Piacenza. Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio 53enne della cooperativa Seam (cui GLS ha appaltato dei servizi logistici) immigrato egiziano, sindacalizzato con USB: è morto nella notte tra il 14 e il 15 Settembre in mezzo ai suoi compagni di lotta, davanti all’azienda durante un picchetto, uno dei tanti che i lavoratori esasperati da licenziamenti e precarietà hanno indetto nel corso di questo 2016, trovandosi di fronte solo il muro cieco e sordo dei rappresentanti delle due aziende. E’ stato ucciso, investito, perché l’autista di un camion che voleva uscire dal magazzino ha forzato il picchetto (suo malgrado?) schiacciando l’acceleratore probabilmente [1] su incitamento di qualche dirigente che evidentemente quella protesta ostinata e reiterata la sopportava davvero poco. Morto, davanti ai suoi compagni tra cui c’era anche il fratello, davanti alla polizia che ha assistito a tutta la vicenda [2]. Questa versione dei fatti fornita dai lavoratori viene però capovolta dalla Procura di Piacenza, che nega che il quel momento si stesse svolgendo un picchetto e asserisce che l’incidente sia avvenuto durante una fase di manovra del mezzo a causa dell’avvicinamento dell’operaio.
A Piacenza è già stata convocata una conferenza stampa in queste ore, e USB ha annunciato lo sciopero nazionale immediato di tutto il settore della logistica dalle 5 del mattino del 15 settembre alle 5 del 16, oltre alla manifestazione che si terrà Sabato 17 a Piacenza e alle mobilitazioni in altre città (per aggiornamenti e sviluppi in tempo reale consultare il sito dell’USB).
A parte i prevedibili, comodi, commenti in stile “è lui che s’è fatto investire” oppure “quei pazzi al picchetto gli sono andati sotto, al camion”, non si sapeva con esattezza, fino a molte ore dopo la morte, neanche il nome di quest’uomo, morto in anonimato mentre lottava per guadagnarsi una vita decente per sé e per i suoi cinque figli. All’inizio sui telegiornali solo un brevissimo accenno, un titolo, senza uno straccio di servizio, di approfondimento, di dichiarazione, e poi subito si tornava all’interminabile quanto ininfluente disamina sul tema del giorno, il “web che uccide” e la triste vicenda dello suicidio di Tiziana Cantone a causa del video hard che la vede protagonista e che l’ha esposta per due anni ad un martellamento mediatico online che l’ha sfinita. Poi la notizia da Piacenza comincia a diffondersi su numerose testate online, anche perché, stavolta, sarà difficile ignorare, come al solito si fa con le vertenze lavorative. Mentre si farà certamente di tutto per omettere la denuncia piena e senza sconti del reale motivo dell’assassinio di Abd Elsalam Ahmed Eldanf.
Perché è proprio questo il punto: fanno notizia “le conseguenze” e per settimane tengono il banco della discussione le cause sbagliate, mentre le dinamiche vere, quelle che uccidono, sono passate nel più totale e aberrante dei silenzi. Siamo continuamente invitati a riversare (rigorosamente su Facebook, il più efficiente tribunale esistente al mondo!) una fiumana di interventi, parole e pareri sugli aspetti secondari o marginali (ma imposti come fondanti) di ogni triste vicenda di usurpazione, violenza, sfruttamento o morte che accade a determinate categorie di soggetti “interessanti”; siamo annoiati, interdetti, laconici, indifferenti di fronte ai drammi della vita quotidiana perché siamo incapaci di individuare e denunciare le vere cause di queste tragedie, avvertirle come la minaccia che incombe potenzialmente sulla pelle di tutti noi. Ecco il capolavoro dei lorsignori.
Qual è il vero motivo per cui una ragazza, al centro di un enorme clamore mediatico per essersi ingenuamente fidata di chi la filmava mentre compiva un atto di una normalità allucinante nelle vite private di miliardi di persone, dovrebbe ammazzarsi? Qual è la ragione per cui un uomo, che da mesi lottava per le sue condizioni lavorative nella più completa assenza di riflettori, dovrebbe perdere la vita schiacciato dalle ruote di un camion guidato da un altro lavoratore, probabilmente ricattato e sfruttato quanto lui?
Se l’intero mondo che conosciamo non si reggesse in ogni suo infinitesimale ingranaggio sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla prevaricazione, sulla selvaggia legge del profitto, allora, forse, le risposte potrebbero essere anche solo quelle che sentiamo ripetere alla tv o nei salotti dei pennivendoli: la cattiveria insita nelle persone che maneggiano un mouse, la “negligenza”, l’inciampare nei pressi delle ruote di un tir. Ma purtroppo o non è così o non basta: se le donne non fossero considerate una merce e non fossero costrette al gioco di ruolo che viene loro imposto, se non si gettassero letteralmente miliardi in un business come quello della pornografia che non produce nulla di utile e che si alimenta esclusivamente sul maschilismo, sul sessismo, sulla sessualità femminile proibita, vissuta come vergogna e tabù, allora non esisterebbe nemmeno un lontano motivo per trovare interessante la diffusione virale di un video osé sul web, per generare un odioso passaparola o uno sfottò (dinamiche che non esistono, certo, solo dall’era dell’avvento di Internet) da parte di un manipolo di idioti. Allo stesso modo, se l’unica necessità dominante nel mondo del lavoro non fosse l’accumulazione del profitto ad ogni costo, la gestione violenta ed irrazionale della produzione finalizzata al soddisfacimento di bisogni che non hanno nulla a che vedere con quelli della stragrande maggioranza dei lavoratori, allora di fronte alle legittime richieste di chi si spacca la schiena dalla mattina alla sera bisognerebbe trovare una convergenza, non certo procedere all’eliminazione fisica del “problema” senza alcuno scrupolo.
E invece è così che stanno le cose. Le donne e gli uomini in ogni angolo del mondo capitalistico muoiono in ultima istanza a causa dello sfruttamento senza remore né limiti al quale sono sottoposti e sottoposte, attraverso un’infinita serie di meccanismi in cui questa inumana dinamica risulta più o meno evidente agli occhi di chi la subisce. Il dolore è spettacolarizzato ma non avvertito, il dolore è lontano, relegato nelle zone di mondo di serie B colpite dalle nostre guerre o nelle case private delle vittime di un misfatto davanti alle quali sostano giornalisti affamati di emozioni da esporre come oggetti vendibili. O ancora il dolore è strettamente rinchiuso nei pugni e tra i denti tremanti di rabbia dei colleghi e compagni di lotta che erano accanto da mesi all’operaio egiziano investito; ed è talmente anestetizzata la coscienza di tutti i lavoratori di essere, anche a nostra insaputa, anche noi autentici compagni di chi una notte è morto davanti all’ azienda difendendo le ragioni comuni a tutti, che quel dolore racchiuso in quei pugni difficilmente riuscirà a fuoriuscire, dilagando sulle bocche di tutti, stimolando riflessioni, indignazione, mobilitazione, riscatto.
Erano decenni che un lavoratore non perdeva la vita durante un picchetto, come fa notare USB tramite Riccardo Germani. In queste ore, ripetiamo, si stanno organizzando conferenze stampa e previsioni di mobilitazione, presumibilmente in tante città italiane. E quello che è certo è che Abd Elsalam Ahmed Eldanf non sarà morto invano se la sua lotta proseguirà e tutti noi riusciremo a “sentire” di dover fare la nostra parte, di non abbassare la testa, se riusciremo a comprendere con esattezza quali sono le dinamiche responsabili della morte insensata di altri sfruttati e sfruttate come noi. L’unità dei nostri corpi e delle nostre idee è la sola che può agire nel mondo; al contrario, ne verremo sopraffatti, sprofondati nell’immensa vacuità di uno smartphone nuovo.
Fonti