Prima della buona notizia del 4 gennaio, nonostante tutto qualcuno aveva ricordato che quel giorno ci sarebbe stata una sessione del tribunale britannico che avrebbe dovuto decidere della sorte di Julian
Assange, debilitato nello spirito e nel corpo, e che probabilmente non avrebbe potuto nemmeno partecipare all’udienza, dalla quale del resto erano esclusi anche giornalisti e osservatori. Addirittura, nei giorni passati il governo tedesco aveva invitato il Regno Unito a rispettare gli obblighi umanitari nel processo, il cui obiettivo era costituito dall’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti dove lo aspettavano 175 anni di carcere per aver rivelato cosa si cela dietro il potere e la cosiddetta esportazione della democrazia. Infatti, il commissario tedesco per i diritti umani Barbel Kofler aveva dichiarato che le modalità del processo destavano molte preoccupazioni e che gli aspetti umanitari della questione non dovevano essere trascurati, riferendosi in particolare allo stato fisico e mentale del giornalista australiano, sulla cui salute continuerà a tenersi informato.
Abbiamo appreso con somma gioia che il tribunale londinese ha respinto la richiesta dell’estradizione di Assange da parte degli Stati Uniti con la motivazione che la sua reclusione nelle prigioni di quel paese, molte delle quali gestite da privati, potrebbe spingerlo al suicidio. I suoi difensori hanno dichiarato che chiederanno la libertà su cauzione del loro assistito, mentre l’amministrazione statunitense presenterà sicuramente un ricorso contro la sentenza. Da notare che le motivazioni della sentenza, e per questo difficilmente questionabili, sono esclusivamente mediche e che non si fa riferimento alla questione della libertà di espressione.
In altre occasioni abbiamo ricordato che in realtà il democratico occidente tiene nelle sue carceri prigionieri politici e che spesso questi ultimi passano attraverso i centri di detenzione clandestini della Cia, fondata nel 1947, quando la grande alleanza antifascista e antinazista si era sfasciata e si avviava la politica della “guerra fredda”, invero preparata fin dal 1943. Tra questi prigionieri politici debbono essere annoverati anche coloro che furono arrestati dopo il celebre e discusso attentato al World Trade Center di New York.
Dopo anni di silenzio colpevole qualcuno si è ricordato di loro, o almeno di quelli ancora viventi e presenti a Guantánamo, base navale statunitense ceduta in affitto perenne nel 1903 agli Stati Uniti e di cui giustamente il governo cubano pretende la restituzione; sembra che complessivamente i prigionieri, sauditi, afgani, yemeniti e pakistani, lì detenuti sono stati in passato circa 800, tra i quali spicca Khalid Sheikh Mohammed, ritenuto responsabile dell’attentato dell’11 settembre e altri seguaci di Al Quaeda.
Sempre in attesa di giudizio e di conoscere la loro sorte, questi sono ormai invecchiati, malati e si trovavo a vivere in una struttura ormai fatiscente di 120 mq nell’ insopportabile calore del Tropico. Nel corso degli anni 700 sono stati rilasciati e rimandati in 59 paesi differenti, 500 all’epoca di Bush, 197 in quella di Obama e uno mentre Trump era presidente; a questo dobbiamo aggiungere i 9 che sono morti. Le commissioni militari, allestite per i processi, hanno finora formulato solo 8 sentenze e due dei condannati stanno scontando la pena a Guantánamo. Altri 7 processi sono in corso e non si conosce quando saranno emanate le sentenze. Si tenga anche presente che 26 di loro sono imprigionati a tempo indeterminato e per loro non si prevede un processo, mentre 32 sarebbero stati detenuti illegalmente secondo i tribunali federali.
Recentemente il “The New Yorker Times” ha dedicato un servizio all’argomento ricordando che in tutto i detenuti rimasti sono 40, 14 dei quali, dopo essere stati reclusi nei centri clandestini di detenzione della Cia, sono attualmente rinchiusi nel complesso penitenziario di massima sicurezza definito Campamiento Siete all’interno della base navale. Il giornale statunitense ha rivelato, per esempio, che le piogge torrenziali dell’estate e dell’autunno passato hanno invaso le celle, facendo fuoriuscire le acque nere dei gabinetti divenute bollenti per il calore tropicale, la luce ogni tanto saltava e i muri sono ormai pieni di crepe.
Questi 40 prigionieri sono tutti musulmani di sesso maschile, con la salute malandata per gli anni di detenzione, per i maltrattamenti e per le torture che hanno subito. Alcuni sono trattenuti nonostante sia stato deciso per loro il trasferimento.
All’epoca dell’apertura del carcere il segretario della Difesa Donald Rumsfeld ha affermato che i prigionieri dovevano essere considerati “combattenti nemici”, e non “prigionieri di guerra”, e pertanto a loro non dovevano essere attribuiti alcuni diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1949. Proprio per questo, in quanto “sospetti” di terrorismo, sono stati privati delle condizioni umane di internamento, del diritto a un giusto processo e sono stati sottoposti a continue torture e vessazioni per far loro rivelare i misteriosi piani delle organizzazioni terroristiche, che – come sappiamo anche grazie a Wikileaks – hanno uno stretto legame con l’Arabia Saudita e quindi con gli Stati Uniti. Infatti, è noto che la prima è una stretta alleata dei secondi che la riforniscono di armi.
Nel 2002 ha preso le loro difese Mary Robison, ex presidente della Repubblica di Irlanda e allora Alto Commissario per i diritti dell’Uomo alle Nazioni Unite, criticando le condizioni in cui i prigionieri erano costretti a vivere. Nel 2006 un detenuto ha presentato un appello alla Corte suprema statunitense, la quale ha stabilito con una sentenza che nel carcere si violava ogni giorno la Convenzione di Ginevra. Per tutta risposta una legge ha negato ai prigionieri di Guantánamo il diritto di presentare appelli e istanze alle corti federali che abbiano per oggetto il loro trattamento e il loro status di “combattenti nemici”.
Fino ad oggi il nuovo presidente Joe Biden non si è espresso sul futuro dei prigionieri e su quello dell’installazione di Guantánamo, che costa al contribuente statunitense 13 milioni di dollari all’anno per ogni prigioniero, dato che nella base sono presenti 1.500 soldati. Non ha ripreso l’ipotesi formulata da Barak Obama nel 2009 di chiudere la prigione e di trasferire i detenuti nelle carceri nazionali. Per fare questo ci vorrebbe il voto favorevole del Congresso e il consenso della Cia, la quale tiene nel luogo una forza speciale Task Force Platinum, cui è affidato il compito dell’assidua sorveglianza.
Obama firmò l’ordine di chiusura della prigione (ovviamente non della base), ma il Senato respinse a larga maggioranza questa ipotesi; nel 2018 Donald Trump dichiarò che non avrebbe portato avanti il progetto del suo predecessore.
Non ci stupirebbe sapere che la Cia e il Pentagono auspichino che questo pugno stremato di prigionieri passi a miglior vita nella base degli orrori, in modo da non potere rivelare al mondo come sono stati torturati e da chi, dove si trovano le carceri clandestine, magari rendendo note le prove della loro possibile innocenza.
Per migliorare le condizioni dei prigionieri e per risparmiare sui costi del mantenimento della prigione, i responsabili della base stanno pensando di chiudere il famigerato Campamiento Siete, di trasferire i prigionieri di questa entità, conservando però le loro condizioni di isolamento dagli altri 26 detenuti ritenuti colpevoli di delitti minori. Questa concentrazione consentirebbe la riduzione del numero dei soldati lì stanziati con la conseguente riduzione dei costi.
Tuttavia, anche questa misura minimale richiederebbe il consenso della Cia, la quale ha potuto controllare tutte le informazioni sui detenuti, sul loro passato e sulle loro possibili attività.
Amnesty International è intervenuta sulla spinosa questione e ha anche organizzato in passato una manifestazione in difesa dei dimenticati prigionieri di Guantánamo, sostenendo che quella prigione costituisce una vergogna che si è perpetuata per 18 anni sotto 3 presidenti statunitensi. Si tratta di persone – prosegue l’organizzazione internazionale – che spesso non sono mai state processate, che stanno invecchiando in stato di reclusione con la prospettiva di morire lontano dalle loro famiglie e dalla loro patria, benché ci siano paesi che sarebbero disposti ad accoglierli.
Anche e non solo nell’ipotesi che si affermi un’altra versione dell’attentato del 2001, potremmo chiederci quante sofferenze sono state inutilmente e brutalmente inflitte con lo scopo di convincerci che l’obiettivo della lotta non era più il “male comunista” ma il terrorismo islamico?