Crescono percorsi che si intrecciano tra i tanti lavoratori autonomi con partita IVA che si ritrovano in condizioni analoghe a quelle dei più classici “precari”. Retribuzioni sotto i minimi, nessuna stabilità, nessuna prospettiva di pensione. Ma tra le diverse forme dello sfruttamento del lavoro stanno crescendo rivendicazioni comuni a quelle del lavoro dipendente. Una carovana di diritti da conquistare che può diventare un unico fronte sociale antagonista.
di Pietro Antonuccio
Si va facendo sempre più strada l’idea di legare tra di loro le condizioni di vita e di lavoro di tante figure professionali, formalmente definite come “autonome” ed assoggettate invece, nella realtà, a forme di lavoro non solo subordinato, ma anche privo delle minime garanzie proprio perché mascherate da lavoro “autonomo” magari anche appartenente a uno degli ordini professionali.
È il caso delle tante partite IVA di cui viene imposta l’apertura da parte di aziende o grandi studi soltanto per non far apparire la realtà di lavoro dipendente privo di qualsiasi garanzia di stabilità che rende la condizione di questi “professionisti” del tutto simile a quella dei più comunemente noti “lavoratori precari”.
Il fenomeno è ormai talmente ampio ed esteso a tutti i settori da dare lo spunto ad associazioni che propongono una solidarietà intercategoriale e interprofessionale, mettendo al centro problemi comuni che riguardano direttamente e gravemente tutte queste forme di lavoro pseudo-autonomo.
Sta nascendo così una vera e propria galassia di soggetti diversamente definiti, ma tutti aventi lo stesso profilo di fondo: dagli architetti che, con un tocco di amara ironia, hanno denominato la loro associazione “Iva sei Partita” ai geometri “Geomobilitati”; dalla “Mobilitazione Generale degli Avvocati” al “Comitato Professioni Tecniche” che raccoglie ingegneri ed architetti; e poi parafarmacisti, archivisti, freelance, ecc.
Soggetti che crescono insieme a comitati di contestazione delle leggi fiscali che impongono prelievi sproporzionati rispetto all’effettiva capacità di produzione di tutti questi lavoratori solo formalmente rivestiti di una autonomia professionale: “Comitato per l’Equità Fiscale” “Inarcassa Insostenibile” “No Cassa Edile” e tanti altri ancora.
Esperienze eterogenee che vanno confluendo verso una coalizione inedita nella storia del lavoro “indipendente”: quella tra lavoratori autonomi e lavoratori precari, definizioni che vanno sempre più ritrovandosi in una identica condizione sociale.
La MGA (mobilitazione generale degli avvocati) è stata una delle prime, tra queste organizzazioni nate dal basso, a sviluppare una denuncia delle condizioni di lavoro all’interno di molti studi legali, dove dietro il paravento della “collaborazione professionale” sono occultate gravissime forme di sfruttamento sia di praticanti, sia di avvocati che di fatto sono dipendenti del grande studio-azienda. Senza alcuna garanzia contrattuale e con miseri “rimborsi spese” (a volte di 400/500 euro mese) e il rischio di ritrovarsi per strada in qualsiasi momento anche in età non più giovane e senza una clientela propria. Un quadro che evidenzia una vera e propria proletarizzazione di una buona parte di quel ceto professionale che prima era automaticamente collocato nella classe media - benestante.
Questo ha spinto la MGA a manifestare contro le iniquità fiscali e previdenziali imposte dalla Cassa previdenziale Forense che presuppone la titolarità di un reddito che non è assolutamente raggiungibile da una gran parte degli iscritti all’albo professionale. Una prima manifestazione svolta con successo il 27 febbraio scorso e che ha avuto l’adesione delle altre associazioni del “lavoro autonomo e precario”, tanto che ne è nata l’idea di una carovana dei diritti che manifesterà il 24 aprile davanti alla sede nazionale dell’INPS. L’obiettivo sarà quello di affermare principi elementari ma essenziali, anche per tutte queste nuove figure di autonomia/precariato: si lavora per vivere e per creare una nuova cultura dei diritti, lo sfruttamento delle vite di chi lavora non può essere accettato sotto nessuna veste.
Principi che oggi sono lontani dalla realtà in cui impera non solo la privazione di una stabilità lavorativa e di un dignitoso minimo retributivo, ma anche la privazione di un futuro (per quanto lontano) di maggiore serenità, perché è chiaro che - nonostante i pesantissimi prelievi dovuti al pagamento dei contributi che esigono le varie casse professionali - una vera e propria pensione non la vedrà nessuno (o quasi).
La pensione come era stata conquistata dalle generazioni precedenti e recepita nella stessa Costituzione del 1948 è stata infatti praticamente abolita dalla lunga serie di controriforme che si sono abbattute su questo istituto fondamentale dello stato sociale, attaccandolo alle radici, fino all’ultima controriforma Fornero che non solo ha ulteriormente allungato i tempi dell’età pensionabile, ma ha anche segnato l’estensione a tutti i nuovi pensionati del “conteggio contributivo”.
In questo modo la pensione, come retribuzione “differita”, cioè come una vera e propria parte di ciò che spetta in cambio del lavoro prestato in un tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, è stata per ogni verso cancellata: ormai si parla di pensione solo come operazione matematica risultante dal pagamento di polizze assicurative, tutt’al più corrispondente ai contributi versati, non certo alle retribuzioni percepite o dovute.
Che pensione potrà avere quindi il lavoratore precario che non versa contributi se non nella misura minima consentita dai suoi contratti “atipici” o lo pseudo-professionista autonomo che deve dare fondo a tutto il suo salario per pagare i contributi obbligatori per l’iscrizione all’albo professionale (in previsione di una bella pensione da fame, perché non integrata dall’effettivo svolgimento della “libera” professione)?
Nessun diritto alla stabilità del lavoro, nessun diritto a una futura pensione; l’espropriazione è ormai pressochè totale, la merce-lavoro è monetizzata (al minimo) soltanto nella sua immediatezza, la persona del lavoratore non è in alcun modo riconosciuta nei suoi fondamentali bisogni di stabilità, di tempo libero e di futuro.
Da qui nasce la volontà di collegare questa galassia finora polverizzata delle partite IVA con le lotte tradizionali del lavoro dipendente, per costruire un unico fronte che rivendica condizioni di lavoro dignitose e tutela dei diritti; un primo passo è stato quello della partecipazione della MGA alla “coalizione sociale” convocata dalla FIOM di Maurizio Landini.
Un’occasione per parlare della necessità di unire i lavori, per riflettere sul fatto che oggi lo sfruttamento del lavoro non avviene solo nelle fabbriche o nelle campagne, ma anche nei tanti luoghi in cui la partita IVA è strumento di precarizzazione. E sull’importanza di unire lavoro esecutivo e lavoro intellettuale in un unico fronte sociale.
Anche così, quindi, sono nate le parole d’ordine della carovana dei diritti che manifesterà il 24 aprile sotto la sede centrale dell’INPS all’Eur, a Roma: rivendicare un’aliquota della gestione separata INPS al 24%, il diritto alla malattia retribuita, alla maternità, a un reddito di base per tutti, a una “pensione minima di cittadinanza” indipendente dal montante contributivo accumulato.
Obiettivi minimi, ma enormemente difficili oggi da conquistare. Servirà tutta la nostra forza.