La rivoluzione d’ottobre

Le condizioni oggettive e soggettive che rendono possibile attuare una Rivoluzione.


La rivoluzione d’ottobre Credits: http://www.frontpage.lk/page/100th-anniversary-of-the-Russian-revolution-remembered-at-BMICH/19432

Come qualsiasi processo rivoluzionario, anche la Rivoluzione d’ottobre ha inevitabilmente prodotto una profonda rottura del corso storico. Ciò ha offerto il fianco – sin dal primo grande critico della rivoluzione: Edmund Burke – all’accusa ai rivoluzionari di aver sconsideratamente violato in maniera soggettivistica e, dunque, in modo brutale e arbitrario lo sviluppo naturale del corso del mondo che avrebbe finito con il risolvere da sé, nel processo del suo progressivo sviluppo, in modo gradualistico le proprie contraddizioni interne.

Di questa, che può essere considerata ancora oggi la madre di tutte le critiche [1], si sono giovati i protagonisti dell’Ottobre per distinguere nel modo più netto una grande Rivoluzione da un necessariamente fallimentare putsch, ovvero da un colpo di mano di una fazione politica armata per impadronirsi con la forza del potere. Un putsch è in quanto tale condannato, presto o tardi, all’insuccesso in quanto non è in grado di interpretare, facendolo emergere, un bisogno reale in grado di far insorgere le masse dei subalterni. In effetti l’esito positivo, nei tempi necessariamente lunghi della storia, di un processo rivoluzionario non può dipendere da un complotto, per quanto ben congegnato, di un manipolo di sovversivi, come immaginavano rivoluzionari romantici e utopisti come Carlo Pisacane, Auguste Blanqui o Michail Bakunin. Perciò non vi è nulla di più distante da una rivoluzione, in grado di produrre un salto qualitativo nel corso storico, di un colpo di mano ordito da “un gruppo di cospiratori” [2] condannato all’insuccesso in quanto privo dell’indispensabile sostegno delle classi subalterne.

Anzi, una rivoluzione in grado di incidere durevolmente sul corso del mondo non può essere nemmeno opera di un partito politico, per quanto bene organizzato. In effetti, lanciare un processo insurrezionale nel momento in cui le sole avanguardie sono determinate alla lotta finale, “prima che tutta la classe, prima che le grandi masse abbiano preso una posizione o di appoggio diretto all’avanguardia o, per lo meno, di benevola neutralità nei suoi riguardi” sarebbe “non soltanto una sciocchezza, ma anche un delitto” [3].

Dunque, la Rivoluzione di ottobre non ha avuto nulla di arbitrario, in quanto non può esser considerata il prodotto di un singolo partito, di una singola grande personalità storica o, come vorrebbero i suoi detrattori, “della volontà di un ‘dittatore’”, ma è il risultato necessario delle “inverosimili sofferenze della Russia” e delle “circostanze create dalla guerra, che ha bruscamente e recisamente posto davanti al popolo lavoratore la questione: o un passo audace, disperato e deciso, o perire, morire di fame” [4]. In altri termini, un progetto rivoluzionario può tradursi in atto solo se sono presenti nella realtà storica i suoi presupposti “obiettivi, indipendenti dalla volontà, non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi”, in assenza dei quali “la rivoluzione – di regola – è impossibile” [5]. Lenin si spinge sino ad affermare che sia impossibile non solo avviare soggettivamente una rivoluzione, ma anche stimolarla se non si danno le condizioni oggettive che sono un prodotto dello sviluppo stesso del capitalismo, della sua contraddizione interna che pone le condizioni storiche per il suo superamento. Per cui solo apparentemente l’enorme salto qualitativo nel progresso storico prodotto da una rivoluzione è un evento straordinario, quasi miracoloso. “Nella natura e nella storia – infatti - non accadono miracoli, ma ogni svolta storica repentina, e quindi ogni rivoluzione, offre una tale ricchezza di contenuto, sviluppa combinazioni così inattese e originali delle forme di lotta e dei rapporti tra le forze in lotta che molti fatti devono sembrare miracolosi ad una mentalità filistea” [6]. Dunque una rivoluzione è il prodotto di tutta una serie di fattori che vanno analizzati a livello globale [7]. Essi possono essere ridotti, a parere di Lenin, essenzialmente a tre: “1) l’impossibilità per le classi dominati di conservare il loro dominio senza modificarne la forma; una qualche crisi negli ‘strati superiori’, una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che ‘gli strati inferiori non vogliano’, ma occorre anche che ‘gli strati superiori non possano’ vivere come per il passato; 2) un aggravamento, maggiore del solito, dell’angustia e della miseria delle classi oppresse; 3) in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali, in un periodo ‘pacifico’ si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte (…) ad un’azione storica indipendente” [8]. La teoria che sia possibile stimolare una rivoluzione appare a Lenin “in assoluto contrasto con il marxismo, che ha sempre negato la possibilità di ‘stimolare’ le rivoluzioni, le quali si sviluppano a mano a mano che si inaspriscono le contraddizioni di classe che le generano” [9].

Ciò non significa, ovviamente, cadere nell’estremo opposto dei massimalisti che, in attesa che si venissero a determinare in modo quasi fatalistico le condizioni oggettive, non facevano nulla per dare l’indispensabile contributo soggettivo alla loro realizzazione. Si tratta, in fin dei conti, dell’opportunismo dottrinario di “colui che attende una rivoluzione sociale ‘pura’” e che, proprio perciò, “non la vedrà mai”, neanche se essa si venisse realizzando proprio sotto i suoi occhi. Si tratta, infatti, di “un rivoluzionario a parole” che non è in grado di intendere “la vera rivoluzione” [10]. Di contro a chi, anche nel partito bolscevico, pretendeva di attenersi pedissequamente ai vecchi schemi fondati su una presunta interpretazione ortodossa del marxismo, Lenin non si stancava di sottolineare: “‘la nostra dottrina non è un dogma, ma una guida per l’azione’, hanno sempre sostenuto Marx e Engels, burlandosi a ragione delle ‘formule’ imparate a memoria e ripetute meccanicamente, le quali, nel migliore dei casi, possono tutt’al più indicare i compiti generali che vengono di necessità modificati dalla situazione economica e politica concreta di ciascuna fase particolare del processo storico” [11]

Del resto, per quanto sia indubbiamente vero che i processi rivoluzionari non si fanno ma, piuttosto, «sorgono dalla crisi e dai rivolgimenti storici obiettivamente maturi» [12], trattasi di condizioni certo necessarie, ma non perciò sufficienti ad attualizzare una situazione storica potenzialmente rivoluzionaria. Ad esse deve necessariamente corrispondere “una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non ‘cadrà’ mai se non lo ‘si farà cadere’” [13]. Vi è, dunque, bisogno di un partito di quadri rivoluzionario con un radicamento di massa che sia in grado di comprendere “il momento in cui l’attività delle schiere più avanzate del popolo è massima”, di cogliere l’attimo in cui “più forti sono le esitazioni nelle file” [14] del nemico di classe, per sollevare e dirigere consapevolmente la spontanea volontà di lotta della masse popolari verso l’obiettivo rivoluzionario. In effetti, fino a che le classi subalterne non si saranno dotate di un’organizzazione conseguentemente rivoluzionaria resteranno prive d’una volontà collettiva capace di condurle alla vittoria nella lotta complessa e dagli esiti imprevedibili “contro la potente organizzazione terroristica e militare degli Stati centralizzati” [15]. Le capacità effettive e il compito essenziale del gruppo dirigente rivoluzionario consistono nella capacità di valutare il momento più appropriato in cui le condizioni oggettive rendono plausibile il tentativo dell’avanguardia di prendere il potere, potendo contare sull’“appoggio adeguato di strati vasti della classe operaia e delle masse lavoratrici non proletarie” [16] non solo nella fase insurrezionale, ma soprattutto nella successiva costruzione del socialismo

La presenza delle condizioni oggettive e soggettive consente di comprendere il motivo per cui la prima rivoluzione proletaria sia avvenuta, contro le aspettative dei marxisti dottrinari, in un paese arretrato come la Russia: la disorganizzazione della classe dirigente “era la più mostruosa e il proletariato il più rivoluzionario (non in virtù di sue qualità particolari, ma per effetto delle vive tradizioni del 1905)” [17]. Occorre d’altro canto sottolineare che, anche in presenza delle condizioni soggettive ed oggettive, l’esito di una rivoluzione non è mai del tutto prevedibile dal momento che, come ogni azione, dipende dalle reazioni delle classi avverse e delle classi intermedie tanto piano nazionale quanto su quello internazionale.


Note

[1] Su di essa si fonda la tante volte ripetuta accusa alla Rivoluzione di ottobre di essere stata un putsch blanquista compiuto da un manipolo di utopisti antidemocratici. Tale accusa era stata formulata, da un punto di vista marxista viziato di dogmatismo, già da Georgij Valentinovic Plechanov, prima ancora che la rivoluzione avesse luogo, ovvero quando appariva ai più il sogno del visionario autore delle Tesi di Aprile. Su di essa si fonderanno le filippiche lanciate contro la Rivoluzione di ottobre dai principali esponenti dell’Internazionale socialista e variazioni sempre più stanche su questo tema possono essere considerate anche i più recenti anatemi lanciati contro l’Ottobre dagli odierni campioni del rovescismo storico, divenuto ormai ideologia dominante nel mondo occidentale.

[2] V. I. Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione (luglio 1916), in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 22, p. 352.

[3] Id., L’“estremismo” malattia infantile del comunismo (aprile 1920), in Opere…, cit., vol. 31, pp. 82-3.

[4] Id., Discorso sullo scioglimento dell’assemblea costituente alla seduta del comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (19 gennaio 1918), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 299.

[5] Id., Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Opere…, cit., vol. 21, p. 191-92.

[6] Id., Lettere da lontano (Marzo 1917), in Sulla rivoluzione…, op. cit., p. 96.

[7] Ad esempio, nel caso della Rivoluzione di ottobre, “perché la monarchia zarista potesse crollare in pochi giorni, è stato necessario il concorso di tutta una serie di condizioni di portata storica mondiale” Ibidem.

[8] Ivi p. 191.

[9] Id., Strano e mostruoso (febbraio-marzo 1818), in Sulla rivoluzione, op. cit., p. 307.

[10] Id., Risultati della discussione…, op. cit., p. 353.

[11] Id., Lettere sulla tattica (aprile 1917), in Sulla rivoluzione…, op. cit., p. 115. Ecco come Lenin chiarisce i motivi per i quali le precedenti formule non erano più adeguate alla possibilità di intervenire in senso rivoluzionario sugli sviluppi storici reali: “La vecchia formula era: al dominio della borghesia può e deve seguire il dominio del proletariato e dei contadini, la loro dittatura. Ma nella vita reale è già andata diversamente: si è avuto un intreccio estremamente originale, nuovo, senza precedenti dell’uno e dell’altro dominio. Infatti esistono, l’uno accanto all’altro, insieme, simultaneamente, e il dominio della borghesia (governo Lvov-Guckov) e la dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini, che cede volontariamente il potere alla borghesia e si trasforma volontariamente in una sua appendice” Ivi p. 118.

[12] Id., Il fallimento della II Internazionale…, op. cit., p. 217.

[13] Ivi, p. 193.

[14] Id., Il marxismo e l’insurrezione (Settembre 1917), in Opere…, cit., vol. 26, p. 12.

[15] Id., Il fallimento della II Internazionale…, op. cit., p. 217.

[16] Id., L’“estremismo” malattia infantile del comunismo (aprile 1920), in Sulla rivoluzione…, op. cit., p. 457.

[17] Id., Lettere da lontano (Marzo 1917), in Opere…, cit., vol. 23, p. 302.

04/11/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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