiero di pensiero”), la vita contemplativa avvicina l’uomo a dio. Questo non significa che Aristotele neghi l’importanza della vita sociale; le virtù etiche sono anche proprie del filosofo che è membro della comunità a tutti gli effetti e deve svolgere in essa un ruolo attivo. La felicità deriva tuttavia dalla vita contemplativa, ma richiede una formazione filosofica che non tutti, di fatto, conseguono.
La politica
Per Platone la politica è il fine principale della filosofia e dell’attività del filosofo, mentre per Aristotele è una scienza tra le altre. Per Platone i filosofi devono guidare lo Stato, per Aristotele devono dedicarsi alla conoscenza. Mentre Platone delinea uno Stato ideale come modello cui le realtà storiche devono guardare, Aristotele invece raccoglie e analizza tutte le costituzioni delle principali poleis greche per ricavarne delle coordinate generali (metodo induttivo) e una classificazione delle forme di Stato. Riflettendo sui problemi e sui vantaggi di ognuna, giungerà a delineare le caratteristiche preferibili affinché lo Stato possa garantire la felicità materiale e morale dei cittadini. Anche per Aristotele, come per Platone, tuttavia c’è uno stretto legame tra etica e politica: l’individuo a suo avviso deve essere subordinato al bene dello Stato, che ha un compito pedagogico verso i propri cittadini.
L’uomo è un animale sociale
Per Aristotele l’uomo è un animale sociale (chi non è parte della comunità, della città, o è una belva o è un dio). La prima unione naturale è la famiglia, che comprende coniugi, figli e schiavi (la schiavitù è considerata da Aristotele un fatto naturale, la donna è ritenuta inferiore all’uomo, cui spetta il comando della casa).
L’economia
Dell’analisi della famiglia fa anche parte l’economia (ovvero l’amministrazione della casa). Aristotele distingue due tipi di acquisizione dei beni: quello per beni necessari alla sopravvivenza e la crematistica, cioè l’acquisizione di beni al di là del necessario (che Aristotele condanna). Le merci prodotte hanno un duplice uso, quello relativo all’oggetto in sé (utilità) e lo scambio con altri prodotti.
Dalla famiglia, al villaggio alla polis
Dalla famiglia si passa al villaggio e infine con l’unione di più villaggi alla città-stato, la polis. Anche se lo Stato cronologicamente è l’ultimo a formarsi, è il primo dal punto di vista logico, perché è il tutto che dà significato alle parti e svolge verso i cittadini un’opera educativa, indirizzandoli verso la virtù.
Le forme dello Stato
La costituzione è la forma dello Stato, Aristotele classifica così le forme di Stato
Interesse comune |
Interesse privato (degenerazione) |
|
Potere di uno |
Monarchia |
Tirannia |
Potere di alcuni |
Aristocrazia (migliori) |
Oligarchia (più abbienti) |
Potere di molti |
Politia |
Democrazia (poveri) |
La medietà della Politia
La costituzione migliore è secondo Aristotele la politia (in cui i cittadini affidano le cariche pubbliche ai migliori, soprattutto dal punto di vista morale, i quali lo eserciteranno in vista del bene comune), giusto mezzo tra gli estremi negativi dell’oligarchia e della democrazia, dato che distribuisce il potere, al contrario delle forme autoritarie (quali la tirannia). La caratteristica della politia è la medietà, in quanto è caratterizzata dal dominio della classe media (che dispone di schiavi e non deve, dunque, svolgere il lavoro agricolo); la polis deve essere di medie dimensioni demograficamente e territorialmente. Aristotele sottolinea tale esigenza in quanto la polis deve rendere possibile la partecipazione di tutti i cittadini (anche se dalla cittadinanza sono esclusi gli schiavi, le donne, i meteci e gli operai) e lo Stato deve essere a misura d’uomo.
La costituzione deve rispondere alle esigenze specifiche di un popolo
In ogni caso non esiste secondo Aristotele una costituzione migliore in assoluto, perché la costituzione deve essere in primo luogo adatta ai popoli (ad esempio Aristotele ritiene che per i barbari sia meglio la monarchia, perché gli individui non hanno le caratteristiche necessarie per partecipare alla gestione dello Stato).
Contro la divisione in classi dei cittadini
Contadini, operai e commercianti non devono essere considerati cittadini, perché le loro occupazioni gli impedirebbero, secondo Aristotele, di coltivare la virtù. I cittadini si dovranno occupare, a parere di Aristotele, della difesa della città nella giovinezza (in quanto guerrieri), della sua amministrazione da adulti (in quanto governanti) e del culto da anziani (in quanto sacerdoti). Aristotele respinge l’idea di tre classi sociali distinte per evitare che i guerrieri tendano a impadronirsi del potere. Aristotele critica l’abolizione della proprietà privata, la comunione delle donne e la rigida suddivisione in classi nello Stato platonico, ma rimane un motivo di fondo comune: lo Stato deve educare alla virtù e ha un ruolo formativo verso i cittadini. L’educazione impartita dallo Stato deve essere uguale per tutti i cittadini.
La poetica
Le scienze poietiche (da poiesis, produzione) comprendono tutte quelle attività finalizzate alla produzione degli oggetti, Aristotele le considera come arti e non come tecniche perché oltre alla produzione l’arte comprende anche una disposizione al ragionamento (alcune regole sulla base delle quali sviluppare l’attività produttiva e le ragioni delle regole). L’arte è trattata nella Poetica, di cui ci è giunto solo il I libro: dedicato all’analisi della tragedia.
L’arte come attività mimetica
Come per Platone anche per Aristotele l’arte è imitazione, ma in senso positivo, perché imitando le cose ci aiuta a comprendere meglio la verità. L’arte infatti non si limita a descrivere l’esistente, ma ne coglie i caratteri generali trasformando un oggetto o una persona in un tipo che rappresenta tutti gli altri. L’arte ha, quindi, una funzione conoscitiva superiore alla storia che documenta solo gli eventi senza la pretesa di universalità (coglie il particolare), mentre la tragedia, ad esempio, narra ciò che può accadere in generale, parla quindi del verosimile, che se non è proprio l’universale, è comunque qualcosa di analogo all’universalità.
La funzione catartica dell’arte
Se per Platone l’arte era da condannare perché suscitava passioni, per Aristotele questo è vero, tuttavia, in particolare la tragedia, risvegliando negli spettatori passioni molto forti, rappresentandole sulla scena le oggettiva, così lo spettatore nel vederle dall’esterno se ne libera (sviluppando così la funzione catartica dell’arte).
Le tre unità aristoteliche
Per essere efficace la poesia (Aristotele pensa alla tragedia) deve seguire delle regole precise: come l’unità di azione, di luogo e di tempo, deve cioè secondo Aristotele narrare una vicenda in cui tutti i singoli eventi sono concatenati in modo unitario, senza dispersività.
La retorica
La retorica era stata condannata da Platone in quanto arte della persuasione e non della verità. Per Aristotele la retorica, purché non applicata alle scienze teoretiche che riguardano il necessario, è legittima; anche se non può pretendere la certezza ma solo la ragionevolezza delle conoscenza (risulta valida solo nell’ambito del possibile). Il procedimento sillogistico della retorica non è, secondo Aristotele, dimostrativo ma persuasivo (entimema), si basa ciò su premesse probabili e non certe. Molto spesso non segue la struttura triadica del sillogismo, ma sottintende una della premesse; ad esempio: “sono un uomo, posso sbagliare”, sottintendendo “gli uomini possono sbagliare”.
Le regole della retorica
Aristotele analizza le regole della retorica, soffermandosi sulle tecniche per rendere più efficace un discorso: la lunghezza del discorso non deve essere eccessiva, occorre far spesso ricorso ad esempi e metafore, è consigliabile partire da premesse accettate universalmente. La retorica non è, però, come per i sofisti semplice persuasione indifferente ai contenuti. Il principio fondamentale è infatti che le tesi siano adeguatamente sostenute da argomentazioni, da ragionamenti corretti e condivisibili.