Il sostegno degli epigoni del movimento “Occupy Wall Street” e della componente movimentista dell’elettorato democratico, non è bastato a Bernie Sanders per compiere il miracolo alle primarie presidenziali di New York. La vittoria di Hillary Clinton ha dimostrato che in una campagna del genere il ruolo dell’establishment e delle lobby che tradizionalmente sostengono il partito democratico hanno un peso decisivo. La campagna rimane ancora aperta ma più che il suo esito sarà invece interessante verificare la reale solidità e il potenziale di antagonismo di cui sarà capace, nel lungo periodo, il movimento creatosi attorno alla candidatura di Sanders.
di Zosimo
La battaglia di New York è il titolo di un giornale che nei giorni scorsi è stato diffuso nelle strade e nella metropolitana di New York da attivisti del movimento “Occupy Wall Street” e da sostenitori di Bernie Sanders. La definizione è quanto mai appropriata, perché la campagna elettorale che nei giorni scorsi ha infuocato la “Grande Mela” per le primarie del 19 aprile, ha avuto tutti i requisiti di un’autentica battaglia, e questo principalmente in campo democratico, o quanto meno è l’oggetto di approfondimento di questo articolo, quindi lasceremo in secondo piano l’analoga battaglia che sta avvenendo in campo repubblicano, che comunque ha i suoi riflessi e le sue influenze.
Partiamo quindi dal fatto che, nonostante sia uscito perdente, confermando le previsioni, dalla battaglia di New York, il fenomeno “Bernie” è in ascesa, e, nonostante Hillary Clinton veda aumentare il vantaggio accumulato nella prima fase delle primarie, è evidente che sente e continuerà a sentire il fiato sul collo del suo avversario nelle prossime settimane, anche alla luce del fatto che Sanders ha vinto, e spesso contro ogni pronostico, ben sette delle ultime nove votazioni nei vari Stati.
Da decenni New York non assumeva un ruolo così centrale per una campagna delle primarie in campo democratico. La città è sempre stata, tradizionalmente, un feudo democratico, anzi, per meglio dire, dell’establishment democratico, rispetto al quale Bernie Sanders rappresenta comunque un “outsider”. Con i suoi 247 delegati, New York diventava in questa fase quasi ago della bilancia sull’esito finale della campagna. Hillary ha pertanto accresciuto il suo vantaggio su Bernie portandosi a 1.900 delegati contro 1.185. Per vincere la “nomination” servono almeno 2.383 delegati, ma mancano ancora all’appello Stati importanti quali California, Pennsylvania, New Jersey, Indiana e Kentucky.
La campagna delle primarie è quindi ancora aperta ed è prevedibile che il fenomeno “Bernie”, nonostante esca perdente nella battaglia, forse decisiva, in questo feudo democratico, si mantenga vivo nei prossimi mesi, e così la mobilitazione in suo favore. Anzi potrebbe ulteriormente crescere man mano che ci si avvicinerà alla fase finale, quella che poi condurrà alla Convention estiva dove sarà consacrato il cosiddetto “ticket” dei due candidati (Presidente e Vice).
Una mobilitazione, quella per Bernie, che abbraccia tante componenti, che spesso si collocano al di fuori della consueta cerchia di sostegno tradizionale controllata saldamente, soprattutto a New York, dall’establishment democratico, cui appartiene anche la maggioranza dei sindacati che, come noto, negli USA hanno un’articolazione di tipo corporativo, ancora più marcata rispetto allo stesso modello delle trade-unions d’impronta britannica.
Il movimento “Occupy Wall Street” è stato di grande importanza nella storia delle mobilitazioni politiche e sociali di New York negli ultimi anni. Anche se appare ormai aver intrapreso una parabola discendente, in analogia ad un percorso che ha caratterizzato tanti di questi movimenti negli ultimi decenni, a partire dal Forum Sociale Mondiale sorto con le manifestazioni al G8 di Seattle nel 1998 e sviluppatosi poi nei primi anni del 2000 a Porto Alegre in Brasile, per finire con gli “indignados” in Spagna e con le mobilitazioni sociali guidate che hanno portato poi al successo elettorale di Syriza in Grecia.
Proprio per queste ragioni il fenomeno Bernie, che prende origine in un contesto diverso, sembra oggi risvegliare i germi di quel movimento, che quindi aveva covato la brace sotto le ceneri. I temi sollevati da Sanders sono sicuramente di rottura e aprono uno squarcio in un dibattito politico che ormai è addormentato da decenni all’interno del mainstream mediatico, dominato dalle grandi “major” della televisione e dell’editoria, dominio fin qui poco o per nulla intaccato dalla presunta “democratizzazione” di internet e dei social network. La cosa più interessante è che una componente decisiva del popolo di Bernie, soprattutto tra i suoi attivisti, è data dai cosiddetti “millenials” ossia la generazione dei più giovani, nati a ridosso degli ultimi decenni del secondo millennio, e che sono sempre stati identificati tra i più distanti dal coinvolgimento in politica.
Siamo quindi di fronte ad un cambiamento importante, anche se il sospetto che si possa trattare dell’ennesimo “fuoco di paglia” non svanisce del tutto. Purtroppo anche qui negli USA, così come in Europa o in altre aree, queste mobilitazioni difettano di solide fondamenta ideologiche, anzi l’ideologia è vista come un attributo negativo da tenere a distanza. E come potrebbe essere diversamente, nel cuore della potenza imperialista ancora egemone?
Tuttavia, volendo tracciare una differenza dalla campagna del primo “Obama” che venne anche allora salutata da molti commentatori di sinistra come un passaggio storico rivoluzionario, e che poi, alla prova della storia, così non è stato, questa volta il messaggio di Bernie appare più radicale e antagonista, e sicuramente mette sotto accusa in maniera più diretta ed esplicita il sistema capitalista americano. Il problema, ad avviso dello scrivente, è che l’attacco al sistema è volutamente circostanziato, e, nonostante abbia il merito del richiamo, sebbene vago e generico, al “socialismo”, non va fino in fondo nell’evidenziare il fallimento storico del capitalismo come sistema economico e sociale, e la necessità di un suo definitivo superamento rivoluzionario.
Anche Bernie, e tutto sommato non si può fargliene un addebito, si ferma un attimo prima, enfatizza e prende di mira la componente di degenerazione finanziaria del sistema, che sta velocizzando tutte le contraddizioni, dalla crescente disuguaglianza sociale all’impatto sull’ambiente che mette ormai a rischio la stessa sopravvivenza del genere umano. Siamo quindi in un orizzonte che potremmo definire “neo-socialdemocratico”, in cui la novità rilevante, anche rispetto al vecchio continente (ad eccezione della Gran Bretagna che ha visto emergere il fattore Corbyn) appare proprio la presa di coscienza che l’accettazione della centralità del mercato e dell’impresa ha, di fatto, spazzato via ogni differenziazione sostanziale tra la prospettiva socialdemocratica tradizionale e le posizioni liberaldemocratiche o conservatrici. Lasciamo qui da parte ogni considerazione sul fermento che avviene a destra, con movimenti nazionalistici e reazionari in grande spolvero, anche qui negli USA grazie al fenomeno Trump.
Il recente blitz di Bernie domenica scorsa a Roma per incontrare Papa Francesco è un ulteriore chiaro segnale che qui non siamo di fronte alla prima miccia di un movimento autenticamente rivoluzionario e anticapitalista. E’ opportuno sgombrare il campo da ogni equivoco di questo genere nell’analizzare il fenomeno “Bernie”.
Eppure, nonostante tutti i limiti evidenziati, gli ultimi sviluppi politici a sinistra, che nascono curiosamente sul fronte anglosassone (Corbyn e Sanders appunto) meritano di essere osservati con attenzione ma anche con spirito critico. Essi perseguono, in forme nuove, quella che, applicando, attualizzandole, le categorie di analisi marxista, rimane una grande illusione storica, l’illusione tutta socialdemocratica di riformare il sistema capitalista in senso socialmente sostenibile. La stessa battaglia tra Bernie e Hillary, sembra comunque avvenire all’interno di confini delimitati ed alcuni osservatori intravedono comunque la volontà di mantenere unito il partito democratico, nonostante gli “strappi” a sinistra di Sanders.
Tuttavia questi fenomeni politici possono rappresentare un interessante fermento per una nuova mobilitazione e sensibilizzazione delle classi lavoratrici, che in questa fase appare saldata a quella delle classi medie, che sentono l’attacco alle conquiste consolidate, anche nei paesi economicamente più forti.
In una fase che, oggettivamente, non è rivoluzionaria, questi fermenti non possono essere trascurati o snobbati, e d’altronde anche il CPUSA (Partito Comunista degli USA) segue con una certa simpatia la campagna di Sanders.
Da notare poi che, proprio negli stessi giorni della battaglia di New York, a Washington, nella capitale federale, hanno mosso i primi passi, con due giorni di cortei e sit-in, due importanti campagne di mobilitazione per la difesa dei diritti politici, Democracy Spring e Democracy Awakening, due coalizioni che raggruppano circa 400 tra movimenti per i diritti civili, tra i quali spicca il NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), organizzazione di diritti civili per le popolazioni di colore, e il sindacato AFL-CIO (American Federation of Labor Congress of Industrial Organizations) che stanno lottando contro alcuni provvedimenti legislativi che pongono restrizioni all’esercizio del voto e che, al contrario, liberalizzano ulteriormente i tetti posti ai finanziamenti privati ai partiti politici, facendo crescere ulteriormente, se ce ne fosse bisogno, il peso delle grandi lobby economiche. Ma analizzeremo meglio prossimamente questi fermenti movimentistici su queste pagine.
Intanto, nei prossimi mesi potremo verificare la solidità ed il respiro politico del movimento che si è formato attorno alla candidatura di Bernie Sanders, nonostante anzi soprattutto dopo lo stop newyorkese. L’auspicio maggiore, se vogliamo prendere come sincero e autentico il messaggio di fondo della campagna di Sanders, quando ricorda che un uomo da solo non può cambiare il sistema ed è necessaria la mobilitazione e la partecipazione di molti, è che l’esito finale di questa non sia la sua nomina a candidato presidenziale democratico, che tutto sommato interessa relativamente, ma la trasformazione, in un’ottica di lungo periodo, del suo movimento da elettorale a politico ponendosi definitivamente sui binari dell’antagonismo al capitale e cercando di offrire una sponda politica reale alle classi lavoratrici che nel panorama politico degli Stati Uniti è assente da decenni. Questo esito oggi rimane però soltanto un auspicio.
Nel frattempo dobbiamo subirci i toni trionfalistici di tutti i media mainstream che non perdono occasione di magnificare la vittoria di Hillary nella ormai mitica battaglia di New York. Questa foga mediatica nasconde forse la paura e la voglia, da parte della classe dirigente, di esorcizzare un qualcosa di nuovo sotto il sole che, sebbene ancora percepito come una lieve ombra, rischia di mettere seriamente in bilico le certezze sulle quali, da lunghi decenni in questo Paese, si fonda il dominio assoluto del capitalismo, nella sua forma peggiore, sull’essere umano.
Riferimenti:
- The Battle of New York, edizione speciale congiunta di mercoledì 13 aprile 2016 pubblicata da “The Indypendent” e “The Occupied Wall Street Journal”, v. https://indypendent.org/2016/04/16/indypendent-and-ows-journal-release-special-edition-one-week-ny-primary
- Larry Rubin, Mass movement for democracy is being born, su People’s World, 18 aprile 2016, v. http://peoplesworld.org/mass-movement-for-democracy-is-being-born/
- Larry Rubin, Clinton, Sanders campaigns clash; commitment doesn't, su People’s World, 8 aprile 2016, v. http://peoplesworld.org/clinton-sanders-campaigns-clash-commitment-doesn-t/
- CNN 2016 Election Center, http://www.cnn.com/election/primaries/parties/democrat