Nonostante Antony Blinken, segretario degli Stati Uniti, abbia dichiarato che non c’è nessun parallelo tra la perdita dell’Afghanistan e l’evacuazione dell’ambasciata statunitense di Saigon [1] e che gli obiettivi sarebbero stati raggiunti, più cauto Joe Biden ha affermato che il loro unico scopo ottenuto era quello di sconfiggere il terrorismo e non esportare la “democrazia” nel paese dominato dai talebani [2]. Cinico e demagogico slogan che ha riempito le nostre orecchie negli ultimi decenni e che ha costituito il motto di guerre feroci tutte conclusasi con la disarticolazione dei paesi oggetto della brama americana (Yugoslavia, Somalia, Irak, Libia etc.). O come asserisce Georgyi Shpak, veterano della guerra sovietico-afghana, “saccheggiare un paese per poi lasciarlo alle deriva”.
Tanto per citare alcuni dati: su circa 39 milioni di abitanti circa il 72% vive in povertà, i suoi abitanti hanno un bassissimo tenore di vita e circa 12 milioni sono malnutriti, metà della popolazione non ha nemmeno un dollaro al giorno per vivere.
Sconvolge osservare che, mentre i talebani conquistano il paese, compresa la famosa base e centro di detenzione di Bagram, la nostra televisione non dice una parola sul fatto che le vicende che si stanno snodando sotto i nostri occhi (gente che fugge, panico, morti, feriti) sono il risultato della genocida politica ventennale degli Stati Uniti e dei loro sudditi, che hanno attribuito a tutto un popolo l’ipotetica responsabilità di alcuni individui nemmeno di origina afghana. Questi ultimi, di matrice fondamentalista islamica con cui gli USA hanno sempre interagito, con la mediazione dell’Arabia Saudita, in funzione antisovietica, sono stati accusati dell’attentato dell’11 settembre 2001 per dichiarare “guerra al terrorismo” e dare inizio al “per nulla glorioso secolo americano”.
L’antecedente di quanto sta avvenendo è stato l’accordo, firmato dopo mesi di negoziati il 29 febbraio 2020 dagli Stati Uniti guidati da Donald Trump e l’Emirato islamico afghano, paradossalmente nel testo riconosciuto; accordo che stabilisce le modalità del ritiro dell’esercito statunitense.
Il trattato, che esclude il precedente governo di Ghani sostenuto dagli Usa, prevede la ritirata di 12.000 soldati a patto che i talebani spezzino le loro relazioni con Al Quaeda o Stato islamico e la liberazione delle migliaia di prigionieri fatti dalle due parti in lotta. Nel momento culminante della guerra vi erano nel poverissimo paese asiatico più di 100.000 soldati statunitensi e delle altre nazioni della Nato, il cui obiettivo era anche quello di addestrare l’esercito afghano. Paesi, dunque, tutti pienamente responsabili di tale sfacelo, che ora lamentano preoccupandosi soprattutto delle donne vessate dai talebani, e che non mostrano nessun cenno di pentimento con l’eccezione della Merkel, la quale ha affermato che è stato errato non prevedere una così rapida avanzata del nemico islamico.
La guerra in Afganistan ha costituito il conflitto militare più lungo che ha colpito quel paese e che è costato due trilioni di dollari, provocando la morte di 3.500 soldati statunitensi e di decine di migliaia di afghani più i feriti. Inoltre, essa ha approfondito le contraddizioni interne a un paese nel quale vivono 20 etnie differenti, dissanguandolo in una guerra priva di fondamento.
Trump firmò l’accordo in vista delle successive elezioni presidenziali poi da lui perse e per presentarsi come colui che risolve i grandi conflitti internazionali, non preoccupandosi di una pace stabile.
Conquistato il potere e presa rapidamente Kabul, i talebani hanno dato la loro prima conferenza stampa, affermando – nelle parole del loro portavoce Zabihullah Mujahid – che il loro intento è quello di intessere relazioni pacifiche con i paesi della regione e con quelli lontani, anche allo scopo di incentivare lo sviluppo del loro paese. Si sono impegnati a non intraprendere altre guerre, a non colpire nessuno, dato che vogliono istituire un governo forte e inclusivo (Emirato islamico dell’Afghanistan) che stabilirà rapporti diplomatici con gli altri paesi. Cina, Russia, che già in luglio avevano incontrato i talebani, e Iran hanno colto al volo queste parole e si sono dichiarate pronte a sviluppare una politica amichevole verso il nuovo governo. Il portavoce ha anche ribadito che le donne continueranno a godere dei loro diritti nella vita sociale – sia pure nel rispetto della legge islamica [3] – e che il burka non sarà obbligatorio, ma il velo sì. Ha anche dichiarato che tutti coloro che hanno collaborato a vario titolo con le potenze occupanti non saranno perseguiti e che tutti quelli che si sono presentati alle porte delle case dei cittadini per fare interrogatori o per rubare saranno puniti, invitando tutti gli afghani a tornare a lavorare, normalizzando così la vita del paese.
Altro punto importante espresso durante la conferenza è quello relativo alla questione della produzione di oppio e di eroina. Da ora in poi – ha dichiarato il portavoce – l’Afghanistan non produrrà più queste droghe, sollecitando la comunità internazionale a dare appoggio al paese per sostituire le coltivazioni tradizionali.
A questo punto bisogna tenere presenti: il suo patrimonio di risorse e la collocazione strategica del paese centro-asiatico insinuato tra importanti vicini.
L’Afganistan si trova in una posizione strategica dell'Asia Centrale, in virtù della quale sarebbe in grado di controllare il flusso delle risorse naturali della regione ricca di petrolio, gas e minerali. Per questa ragione, nel corso della storia, vari imperi hanno cercato di impadronirsene. Inoltre, secondo il New York Times nel suo territorio sono state scoperte ingenti quantità di oro, ferro, rame, litio, cobalto e metalli preziosi.
Quanto al secondo aspetto, già il 16 luglio, facendo leva sulla Shangai Cooperation Organizazion, che riunisce Cina, Russia e gran parte delle repubbliche dell’Asia centrale, Pechino ha rinnovato il suo appoggio agli Stati circonvicini, ribadendo lo scopo amichevole e collaborativo dell’organismo per lottare contro il terrorismo, le pandemie, favorire lo sviluppo economico, tenendo presente anche il processo di riconciliazione degli afgani. L’aspetto fondamentale per i cinesi è che questi paesi dell’Asia centrale prendano esempio dall’Asean, che ha garantito dal 1967 la cooperazione tra i paesi del Sudest asiatico, controbilanciando le pressioni provenienti dalle potenze esterne e difendendo la loro autonomia.
La domanda legittima sembra essere questa: perché gli Stati Uniti hanno abbandonato questo paese potenzialmente promettente, nonostante decenni di distruzione? Su questa decisione hanno influito i gravissimi problemi interni scatenati dalla pandemia, dagli enormi investimenti lanciati, l’instabilità del paese (con un governo considerato ampiamente illegittimo e impopolare), il riposizionamento nell’Asia meridionale per contrastare l’espansione della Cina, la necessità di vendere armi alle Filippine, giacché il dal 2016 il presidente Rodrigo Duterte ha iniziato una politica conciliante con la Cina. Non meno importante è stato il suo declino nello scenario internazionale grazie anche alla loro crescente perdita di credibilità anche di fronte ai loro alleati storici.
Concludendo, secondo la mia opinione si avvantaggeranno della débacle statunitense le potenze regionali, che hanno un forte interesse alla normalizzazione e stabilizzazione dell’Afghanistan, in particolare la Cina che progetta di inserire il paese nei futuri investimenti legati alla famosa Via della seta con la quale agevolerà gli scambi tra i paesi dell’Eurasia.
Note:
[1] Tra il 29 e il 30 aprile 1975 furono evacuate con elicotteri circa 7000 persone, delle quali 5000 erano americane e le restanti dei collaboratori, che pertanto furono trasferiti solo in parte. In questi giorni all’aeroporto di Kabul tra i fuggitivi ci sarebbero state decine di morti. Impressionante è l’immagine dei circa 640 afgani in fuga su un Boeing.
[2] Il gruppo dei talebani (studenti) ebbe vita dopo la ritirata nel 1989 dell’esercito sovietico e la cacciata del precedente governo laico. Costituiscono una fazione ultra-ortodossa capeggiata agli inizi dall’esponente religioso Mullah Omar e riunirono i giovani di etnia pashtun che studiavano nelle scuole islamiche finanziate dall’Arabia saudita.
[3] Vedremo l’interpretazione che ne daranno.