Perché non ci dicono che sta succedendo in America Latina?

Le forti manifestazioni dei lavoratori latinoamericani costituiscono per noi un cattivo esempio; meglio non parlarne o farne una narrazione mistificante


Perché non ci dicono che sta succedendo in America Latina?

Tutti i santi giorni Giovanna Botteri, trasferita da agosto di quest’anno da New York a Pechino, si affanna con il suo solito tono enfatico e un po’ patetico a illustrarci la crudeltà e la brutalità di cui si avvalgono le autorità cinesi nel reprimere dei “pacifici dimostranti” che aspirano solo alla “democrazia”. Certo, la signora Botteri è un’esperta di “democrazia”, anche se ha vissuto 12 anni in un paese, la cui costituzione non contiene nemmeno una volta questa complessa parola [1], preferendo parlare solo della tanto agognata “libertà”.

In suo interessante articolo Pino Arlacchi ci spiega quale è il criterio che guida gli operatori dei più potenti mezzi di comunicazione di massa: “Non riportare mai la versione dell’altra parte in campo e limitarsi a ripetere la stessa storiella, senza il minimo approfondimento”, e senza fare nessuna differenza, per esempio, tra Cina e Venezuela, tra “guerre, massacri e catastrofi”. Ci racconta, inoltre, un’altra storia: la maggioranza della popolazione di Hong Kong non è anticinese, il Trattato oggetto delle proteste prevede l’estradizione dei responsabili di reati comuni puniti con più di sette anni di carcere, la ragione del malessere dei manifestanti sta nella decadenza della città come centro finanziario.

Invece, come già sottolineato su questo giornale, pochissimo spazio è dedicato all’America Latina e alle mobilitazioni che stanno sconvolgendo la regione dopo che gli esperimenti progressisti sono stati fatti fallire in vari modi, utilizzando tutti i metodi di quella che alcuni oggi chiamano “guerra ibrida”. Qualcuno potrebbe dire meglio così, dato che quando ne parlano ci rimpinzano di bugie, definendo per esempio Nicolás Maduro e Evo Morales dittatori, sostantivo che non viene mai applicato a Donald Trump, che pure gestisce un potere assai più grande dei suoi rivali latinoamericani. Stante il sistema elettorale statunitense, non si dica che è stato eletto democraticamente.

Recentemente Atilio Borón, noto sociologo argentino, ha definito arteriosclerotico lo scrittore Mario Vargas Llosa, anche lui premio Nobel come altri utili all’autocelebrazione del sistema, e lo ha accusato di essere un bugiardo in particolare per un articolo pubblicato da El País (guarda un po’) lo scorso primo dicembre, nel quale afferma che Evo non sarebbe il primo indio ad essere un governante in America Latina [2] e che la sua destituzione è stata provocata da un’imponente ribellione popolare. Quest’ultima sarebbe stata suscitata dal desiderio del leader boliviano di restare ancora a lungo al potere con “un fraude grotesco” dopo 14 anni di presidenza [3].

Naturalmente lo scrittore reazionario, passato con disinvoltura dal marxismo sartriano al liberalismo – continua Borón – non sa o fa finta di non sapere che il suo amico Felipe González è stato al potere 14 anni, che Angela Merkel dopo aver avuto 4 mandati ha annunciato che si ritirerà dalla politica solo nel 2021, superando così i 14 anni dell’indio boliviano.

Come già scritto su questo giornale, l’accusa di brogli elettorali lanciata contro Morales da tutti i paesi occidentali, che hanno legittimato il golpe, è stata smentita a chiare lettere da una relazione presentata dal prestigioso Center for Economic and Policy Research di Washington, nella quale si può leggere che “non ci sono evidenze che mostrino la presenza di irregolarità o di frodi che delegittimino il risultato in base al quale Evo Morales ha vinto su Carlos Mesa alla prima votazione”. D’altra parte, nemmeno il documento dell’OEA (il famoso ministero delle colonie degli Stati Uniti) impiega mai le parole “fraude” o “fraudolento” nel riferirsi alle passate elezioni boliviane.

Naturalmente assai poco ci viene detto delle amplissime manifestazioni che si susseguono da giorni in Cile, i cui protagonisti sono stati oggetto di violenze, di stupri, di torture, in alcuni casi hanno perso la vista per l’uso di proiettili di gomma; fatti che ricordano ai cileni che la brutale dittatura, instaurata nel 1973 con l’appoggio degli Stati Uniti dopo la nazionalizzazione del rame, principale risorsa del paese, è tutt’ora viva e vegeta, tanto più che la Costituzione pinochettista è ancora in vigore.

A questo proposito Vargas Llosa dichiara di non capire le proteste dei cileni, che a suo parere non hanno motivo di lamentarsi, giacché il loro paese è l’unico paese latino-americano che è cresciuto enormemente in questi anni, lasciandosi alle sue spalle il sottosviluppo e avvicinandosi al Primo mondo. Convinto di conoscere meglio dei cileni i loro problemi, lo scrittore peruviano ritiene che grazie al ritorno alla “democrazia”, avvenuto con un referendum celebrato 31 anni fa, il popolo cileno si è disfatto della dittatura, mentre sia destra che sinistra concordi hanno intrapreso politiche economiche favorevoli ai grandi investimenti stranieri, i quali hanno dato impulso al suo straordinario sviluppo. Anzi, a suo parere, la “sinistra” ha contributo più di tutti alla difesa della proprietà privata e dell’impresa, fomentando l’integrazione dell’economia cilena ai mercati internazionali; a ciò aggiunge il ritorno alle libere elezioni e alla libertà di espressione che avrebbero dato vita ad uno straordinario sviluppo del paese [4].

Purtroppo la visione idilliaca di Vargas Llosa non ha nessun fondamento realistico, come mostrano sia le gigantesche manifestazioni dei cileni, di ogni età e classe sociale, e come si può ricavare dalle puntuali critiche di Borón, il quale dichiara in un’intervista che il Cile è un paese in cui le famiglie sono tra le più indebitate al mondo e non sono in grado di pagare i loro debiti, lo stipendio di un lavoratore anche regolarmente assunto (ovviamente l’informalità impera) non gli permette di uscire dalla povertà; inoltre, un altro aspetto che ha costituito la scintilla della sollevazioni, come l’aumento del biglietto della metropolitana (il costo del trasporto costituisce il 15% del salario), è stato – secondo il sociologo argentino – la scoperta degli imbrogli fatti dal sistema privatizzato dei fondi pensione (AFP), introdotto nel 1980 sotto la dittatura di Pinochet, che, prelevando ogni mese il 20% dei salari, al momento del pensionamento restituisce solo il 35% di quanto rapinato invece del 100% pattuito, adombrando implausibili scuse.

Quindi, conclude Borón, la povertà, la privatizzazione di tutto persino dell’acqua piovana, il fatto di essere spudoratamente imbrogliati hanno finalmente spinto i cileni a protestare con cognizione di causa, andando alla radice dei loro problemi: ossia pretendendo la formazione di un’Assemblea costituente liberamente eletta che formuli una nuova costituzione e quindi prefiguri una società alternativa al modello neoliberale in rivincita ora in America latina.

Se le cose stanno – come sono pienamente convinta – così come le descrive Borón, dobbiamo chiederci quali sono le misure che il governo cileno sta prendendo contro le giuste pretese dei lavoratori cileni?

Su questo mi pare tutti tacciono e quindi bisogna ricorrere a informatori stranieri. Infatti, si può leggere su Izquierda Diario che il 25 novembre scorso due parlamentari del partito di Sebastián Piñera e tre deputati democristiani hanno presentato un progetto di legge che criminalizza le varie forme di protesta [5]. Entrando nel dettaglio, saranno puniti tutti coloro che paralizzano o interrompono i servizi di prima necessità (trasporti, ospedali, rifornimento di combustibili, comunicazioni etc). I responsabili saranno puniti da 541 giorni a 5 anni di prigione. La lista dei delitti sarebbe lunga, pertanto mi limito a ricordare l’occupazione di immobili pubblici o privati, l’impedimento all’intervento dei pompieri e alla libera circolazione. Inoltre, sarà comminato il massimo grado di pena nel caso in cui i responsabili facciano parte di gruppi organizzati e siano più di due. È chiaro che con questa misura si vuole paralizzare ogni forma di lotta dei lavoratori per ottenere migliorie delle loro condizioni di vita e del funzionamento dei servizi, adottando come scusa gli atti di vandalismo spesso provocati dagli stessi agenti del governo.

Alla Camera dei deputati il progetto ha ricevuto 127 voti a favore, sette contrari e 13 astensioni; la sua approvazione si deve al voto favorevole, oltre che dei partiti di governo, ora gradito solo al 10% della popolazione, anche dei deputati del Frente amplio (sinistra moderata). Nel PCC vi sono state astensioni (anche alcuni del FA si sono astenuti) e due voti contrari. Le astensioni sono state giustificate, affermando che le modifiche al progetto di legge saranno presentate al momento in cui ogni misura sarà dibattuta nel dettaglio.

I più coinvolti nelle manifestazioni hanno deciso di scendere massicciamente ancora in piazza per esprimere con forza il rifiuto di tale legge intimidatoria e che considera un delinquente chi intende difendere solo i propri diritti.

Ritornando alla Bolivia, credo che l’allontanamento di Morales e dei suoi collaboratori abbia creato molti danni, lasciando senza una guida il popolo boliviano sempre combattivo, nonostante la violenta repressione che ha prodotto 32 morti. Il triste epilogo della situazione sta nel fatto che il Congresso ha approvato un disegno di legge, il quale prevede nuove elezioni, alle quali chi ha già ricoperto mandati non può partecipare, quindi escludendo Morales. Nonostante – come si è visto – non ci sia stato nessun broglio, le elezioni del 20 ottobre vengono annullate e viene nominata una nuova Commissione elettorale di 7 membri.

Ci dovrebbe lasciare perplessi che la legge è stata approvata sia dagli oppositori di Morales che dai parlamentari del MAS (Movimento per il socialismo, che hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato). L’accordo era stato stipulato fuori dal parlamento con la mediazione della Chiesa cattolica e altre organizzazioni internazionali (ONU e UE). Nonostante l’accordo tra i due gruppi politici, un gruppo di senatori del MAS ha presentato una proposta di legge per impedire che Morales e i suoi compagni vengano perseguiti, ma tale legge non è stata discussa per il mancato appoggio di altri esponenti del MAS, che si presenta pertanto lacerato da contraddizioni interne.

Concludendo, ci piacerebbe fosse vero quanto afferma Borón, per il quale ormai i latinoamericani non sarebbero più disposti a subire le politiche neoliberali, basate su debiti impagabili con il FMI, ma che generano sempre nuovi appetibili interessi per gli investitori; se fosse così il loro comportamento costituirebbe certo, dal punto di vista di chi ci governa, un cattivo esempio che è meglio demonizzare o mistificare.

Note

[1] Sull’uso ideologico di questa abusata parola v. il libro di Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, 2004.
[2] In realtà, Morales è stato preceduto dal Presidente messicano Benito Juárez, che era un indio zapoteco, ma il governo dei paesi latinoamericani non è stato mai nelle mani di altri membri delle comunità autoctone, come scrive Vargas Llosa.
[3] Si veda l’articolo El mentiroso.
[4] Si veda El enigma chileno.
[5] Già nel 2013 Piñera aveva riesumato una legge antiterrorismo approvata ai tempi di Pinochet, con la quale intendeva combattere il movimento studentesco, che da due anni reclamava l’università pubblica e gratuita, e gli indios mapuche, ostili allo sfruttamento della Patagonia.

15/12/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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