La crescita dell’economia. Fin qui nulla di nuovo. Del resto l'aumento del Pil e la crescita sono obiettivi condivisi da tutti i governi succedutisi con la differenza sostanziale che l'esecutivo Meloni si prefigge un obiettivo ambizioso ossia ridurre le tasse sapendo che ci saranno inevitabili ripercussioni negative sul welfare e sulle entrate nelle casse statali. Il governo di destra, dopo avere approvato la tassa piatta per gli autonomi, vira verso la riduzione delle aliquote fiscali e tiene a bada i sindacati rappresentativi promettendo loro di ridurre le tasse sul lavoro sapendo che welfare integrativo, pensioni e sanità integrative saranno obiettivi condivisi e praticabili con le parti sociali.
Si parla di "aumento dell’efficienza della struttura delle imposte e la riduzione del carico fiscale sui redditi derivanti dall’impiego dei fattori di produzione". Veniamo da anni di detassazione dei premi di risultato, una misura ambita e caldeggiata dalle parti datoriali che tuttavia ha prodotto scarsi benefici a vantaggio del potere d'acquisto dei salariati e ha raggiunto invece un altro obiettivo padronale: il depotenziamento del contratto nazionale attraverso il sistema delle deroghe.
Si parla poi di "razionalizzazione e semplificazione del sistema tributario, preservandone la progressività, da attuarsi anche attraverso, la riduzione degli adempimenti a carico dei contribuenti e l’eliminazione dei c.d. «micro-tributi» con gettito trascurabile per l’Erario". Il sistema fiscale italiano è spesso farraginoso, ma l'idea di progressività viene proprio smentita dalla tassa piatta per gli autonomi, e la riduzione delle aliquote fiscali va in direzione opposta alle dichiarazioni di intenti.
E allora? Il Governo Meloni persegue l'obiettivo della "riduzione dell’evasione ed elusione fiscale". Anche questo buon proposito è stato presente in ogni Governo salvo poi scoprire che gli evasori sono tutt'altro che diminuiti e in molti casi l'evasione è stata incentivata da paci fiscali e accordi assai favorevoli per far rientrare pochi capitali dall'estero. A questo punto dovremmo invece rilanciare una proposta antitetica a quella caldeggiata dal Governo, misura impopolare perché culturalmente sconfitta, ossia l'aumento delle aliquote fiscali e una tassa sui grandi patrimoni che sappiamo quanto sia invisa ai grandi capitali.
Il Governo è stato delegato dal Parlamento a emanare decreti legislativi atti alla revisione del sistema di imposizione personale sui redditi, secondo alcuni criteri che meritano di essere analizzati.
Laddove si parla di applicare la medesima aliquota proporzionale di tassazione sia sui redditi derivanti dall’impiego del capitale (incluso il mercato immobiliare), sia sui redditi direttamente derivanti dall’impiego del capitale nelle attività di impresa e di lavoro autonomo svolte da soggetti diversi da quelli a cui si applica l’imposta sul reddito delle società (Ires) non si costruisce un sistema equo perché i capitali finanziari dovrebbero essere soggetti a tassazioni maggiori rispetto ad altri per la loro natura tipicamente speculativa.
La riformulazione del catasto sugli immobili potrebbe invece essere una novità positiva, ma molto, anzi tutto, dipende dai criteri guida, visto che si rischia di salvaguardare gli immobili del centro storico destinati ad utilizzo per affitti brevi, in linea con la gentrificazione delle aree cittadine che sappiamo essere stata una sventura.
Veniamo invece ad altre considerazioni meritevoli di attenzione. Per esempio, analizzando i dati del Fondo Monetario Internazionale, si evince che l'aliquota dell'imposta sulle società è passata in meno di trent'anni dal 50% a una media che oscilla tra il 20 e il 30%. Così facendo i paesi a capitalismo avanzato hanno scaricato l'onere delle tasse sui lavoratori dipendenti proprio quando la quota di reddito da lavoro, dopo gli anni neoliberisti, è calata di quasi il 20%: se negli anni ottanta del secolo scorso pesava per il 70 per cento dei redditi prodotti oggi arriva in Occidente al 50 per cento. Meno occupati ma sostanzialmente resta invariata la quota di tasse pagata dal lavoro dipendente, anzi sembrerebbe aumentata.
Va detto allora con assoluta chiarezza che i sistemi fiscali oggi vigenti nei paesi occidentali sono anche e soprattutto il risultato di una sconfitta politica e culturale. Per prendere voti si promette la riduzione delle tasse ma senza spiegare quali ceti sociali ne trarranno maggiori benefici. E i dati in nostro possesso dimostrano che sono proprio le classi sociali agiate a beneficiarne.
Ironia della sorte, riducendo le imposte si sono prodotti disavanzi del Bilancio statale e le ricadute positive sull'economia sono lungi dall'essere certificate. Al contrario, la Segretaria al Tesoro Usa, Janet Yelle, parlando alla riunione invernale della Conferenza dei sindaci degli Stati Uniti il 19 gennaio 2022, ha sostenuto che è fallita la strategia, inaugurata da Donald Reagan, che si proponeva di sostenere l'offerta mediante tagli alla tassazione, e che occorre invece puntare sull'aumento dell'offerta di lavoro e sulla crescita della produttività. Si tratta naturalmente del gioco fra le parti, della eterna controversia fra conservatori e democratici, ora neocons, che poi si trovano sempre d'accordo nell'infierire sui lavoratori. Ma è comunque significativa l'ammissione di un fallimento di politiche che erano state portate avanti dalle amministrazioni facenti capo a entrambi i partiti.
Riducendo le tasse, lo Stato avrà meno soldi a disposizione per il welfare. Pertanto l'accumulo di ricchezza di pochi non ha prodotto benefici per gli esclusi, e ha acuito invece le differenze sociali ed economiche.
Sono le tassazioni dei ricchi a portare benefici allo Stato e al welfare. Al contrario si pensa che, riducendo le tasse alle classi sociali agiate, si avvantaggi la società. Invece, se si riducono le tasse alle imprese, non è detto che le aziende investano i maggiori profitti in termini occupazionali e formativi. L'esperienza degli ultimi lustri dimostra invece l'esatto contrario, ossia l'aumento dei profitti e il ricorso a forza lavoro precaria e mal pagata.
Negli anni settanta vennero introdotte Irpef e Iva. Gli interessi sui titoli di stato non vennero tassati, rappresentando a detta di alcuni (ad esempio Visco) un incentivo all'indebitamento pubblico. I redditi di terreni e fabbricati hanno continuato ad essere tassati in base a irrisori valori catastali e proprio su questo punto il Governo Meloni potrebbe, ammesso che i suoi alleati padronali lo consentono, intervenire in modo efficace ed equo, cosa che dubitiamo avvenga.
Le riforme avvenute negli anni novanta, sulla spinta della lotta all'indebitamento pubblico, meriterebbero di essere analizzate con calma e obiettività. Proprio allora inizia il percorso di sostanziale riduzione delle tasse per i capitali e i redditi elevati con misure diverse da paese a paese ma tutte rispondenti ai medesimi criteri e obiettivi.
Nel 1972 avevamo 32 scaglioni Irpef oscillanti dal 10% al 72%. Gli scaglioni in tutti i paesi a capitalismo avanzato sono stati ridotti ai minimi termini e oggi il Governo Meloni intende procedere sulla stessa strada. Fu proprio il Governo Craxi, e in anni recenti quello Renzi, ad adoperarsi per la riduzione degli scaglioni e allora come oggi il mantra della riduzione delle tasse ebbe il plauso delle organizzazioni sindacali rappresentative.
Anche grazie a quel plauso è stato possibile di costruire una società con disuguaglianze accentuate oltre a favorire i processi di privatizzazione e la svendita del patrimonio pubblico, riflettere sul recente passato dovrebbe indurre oggi a una inversione di rotta consci dei danni sociali provocati.