Hong Kong è considerata la mecca del capitalismo deregolato, dove la contrattazione collettiva per motivi politici è da sempre considerata illegale. Il sedicente movimento democratico, che sarebbe stremato da un anno di “guerriglia”, ha trovato per la prima volta il supporto di alcuni sindacati minori corporativi. A far notizia in Occidente (e persino nell’unico giornale italiano che si autodefinisce comunista [1]) non è il fatto che un movimento “democratico” sia reduce da un anno di “guerriglia”, né che tale sedicente movimento democratico si batta per la salvaguardia dell’indipendenza della mecca del capitalismo sregolato – in cui la stessa contrattazione collettiva è stata sempre bandita – ma che settori minoritari del mondo del lavoro sostengano la protesta.
Dunque, in primo luogo tale protesta, portata avanti da oltre un anno con metodi di guerriglia, non potrebbe essere definita democratica. In secondo luogo, essendo a sostegno del neoliberismo più estremo non può che essere antitetico a un qualsiasi movimento democratico. Democrazia significa, infatti, dominio politico della maggioranza dei subalterni, sugli oligarchi, cosa che ovviamente a Hong Kong non vi è mai stata. Al contrario a Hong Kong, coerentemente con la linea neoliberista radicale, ha sempre dominato una oligarchia. Quindi è quanto mai assurdo e auto-contraddittorio definire democratico un movimento che si batte per salvaguardare uno dei sistemi più radicalmente e sfacciatamente oligarchico del mondo. Come ha giustamente osservato Pino Arlacchi su “Il Fatto quotidiano” “una parte degli abitanti di Hong Kong, perciò, coltiva il sogno di un ritorno al passato che preservi uno status di hub finanziario” [2].
Un passato idealizzato dal presunto movimento democratico di Hong Kong, che ha inizio con l’occupazione della città da parte dell’imperialismo britannico, durante la Guerra dell’oppio, scatenata perché i cinesi si rifiutavano di accettare la libera compravendita nel loro territorio della droga, da parte del Regno Unito, che la faceva coltivare dai poveri contadini indiani, sottoposti al giogo coloniale inglese. Senza dimenticare che la Gran Bretagna, dopo oltre un secolo di dominio coloniale, ha introdotto a Hong Kong la democrazia solo quando nel 1997, scaduto il trattato ineguale imposto alla Cina, la città doveva tornare a far parte della madre patria. Quindi, i sedicenti democratici di Hong Kong rivendicano una democrazia, che è stata introdotta nel loro paese, dopo oltre un secolo di dominio coloniale, solo nel momento in cui il grande Hub finanziario doveva tornare a far parte della madre-patria.
Come ha osservato giustamente a questo proposito Alberto Bradanini: “a Hong Kong, durante i 156 anni di dominio, gli inglesi mai si sono sognati di introdurre la democrazia. Il Governatore veniva nominato da Londra, il Consiglio Legislativo era un mero organo consultivo e la partecipazione della popolazione era minima. Di colpo, nel 1997, portare la democrazia ad Hong Kong diviene per Londra fondamentale!” [3]. Per altro il movimento “democratico” reazionario – in quanto tende a idealizzare il passato coloniale di Hong Kong – si fonda su un falso mito, secondo il quale la fortuna del paese dipenderebbe dall’aver adottato, grazie al dominio coloniale, un modello economico superiore. Al contrario, l’economia del Paese era rimasta per oltre cento anni stagnante. Il suo improvviso miracolo economico è dovuto all’apertura, dopo la sconfitta dell’ala sinistra del partito, della Repubblica popolare cinese, nel 1978, al mercato mondiale (capitalista). Ciò ha fatto la fortuna di Hong Kong, improvvisamente divenuta “la porta d‘ingresso del business occidentale in Cina. Una rendita di posizione che dura fino al 2001, quando la Cina entra nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e HK perde lentamente questo privilegio perché le imprese straniere possono ora recarsi direttamente in Cina.
La fortuna di Hong Kong non è dunque dovuta alla Gran Bretagna, ma esclusivamente alla Cina. L’economia della città è tuttora di stampo oligopolistico, tipicamente coloniale, basata sulla ricchezza fondiaria, la proprietà della terra, una struttura che nemmeno il ritorno alla Cina ha modificato” [4]. Tanto più che nei progetti della destra del Partito comunista cinese, al potere dopo la morte di Mao, la cittadina cinese di Shenzhen, la più vicina della Cina a Hong Kong, avrebbe dovuto avere quest'ultima come benchmark. La dirigenza della destra del Pc cinese rimarrebbe sbalordita dai “cambiamenti occorsi a quell’oscuro villaggio. Shenzhen è diventato il centro tecnologico più importante della Cina, seconda nel mondo solo alla Silicon Valley per capacità d’innovazione, mentre Hong Kong ha mantenuto lo stesso modello di allora, generando sempre e solo ricchezza fondiaria” [5]. Un modello sociale a difesa del quale sarebbe sorto il movimento “democratico” di Hong Kong, non a casoesaltato dalle potenze imperialiste di tutto il mondo.
Dunque, di quale democrazia si tratta? Naturalmente trattasi della democrazia per il popolo dei signori, ossia per i collaborazionisti e il loro discendenti che si sono arricchiti grazie a questo spaventoso paradiso fiscale e che non intendono rinunciare ai loro enormi privilegi ottenuti con le più sporche speculazioni finanziarie. A tale proposito, già Karl Marx notava: “frattanto il governo cinese [che cercava di difendere il paese dall’aggressione delle potenze imperialiste] nello stesso tempo che inviava minacciose note di protesta ai mercanti stranieri, puniva i mercanti indigeni di Hong Kong che notoriamente tenevano loro bordone” [6]. È, quindi, una vecchia storia quella dei “mercanti indigeni” di Hong Kong, collaborazionisti con gli invasori imperialisti, che difendono con le unghie e con i denti il loro paradiso fiscale e la loro mecca del neoliberismo. Le loro violente proteste sono essenzialmente legate al terrore di perdere i loro sempre più irrazionali e ingiusti privilegi quando nel 2047 Hong Kong verrà finalmente equiparata alle altre province cinesi, ponendo così fine alla democrazia per il popolo dei signori, dei grandi borghesi che ha dominato Hong Kong per quasi due secoli. Al contrario, dal punto di vista della Repubblica popolare cinese Hong Kong rappresenta la memoria plastica di un’epoca da cancellare, quella coloniale, figlia del secolo dell’umiliazione del paese da parte delle grandi potenze imperialiste.
Peraltro, ovviamente, questo paradiso per gli speculatori e i lupi di borsa di tutto il mondo, significa letteralmente un inferno per la grande maggioranza dei proletari sfruttati, dal momento che Hong Kong è uno dei luoghi del mondo con la maggiore polarizzazione della ricchezza, a causa della quale i milioni di lavoratori che producono sono costretti a sopravvivere con salari da fame. Non a caso mentre i primi, durante gli oltre centocinquanta anni di dominio coloniale inglese hanno guardato come modello alle potenze imperialiste, il proletariato di Hong Kong durante il secolo e mezzo di dominio coloniale ha guardato, al contrario, alla Repubblica popolare cinese. Quindi, alla base del movimento “democratico” vi è l’attitudine a pretendere che Hong Kong resti un soggetto esterno al resto della Cina, da cui dovrebbe rimanere separata come se fosse ancora una colonia.
Inoltre, è assurdo definire democratico un movimento che fino a ora non ha mai trovato alcun punto di incontro con le organizzazione che difendono gli interessi dei lavoratori. Essendo questi ultimi, in un paese oligarchico, il settore decisamente più ampio dei subalterni, non si riesce a capire come possa essere esistito sino a ora un movimento “democratico” estraneo, per non dire contrario e contrapposto agli interessi del proletariato.
Per altro questi nuovi sindacati che si starebbero avvicinando al sedicente “movimento democratico” fanno parte di un fenomeno certamente opposto agli interessi dei lavoratori, ovvero il sorgere di una miriade di micro organizzazioni sindacali necessariamente ultra-corporative. Tanto che se nel 2019 il numero dei sindacati è raddoppiato rispetto agli anni precedenti, a marzo di quest’anno sono stati approvati oltre 100 sindacati, dei 1700 che hanno fatto richiesta lo scorso giugno. Naturalmente questo proliferare di siglette sindacali ultra corporative non può che indebolire il grande sindacato confederale, la Federation of Trade Unions da sempre alleata, naturalmente, con la Repubblica popolare cinese e in lotta con l’oligarchia di Hong Kong, a tutela degli assurdi privilegi della quale sarebbe sorto questo pseudo movimento sedicente democratico, che guarda caso trova il pieno appoggio da parte di tutte le forze internazionali filo-imperialiste e, nemmeno a dirlo, in primo luogo dall’ultra reazionaria amministrazione che fa capo a Trump, noto paladino della democrazia a livello nazionale e internazionale. Del resto da sempre il movimento dei lavoratori di Hong Kong è stato composto da lavoratori cinesi ultra sfruttati dai colonialisti inglesi e dai collaborazionisti locali. Perciò, tradizionalmente, il movimento sindacale è sempre stato sostenuto dalla Repubblica popolare cinese e pesantemente contrastato dagli apparati repressivi di Hong Kong.
Non per niente, questo sedicente movimento democratico, che da un anno porta avanti una guerriglia per mantenere i propri privilegi rispetto al resto della paese, è sorto per difendere dall’estradizione in Cina i grandi speculatori colpevoli delle operazioni finanziarie più sporche e che, da sempre, hanno trovato rifugio in questo mega paradiso fiscale, per sottrarsi così alla necessità di dover rendere conto dinanzi a un tribunale popolare delle proprie malefatte. Anzi, più nello specifico, le lotte del sedicente movimento democratico hanno avuto origine dalla difesa di un cittadino di Hong Kong ricercato per uno stupro commesso a Taiwan, che rischiava con la nuova legge di essere estradato in Cina. Come ha osservato a questo proposito ancora Arlacchi, in tal modo Hong Kong è divenuta: “un ricettacolo della delinquenza cinese e internazionale di ogni risma: dagli assassini di alto bordo ai contrabbandieri, dai politici corrotti ai mega-truffatori finanziari che risiedono sul posto imboscando il loro malloppo (Hong Kong è ancora uno dei massimi paradisi fiscali)” [7].
Davvero bizzarro considerare democratico un movimento nato per difendere il diritto dei grandi criminali speculatori, di trovare rifugio sottraendosi alla giustizia in questa mecca del neoliberismo più sfrenato. A tal proposito, ha osservato a ragione “Asia blog”: “alcuni banchieri di Hong Kong hanno riferito che molti clienti stanno spostando i loro conti a Singapore nel timore che tra gli obiettivi di Pechino ci siano proprio i funzionari e miliardari cinesi trasferitisi nella regione autonoma per evitare procedimenti giudiziari in patria. (…) Una prospettiva poco attraente per la potente e numerosa comunità degli affari di Hong Kong, considerato anche che per i ‘reati economici’ come la corruzione l’ordinamento della Repubblica Popolare Cinese prevede la pena di morte, nei casi più gravi” [8]. Evidentemente queste lotte condotte dagli oligarchi e dai loro collaborazionisti piccolo borghesi per mantenere i loro privilegi, non possono che spaventare la Repubblica popolare cinese, dove con la “Nep” portata avanti negli ultimi decenni la borghesia ha ripreso sempre più forza dal punto di vista economico e potrebbe un giorno tentare nuovamente di strappare anche il controllo politico al Partito comunista cinese. Non a caso, le ultime proteste a Hong Kong sono sorte per rivendicare, nonostante i divieti imposti dalla pandemia, la possibilità di festeggiare come ogni anno, insieme ai dirigenti che proprio a Hong Kong hanno trovato rifugio, la tentata contro-rivoluzione durante la prolungata occupazione della piazza più grande e importante del paese.
Note:
[1] Cfr. da ultimo l’articolo “Hong Kong, grana per la Cina: i sindacati appoggiano gli studenti” di Alessandra Colarizi, uscito ne “Il manifesto” del 18.06.2020.
[2] https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15639-pino-arlacchi-hong-kong-la-storia-che-non-leggerete-2.html
[3] Alberto Bradanini, Hong Kong deve prendere congedo dal suo passato, in “Il manifesto” del 02.10.2019.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] “Libero scambio uguale monopolio” articolo di Marx del 3 settembre 1858 pubblicato sulla “New York Daily Tribune”, ora nella raccolta, India-Cina-Russia, Ed. Il Saggiatore.
[7] https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15639-pino-arlacchi-hong-kong-la-storia-che-non-leggerete-2.html
[8] https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15644-nucleo-comunista-internazionalista-hong-kong-contro-la-democrazia-contro-la-liberta-del-businnes-e-dei-businnesmen-di-ogni-razza-e-colore.html