Syriza al governo: due anni dopo

Un bilancio sulla cultura politica di Syriza


Syriza al governo: due anni dopo Credits: https://www.flickr.com/photos/piazzadelpopolo/

Se la discussione su Syriza continua, nonostante e dopo i tanti articoli, le tante tavole rotonde, i molti libri e documentari; se coinvolge molti più di coloro che hanno vissuto traumaticamente il 2015, forse è perché il bilancio riguarda qualcosa di più ampio che non il giudizio sui protagonisti, le conquiste misurabili o i danni tangibili. Il bilancio si fa, oltre che negli anniversari, quando si tratta della fine di un’epoca. E, da questo punto di vista, la discussione che continua su Syriza riguarda proprio l’epoca dopo la fine.

Anche se per adesso possiamo fare soprattutto delle ipotesi, il “dopo” ha lasciato già delle impronte che non si possono ignorare. Mi riferisco alla calma piatta a livello dei movimenti, al ritiro a vita privata di grandi masse di persone, alla frammentazione della Sinistra anti-memorandum e alla sua insufficiente risonanza, all’impennata del “voto indistinto“. E, ancor di più, mi riferisco all’emergere di forme di partito di tipo personalistico, che preferiscono non fare riferimento ad alcuna idea di sinistra.

Invece di creare spazio e possibilità alla sua sinistra, l’“adattamento” del governo sembra aver inaugurato una stagione in cui, nell’immaginario sociale, la Sinistra, in qualunque versione, non significa più nulla, o addirittura significa qualcosa di molto negativo.

Non è certo un mistero: il percorso grazie al quale Syriza è andato al governo non ha riguardato solo la cerchia dei membri di punta e Alexis Tsipras. E neanche è stato unicamente il prodotto della crisi economica, durante la quale si è verificato il boom elettorale del partito.

Nonostante i suoi problemi nel rapporto col mondo del lavoro, Syriza ha dato un forte segnale, ricollocando le donne delle pulizie licenziate dal precedente governo, in tempi in cui lo scollamento tra mondo del lavoro e benessere, e tra benessere e politica, era – ed è ancora – un luogo comune.

Con tutti i difetti della vita interna al partito (il leaderismo, la fiacchezza organizzativa, il paralizzante frazionismo, le divisioni interne e il centralismo elettorale), Syriza è stato giustamente trattato dai suoi nemici come un “partito strano”, perché ha insistito sull’importanza del partito come elemento di ricomposizione della società, così come lo poneva, ai suoi tempi, Gramsci.

Per questo ha conservato, dunque, una qualche dimensione di massa, e una considerevole e adeguata presenza in ambito sociale, in un’epoca in cui, e già fin dagli anni ’90, l’antipartitismo godeva di un enorme successo.

Infine, ponendo come centrale lo slogan “cambiamo prima la Grecia e poi l’Europa” (che, a posteriori, può sembrare uno scherzo di cattivo gusto), il partito ricordava, innanzitutto, che la politica di sinistra si fa al presente, pur avendo un orizzonte strategico; in secondo luogo, che, sotto la pressione delle postmoderne ideologie della globalizzazione, “il nemico è [ancora] a casa nostra” (Lenin), e perciò la lotta politica inizia inevitabilmente a livello nazionale, per continuare su quello internazionale.

Non si tratta di idealizzare qualcuno (e chi, d’altra parte…): Syriza non è stato un partito di “tipo nuovo”, non ha mai aspirato a essere “(il) partito della classe operaia”; il suo europeismo antitedesco si è dimostrato perlomeno ingenuo, la sua teoria, ammettendo che ne avesse una e questa ne abbia influenzato la politica, non era una qualche versione rinnovata del leninismo. Eppure, lungo il suo percorso dal 2004 in poi, ha preservato, pur fra contraddizioni, un patrimonio storico della Sinistra comunista democratica. Questo prima che rivelasse un eurocomunismo sinonimo di moratoria unilaterale tra “vertici”.

Per quanto ci sia bisogno, dunque, di una “de-Syrizzazione della Sinistra”, sulla base dell’esperienza del 2012-2015 e del suo esito, nessuno può negare che, come nel caso di “Questo è un colpo di stato” detto da parte del suo gruppo dirigente, Syriza sia stato un partito della “modernità”: forti riferimenti sociali e adeguate rappresentanze, organizzazioni e legami con i movimenti sociali, attenzione per il presente e per il futuro. Strumenti, questi, che quindi hanno tenuto aperta la porta alla trasformazione sociale, non solo alla scacchiera politica.

Con i fatti del 2015 è stato portato a termine il passaggio alla situazione “postmoderna”: la perdita del patrimonio storico acquisito nel corso dell’ultimo decennio (secondo alcuni, ”degli ultimi decenni”); l’eliminazione “de facto” del partito dal governo e la paralisi degli organi di partito; la sostituzione della politica di massa con il principio “del leader carismatico”; lo svincolarsi dalle vecchie rappresentanze sociali e dalle “ossessioni” internazionaliste in favore dell’ “interesse nazionale”; il passaggio dalla “difesa” alla “valorizzazione” del patrimonio pubblico; l’equivalenza delle disuguaglianze di classe alla “minimizzazione del danno”: “rete” di protezione per i più poveri tra i poveri, politica di respiro locale e limitata, diminuzione della disoccupazione e aumento della precarietà, istituzione di una “carta per gli alimenti” per i nullatenenti, ma anche di sanzionamenti per i disoccupati. In poche parole, un pragmatismo ideologico e politico come quello descritto dal suo famoso teorico americano Richard Rorty: “dal momento che non possiamo fare molto e lo sappiamo, dal momento che le istituzioni non sono sufficienti per fare ciò che si deve, e che le costrizioni dovute alla contingenza sono insormontabili, ci liberiamo dal peso delle convinzioni e facciamo ciò che possiamo” [1]. Il recente sostegno a Syriza da parte di Toni Negri, con toni particolarmente drammatici (“che cosa avrebbero dovuto fare allora, suicidarsi?”) riecheggia esattamente questo pragmatismo del “post-sinistra”.

Italianizzazione

Se Syriza al governo ha reso la difesa del patrimonio della Sinistra comunista l’equivalente del suicidio politico, lo stesso era avvenuto in precedenza anche in Italia, con l’esperienza di governo da parte di Rifondazione Comunista e dei suoi epigoni, sia alla sua destra che alla sua sinistra. Si è trattato della stessa condizione, che ha indebolito le sue organizzazioni, quando solo poco tempo prima lo stesso partito era stato la macchina motrice del movimento contro la globalizzazione. Sulla base di questa stessa circostanza, i teorici dell’ex Autonomia Operaia chiedono, da allora in modo ancora più categorico, di “farla finita con la Sinistra”.

L’esito finale, così in Grecia come in Italia, non riguarda la rottura con il socialismo che abbiamo conosciuto, che sia nella sua versione sovietica o liberale, e cioè quello della “gestione integerrima” del capitale. Il “dopo Sinistra”, nel caso in questione, significa rottura con una condizione ideologica, politica e culturale per la quale le classi sociali, i partiti e il terreno della lotta nazionale avevano ancora importanza nell’ipotesi del cambiamento sociale – il che non escludeva, naturalmente, i suoi limiti, già dai tempi di Marx e del Manifesto del Partito Comunista.

Dall’impegno politico a “qualsiasi cosa va”

Al bilancio dei due anni di governo Syriza, dunque,si deve allora anche aggiungere il suo contributo a ciò che potremmo chiamare “politica della soggettivizzazione postmoderna”, a una politica che riguarda il come si comportano le persone e i partiti nella vita “dopo”. Se impegnarsi in obiettivi di ampio respiro equivale per lo più a una politica del suicidio, allora nella vita “dopo” bisogna che ci abituiamo all’idea che “il tempo viene spezzettato in episodi, ognuno con un inizio e una fine, ma senza preistoria né futuro, che il rapporto tra questi episodi, se esiste, è piccolo, e che, inoltre, la loro alternanza appare casuale, fortuita, inaspettata; e poiché questi episodi vengono dal nulla, essi vanno e vengono senza avere conseguenze di lunga durata. In un mondo così fatto”, scrive Zygmunt Bauman, “appare saggio e prudente non fare progetti a lunga scadenza, né investire in un futuro remoto (dato che non possiamo presumere quanto affascinanti saranno allora i nostri attuali obiettivi, né quale sarà il valore dei nostri odierni vantaggi), né essere legati in modo particolare a qualche luogo, o popolo, o gruppo, o scopo, o anche a qualche immagine di noi stessi. Non perché potrebbe travolgerci l’onda al levarsi dell’ancora, ma perché potremmo non avere neppure l’ancora” [2].

Forse, quindi, non vale in generale l’assunto che il neoliberismo è incompatibile con la Sinistra. Ciò che sembra più probabile è che esso possa comporre la Sinistra e la gente di sinistra che è compatibile con il suo programma. Questa, tuttavia, è solo una delle fondamentali sfide nella nuova situazione.

Τraduzione dal greco: Aldo Piroso – Cura: Petros-Iosif Stanganellis


NOTE

[1] Richard Rorty, Casualità, Ironia, Solidarietà, Alessandria, 2002

[2] Sigmud Bauman, Da pellegrino a turista (dal libro Di nuovo soli: l’etica dopo la sicurezza, Ed. Erasmo 1998), RedNotebook 2.11.2014

25/02/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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