La vittoria di Hillary, l’eredità di Bernie

La sorprendente campagna di Sanders ha avuto il merito di portare nel dibattito temi fondamentali per i lavoratori.


La vittoria di Hillary, l’eredità di Bernie Credits: @the politicali nsider

Senza grandi sorprese, Hillary Clinton guadagna la maggioranza dei delegati per ottenere la nomination democratica. Ma l’esito finale delle presidenziali americane non è del tutto scontato, e la sorprendente campagna di Bernie Sanders ha avuto il merito di portare nel dibattito alcuni temi fondamentali per i lavoratori. Venti di cambiamento continuano a soffiare nella società americana che si interroga su un futuro quanto mai incerto.

di Zosimo

Per chi ha seguito sui media mainstream americani l’ultimo mese di campagna delle primarie democratiche, l’esito del “Super Tuesday”, il super martedì, ultima tornata elettorale che ha interessato 6 stati (California e New Jersey tra i più grandi e popolosi, poi New Mexico, Montana, Sud e Nord Dakota) svoltasi il 7 giugno, era prevedibile: Hillary Clinton è da tempo considerata e propagandata dai media come la candidata da opporre a Donald Trump che ha già conquistato il campo repubblicano da oltre un mese.

Nonostante il successo elettorale sia andato oltre le più rosee previsioni, soprattutto in California (56% dei voti) e in New Jersey (63%), il messaggio mediatico passato nelle scorse settimane dava comunque l’idea di una ormai certa vittoria finale della Clinton per la nomination democratica.

Il discorso tenuto da Hillary la sera di martedì 7 giugno davanti ai suoi sostenitori, il suo atteggiarsi sul palco, la sua ostentata sicurezza davanti alle telecamere, hanno dato la chiara sensazione di assistere al messaggio di un presidente neo-eletto, ed i principali canali televisivi, nonché le principali testate giornalistiche, hanno tutti indistintamente celebrato con enfasi ed insistenza il fatto storico che per la prima volta una donna potrà ricoprire la carica più potente dell’intero pianeta.

La sensazione è che gran parte dei poteri forti, i grandi gruppi mediatici, tutto l’apparato del partito, e ciò che gli gira intorno, dai movimenti per i diritti civili più popolari a gran parte dei sindacati, si siano fortemente compattati attorno alla candidatura di Hillary Clinton, in ciò spinti dalla crescente popolarità del fenomeno populista incarnato da Donald Trump, totalmente centrato anch’esso sul fattore mediatico. Ma non c’è dubbio che questo compattamento è stato provocato anche dal fenomeno, molto meno mediatico e molto più sociale e politico, rappresentato da Bernie Sanders e dal movimento reale che è nato attorno alla sua candidatura in meno di un anno.

Gran parte dei commentatori mainstream mettono l’accento sul fatto che queste elezioni rappresentano un caso straordinario e anomalo per i personaggi che ne sono stati i protagonisti, in particolare il trio Trump-Clinton-Sanders. Ognuno di loro, per motivi diversi, rappresenta un fatto nuovo, o relativamente nuovo, nella storia politica degli Stati Uniti, almeno in quella recente degli ultimi 3-4 decenni. Certamente sia Trump che Sanders, per motivi e in campi opposti, rappresentano delle outsider politiche, nel senso che in effetti fino a poco tempo fa erano estranei (Trump) o ai margini (Sanders) della classe politica dominante.

Hillary Clinton è in effetti la prima donna che arriverebbe a correre per la presidenza, sebbene, al di là di questo aspetto fortemente simbolico, essa in realtà incarna l’assoluta continuità con il passato, la migliore garanzia per i poteri forti, e quando si parla di poteri forti negli Stati Uniti dobbiamo considerare in primo luogo le grandi corporation un tempo definite multinazionali e oggi transnazionali, la finanza di Wall Street e il cosiddetto apparato militar-industriale.

Queste componenti rappresentano i settori vincenti del grande capitale, quelli che hanno continuato a trarre vantaggio dai progressivi e costanti processi di concentrazione e centralizzazione che si sono sviluppati negli ultimi decenni, garantiti da una classe politica ad essi subalterna, a prescindere dal colore, democratico o repubblicano, della presidenza, e al di là degli accenti maggiormente conservatori e socialmente aggressivi delle presidenze di Reagan, Bush padre e Bush figlio, che peraltro hanno definitivamente abbandonato l’antica tradizione isolazionista in politica estera per abbracciare invece un convinto e rapace imperialismo.

Donald Trump rappresenta, in parallelo con quanto accade già da tempo nel panorama politico europeo, il coagulo del fermento populista che serpeggia anche nella società americana, ma è chiaramente un prodotto del sistema e un capitalista egli stesso nel senso pieno del termine. Trump simboleggia la massima contraddizione possibile del capitalismo: lo sfruttatore che diventa un idolo politico per molti sfruttati. Ma dietro all’apparente semplicità di questo fenomeno vi è invece la piena complessità della più matura e sviluppata tra tutte le società capitaliste del nostro pianeta. Perché i lavoratori, quasi sempre bianchi e in zone più depresse, votano per lui? Si tratta di un classico esempio di quella che Marx definì la “falsa coscienza” del proletariato. La capacità del capitale, e della classe che se ne fa agente, di utilizzare alcune potenti leve emozionali, amplificate da una incolpevole ignoranza, per orientare il malcontento delle classi subalterne in direzione lontana dal conflitto di classe. Tutto ciò che può depotenziare e disinnescare il conflitto di classe diventa uno strumento formidabile in mano alle classi dominanti.

Non è necessario che questo processo sia pienamente consapevole o attentamente pianificato. In alcuni casi lo è. In altri casi, molti altri, questi processi avvengono anche con una forte componente di spontaneità. Ma ciò non modifica l’analisi del fenomeno nella sua sostanza. Il malcontento dovuto alla prolungata crisi economica, alla perdita di milioni di posti di lavoro, all’impoverimento costante di molti settori della classe dei lavoratori, viene orientato verso capri espiatori facilmente identificabili: gli immigrati latino-americani, messicani in particolare, i musulmani, i paesi che competono offrendo bassi salari. Naturalmente omettendo di dire che sono le stesse società transnazionali americane a controllare, all’estero, gli stabilimenti manifatturieri in quei paesi o a sfruttare, in patria, la manodopera a basso costo offerta dagli immigrati, classico esercito industriale di riserva.

Applicando lo stesso metro di analisi alla candidatura Clinton emergono, sorprendentemente, delle forti analogie. Anche in questo caso si fa fortemente leva su aspetti emozionali: paradossalmente, ma non troppo, laddove Trump rappresenta il veicolo attivo per orientare le masse in direzioni lontane dal conflitto di classe, nel caso di Clinton, e della strategia elettorale suggerita e studiata dai poteri che la sostengono, Trump si trasforma in bersaglio, divenendo lo spauracchio del male. In questo caso i lavoratori vengono spaventati dal male maggiore, un regime autoritario e iper-liberista, per costringerli ad accettare il male minore, cioè la continuità con la situazione esistente.

Comunque vada quindi, nei casi delle candidature Trump e Clinton, i poteri dominanti non corrono il rischio che si mettano in discussione le fondamenta economiche e sociali del sistema, cioè le basi materiali del loro potere. Se anche la Clinton dovesse accogliere, in campagna elettorale, alcuni dei temi sollevati da Sanders (salario minimo, pubblica istruzione di massa, programmi di edilizia popolare, sovvenzioni ai poveri, sanità universale, ecc.) lo farà soltanto a fini meramente elettorali, per complementare la strategia di convincimento delle masse popolari, abbinando al tema della paura per quello che Trump può rappresentare, un minimo di speranza per un miglioramento delle condizioni di vita. Ma la Clinton non porterà concretamente avanti nessuno di questi temi, e saprà sempre trovare le motivazioni; certo non è all’ordine del giorno mettere in discussione il potere della finanza e delle grandi corporation.

D’altronde non viene nascosto, anzi viene fortemente evidenziata, la volontà di proseguire sulla stessa linea della presidenza Obama, che in otto anni ha totalmente disatteso tutto il suo programma elettorale iniziale, tranne il timido e poi abortito tentativo sulla sanità pubblica. Se qualche differenza ci sarà con Obama è prevedibile, conoscendo l’attitudine della Clinton già dimostrata nel periodo in cui ricoprì il ruolo di Segretario di Stato, che vada nella direzione opposta: pieno sostegno alla grande industria e alla finanza, più forte spinta imperialista in politica estera, a partire da un possibile nuovo rafforzamento dei rapporti con Israele e da un riequilibrio più neutrale tra Iran e Arabia Saudita. L’unico aspetto, forse, in cui la Clinton assumerà, anzi ha già assunto, una linea più a “sinistra” di Obama è sui grandi trattati internazionali di libero scambio, TPP e TTIP. Ma è tutto da vedere e da misurare alla prova dei fatti.

Semmai la Clinton utilizzerà un altro strumento che, nelle società capitaliste occidentali più avanzate, è divenuto molto potente ed efficace come disinnesco delle tensioni sociali e di classe: i diritti civili. Tema che è stato infatti già messo al centro della sua campagna elettorale, con l’enfasi, che crescerà sempre più nei prossimi mesi, sulla prima donna presidente. Purtroppo anche il femminismo, così svuotato e strumentalizzato, diventa nemico del conflitto di classe e delle lotte dei lavoratori. Il tema dei diritti civili (donne, LGBT, e, in America, anche discriminazione razziale) è poi formidabile nel riuscire a compattare la componente intellettuale della sinistra radicale, spesso di estrazione borghese o piccolo-borghese.

Di fronte a questo quadro, che per chi analizza i fenomeni politici e sociali da una prospettiva marxista e comunista, può sembrare disarmante, esistono comunque dei fattori, questa volta di natura reale, che ci dicono che la società americana è attraversata da tensioni e contraddizioni sempre più profonde e sempre più difficili da comporre o da reprimere. Lo dimostrano le più recenti lotte dei lavoratori di grandi gruppi transnazionali (Verizon, McDonalds per citarne i più significativi degli ultimi tempi).

Ed è su questi fattori reali che va fatto un primo bilancio per il movimento “rivoluzionario” creato dalla candidatura di Sanders. Certamente, come abbiamo più volte evidenziato in nostre precedenti analisi su queste pagine, il merito principale è stato quello di aver “sdoganato” nel dibattito politico interno temi che erano usciti ormai da tempo: dal salario minimo, al diritto universale allo studio garantito da un sistema educativo pubblico e accessibile a tutti, dalla sanità pubblica al diritto alla casa per le classi meno abbienti. Su questi temi la mobilitazione è stata veramente notevole ed inedita, non accadeva da decenni nella società americana che milioni di giovani e di lavoratori si mobilitassero così attivamente e massicciamente a livello politico. Bisogna tuttavia ricordare che a questo movimento sono mancate alcune importanti componenti, i particolare quelle razziali: gli afroamericani, il cui voto è in larga parte saldamente in mano all’establishment democratico per varie ragioni; gli ispanici, che gli attacchi fortemente razzisti di Trump contro gli immigrati messicani, hanno paradossalmente portato a compattarsi più attorno alla Clinton che a Sanders. E poi naturalmente la componente femminista, oggi totalmente strumentalizzata a livello mediatico a favore di Hillary. Anche la connessione con le lotte dei lavoratori e con i movimenti popolari più radicali non è stata così organica e assidua. Questi sono tutti fronti sui quali il sedicente socialista Bernie deve lavorare se veramente vuole dare una continuità ed un respiro di lungo termine al suo movimento.

Quale sarà adesso il futuro di questo movimento? Bernie Sanders ha dichiarato a caldo, la notte stessa dopo il Super Martedì, che la sua battaglia continua, e che correrà per la candidatura fino alla Convention democratica che si terrà a Philadelphia a luglio. Nel frattempo il Presidente Obama ha subito convocato Sanders alla Casa Bianca, una mossa che lascia comprendere quanto forte sia la spinta di tutto l’establishment democratico affinchè Bernie assicuri il suo supporto alla campagna della Clinton. Tutti, dai media ai politici democratici più in vista, mettono l’accento sulla possibile analogia con il 2008 quando la stessa Clinton fece un passo indietro e sostenne la nomination e la campagna di Obama. Questo è anche un sintomo dell’incertezza che ancora regna sull’esito delle elezioni, dove l’effetto populista di Trump è in effetti fortemente temuto. Il tentativo è quello di riuscire ad ereditare, almeno in parte, l’elettorato di Bernie.

Lo stesso CPUSA, come è possibile leggere dalle pagine del suo quotidiano online, People’s World, è convintamente schierato per una compattazione del fronte democratico attorno alla candidatura Clinton e contro il pericolo Trump.

Molti dimenticano tuttavia di considerare che per Bernie Sanders questa mossa sarebbe un autentico suicidio politico. E, cosa sinceramente molto più grave da un punto di vista politico di lungo termine, l’affondamento prematuro di un movimento che invece avrebbe delle interessanti potenzialità per far emergere sul piano politico una conflittualità di classe già esistente al livello sociale, pur fallendo al momento nel dargli una prospettiva politica realmente rivoluzionaria.

Insomma, il futuro scenario politico americano è ancora molto incerto e soltanto i prossimi mesi ci diranno che direzione effettiva prenderà.

 

Fonti e riferimenti:

- The New York Times

http://www.nytimes.com/2016/06/08/us/politics/hillary-clinton-bernie-sanders-primary.html?version=meter+at+1&contentId=&mediaId=&referrer=http%3A%2F%2Fwww.nytimes.com%2F%3FWT.z_jog%3D1%26hF%3Dt%26vS%3Dundefined&priority=true&action=click&contentCollection=Politics&module=RelatedCoverage&region=EndOfArticle&pgtype=article

- The Washington Post

https://www.washingtonpost.com/politics/next-for-democrats-a-delicate-dance-to-broker-peace-between-clinton-and-sanders/2016/06/08/34000b6c-2cbd-11e6-9b37-42985f6a265c_story.html

- The New Yorker

http://www.newyorker.com/news/amy-davidson/bernie-sanders-post-california

http://www.newyorker.com/news/news-desk/why-trumps-canned-speech-wont-help-him

- People’s World

http://peoplesworld.org/clinton-makes-history-first-woman-to-be-major-party-s-presidential-nominee/

http://peoplesworld.org/how-to-build-the-unity-needed-to-defeat-trump/

- The Wall Street Journal

http://blogs.wsj.com/washwire/2016/06/08/bernie-sanders-supporters-divided-over-next-move/

10/06/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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