Perché, in certi ambienti della sinistra che fu, si continua a parlare della lotta alle disuguaglianze? Intanto, per mantenere un legame culturale (ideologico sarebbe troppo!) con le istanze che attraversarono le lotte sindacali, sociali e politiche del secolo scorso, poi per motivi pratici, come la ricerca di un’identità distintiva indispensabile anche a fini elettorali.
ll renzismo ha sancito la sconfitta definitiva di un centrosinistra senza identità e prospettiva, centrosinistra unitosi poi, ancora una volta in funzione elettorale, nella lotta ai sovranismi e in linea con i dettami europei.
Attribuire a Renzi la responsabilità della crescita delle disuguaglianze sarebbe eccessivo dacché l’ascensore sociale è fermo da almeno 30 anni, certo è però che il suo esecutivo è stato determinante per abbattere tutele individuali e collettive della forza lavoro. Al contempo anche gli altri componenti del centrosinistra non hanno alcun interesse a cambiare legislazioni e norme sfavorevoli per la forza lavoro, sia da esempio il ripristino dei licenziamenti collettivi con tanto di firma sindacale.
Qualche anno fa (P. Cicalese, Piano contro mercato. Per un salario di classe, 2020), correva l’anno 2016, entrarono in crisi le banche locali che avevano trainato l’economia dei distretti, la crisi era soprattutto causata dalla scarsa domanda a sua volta determinata nel corso del tempo dalle manovre finanziarie legate al contenimento della spesa e del debito.
La crisi delle banche locali non è addebitabile solo a errori di manager o a prestiti azzardati a debitori insolventi, bensì esistono ragioni profonde, per esempio le delocalizzazioni produttive in aree del mondo dove il costo della manodopera è basso e norme/tutele salariali e ambientali ai minimi termini, il cambio di proprietari (magari con l’arrivo di qualche fondo di investimento che privilegia le speculazioni in Borsa rispetto alla produzione e tende a delocalizzare le produzioni più di quanto abbiano fatto gli imprenditori italiani nell’Est europeo fin dagli anni Novanta del secolo scorso), la trasformazione del debito bancario in capitale aziendale, l’arrivo di acquirenti esteri o l’imprenditore locale che impegna il patrimonio familiare per salvare l'azienda. Situazioni profondamente diverse tra loro a conferma che il modello dei distretti è stato attraversato da una crisi/ristrutturazione profonda e la sua crisi si è tirata dietro anche gli istituti di credito locali (o viceversa).
I continui cambi degli equilibri economici hanno determinato scenari in continuo cambiamento, anche la stessa narrazione sulla crisi “a sinistra” è stata parziale e fin troppo ricca di omissioni; intellettuali e scrittori “di sinistra” hanno provato a ricostruire la vecchia identità perduta, quella dell’operaio, guardando essenzialmente al passato e non al presente (eccetto quanti, dal lavoro autonomo di seconda generazione in poi, hanno intrapreso la battaglia del reddito analizzando i nuovi modelli di precarietà che esprimono conflittualità diverse e non riconducibili solo al conflitto tra capitale e lavoro), salvo poi caricare di aspettative la lotta intrapresa dal collettivo di Gkn che presto dovrà guardarsi dal morboso interesse di alcuni solidali (a parole).
La debolezza dell’Italia nello scacchiere europeo inizia dagli anni Settanta: da allora la Germania aveva in mente di ridurre il nostro paese a una nazione deindustrializzata (o comunque subalterna). La decisione della Ue, fin dall’inizio del nuovo secolo, di imporre regole stringenti alle banche nazionali per limitarne il possesso dei titoli di Stato ha avuto un impatto negativo sulla nostra economia.
I profondi cambiamenti della società italiana sono rimasti oggetti misteriosi, non studiati e men che mai compresi, mentre il mondo politico e sindacale faceva a gara per presentarsi credibile agli occhi dell’Europa, si faceva strada una sorta di euroscetticismo di matrice aziendale, l’impresario mal tollerava le regole imposte dalla comunità europea (tacendo tuttavia sui finanziamenti comunitari), il padrone chiedeva allo Stato italiano di adottare politiche per il rilancio della domanda ricevendo solo risposte negative per le regole europee e il fiscal compact.
A metà dello scorso decennio si consuma una frattura tra parte del mondo imprenditoriale e classe politica che tuttavia interviene per salvare dal crack il sistema bancario da cui sarebbe scaturita anche la crisi dei distretti.
E negli stessi anni qualcuno, a sinistra, scommise sulla deflazione salariale e sulla svalorizzazione del lavoro pensando di trarne effetti positivi in termini economici e di prestigio politico (l’accreditamento nei salotti che contano della Ue e non solo), scommessa tanto azzardata e fallimentare come dimostra la perdita di competitività del nostro paese a causa delle troppe precarietà del lavoro.
Senza queste premesse il dibattito in corso sulla disuguaglianza rischia di essere accademico e del tutto svincolato dalle scelte politiche.
Urge occuparsi allora non solo del fisco, in un’ottica ben diversa da quella assunta dal governo Draghi, delle pensioni, dei meccanismi di recupero del potere di acquisto perduto; un’analisi seria dovrebbe investire anche il mondo della produzione. Al contrario ci si occupa, astrattamente, di meccanismi distributivi per attuare i quali c’è bisogno di rapporti di forza che oggi la classe lavoratrice non possiede. Sarebbe di vitale importanza indagare le cause profonde della crisi dalla quale scaturisce la crescita delle disuguaglianze ma ormai la sinistra che fu è più attenta ai diritti civili che a quelli sociali dimenticando come la democrazia economica funga da traino anche per processi di civiltà e per la stessa acquisizione/estensione dei diritti.
Per decenni nei paesi a capitalismo avanzato le classi dominanti hanno investito nella narrazione mainstream della crisi, costruito dal nulla giornali e apparati mediatici, fondazioni e centri di ricerca finanziati dal potere economico e finanziario che hanno elargito fondi ed energie intellettuali nello sgretolamento della cultura egualitaria. E da qui è iniziata un’offensiva politica, culturale e ideologica contro la classe lavoratrice e i corpi intermedi che a loro volta hanno subito la fascinazione dell’Ue e del mercato.
Negli ultimi tre anni la diminuzione dell’aspettativa di vita e le crescenti disuguaglianze, derivanti non solo dalla pandemia ma da cause sistemiche profonde, rappresentano sia un vulnus per la democrazia sia un ostacolo per i profitti e per la costruzione di una società moderna e funzionale ai nuovi equilibri economici e strategici; da qui l’urgenza di ricostruire un modello di welfare e un sistema di regole non solo ancorato al contenimento della spesa.
Una delle risposte comunitarie più gettonate è rappresentata dal neokeynesimo di guerra che ritroviamo dentro la Bussola difesa e il riarmo europeo. A tal riguardo rinviamo agli Obiettivi del documento europeo all’indomani dello scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina:
“Miriamo ad approfondire la nostra cooperazione con i partner e ad adattare ulteriormente i nostri pacchetti di partenariato. Manterremo e approfondiremo i nostri dialoghi in materia di sicurezza e difesa, la conoscenza situazionale comune e le formazioni ed esercitazioni congiunte. Collaboreremo con i partner per contrastare le minacce ibride, la disinformazione e gli attacchi informatici. Il nostro approccio risponderà anche alle esigenze dei partner in termini di sviluppo delle capacità e sostegno.
Livello multilaterale
- A partire dal 2022, sulla base delle dichiarazioni congiunte, rafforzeremo, approfondiremo e amplieremo ulteriormente il nostro partenariato strategico, il nostro dialogo politico e la nostra cooperazione con la Nato in tutti i settori di interazione concordati, compresi nuovi filoni di lavoro chiave quali la resilienza, le tecnologie emergenti di rottura, il clima e la difesa e lo spazio extra-atmosferico.
- A partire dal 2022 attueremo il nuovo insieme comune di priorità per la cooperazione UeOnu (2022-2024): in particolare condurremo analisi delle prospettive e previsioni strategiche congiunte nonché analisi congiunte dei conflitti attente alle problematiche di genere, oltre a migliorare ulteriormente il nostro coordinamento e la nostra cooperazione a livello politico e operativo, come pure lo scambio di informazioni, anche fornendo immagini satellitari tramite il Centro satellitare dell’Ue.
- Nel 2022 terremo a Bruxelles il primo forum biennale di partenariato in materia di sicurezza e difesa, che riunirà partner multilaterali, regionali e bilaterali su invito dell’alto rappresentante.
Livello regionale
- A partire dal 2022 approfondiremo il dialogo politico e rafforzeremo la cooperazione con l’Osce, l’Unione africana e l’Asean in settori quali la prevenzione dei conflitti, la conoscenza situazionale comune e la resilienza. Inoltre: cercheremo di elaborare con l’Osce una tabella di marcia comune dedicata in materia di prevenzione dei conflitti e gestione delle crisi che contenga azioni regionali e tematiche concrete; o rinnoveremo e potenzieremo la nostra cooperazione con l'Unione africana, in linea con il vertice Ue-Ua del febbraio 2022. Approfondiremo in particolare il nostro sostegno a favore di formazioni, sviluppo di capacità e attrezzature adeguate, del rafforzamento e dell'ampliamento delle operazioni di pace autonome a guida africana, anche attraverso missioni e misure di assistenza dell’Ue, nonché dello sviluppo di capacità in materia di contrasto. Punteremo a effettuare visite congiunte sul campo con l’Unione africana e a realizzare un più stretto coordinamento a livello di pianificazione e condotta operative; intensificheremo anche la cooperazione trilaterale Ue-Ua-Onu.”
Se non guardiamo ai prossimi scenari europei e mondiali difficilmente sarà possibile analizzare la direzione intrapresa dal capitalismo Ue, dalla Nato e dagli Usa, e l’incomprensione della realtà avrà effetti nefasti per le stesse rivendicazioni nazionali e per la lotta alle disuguaglianze.
Ben vengano i dibattiti attorno alla salute e al sistema sanitario nazionale, ma da questa crisi l’Ue non pensa di uscire con investimenti sociali ma piuttosto con il rilancio, come avvenuto negli Usa, della spesa militare.
Quindi, ogni valutazione anche sul sistema scolastico dovrà tenere conto di questi fatti (per esempio la presenza dell’industria bellica nelle università o la riforma degli istituti tecnici secondo i desiderata delle imprese) perché si andrà a investire in modelli formativi funzionali alla svolta che l’Ue sta per intraprendere. Lo stesso dibattito sulle cause della disuguaglianza , senza queste premesse, rischia di essere accademico o rivolto solo al passato, oppure a concertare qualche meccanismo distributivo di indubbio impatto.
La svolta strategica Ue, sintetizzata nella Bussola europea, avrà effetti diretti sul sistema economico e politico, non determinerà cambiamenti dei rapporti di forza, il libero mercato e la libera circolazione dei capitali avrà nuovo impulso e magari la sinistra acquisirà posizioni liberal per rimuovere barriere che potrebbero rivelarsi dannose per gli interessi capitalistici. Di quali barriere stiamo parlando? Di quelle norme che hanno limitato la libera circolazione dei capitali che invocano spazi di agibilità e di manovra ancora maggiori. Ed è proprio la libertà dei capitali la causa primaria delle disuguaglianze.