“Molti americani stanno facendo soldi extra affittando una piccola stanza, progettando siti web, vendendo prodotti che si progettano a casa o anche guidando la propria auto. Questa cosiddetta economia del lavoretto sta creando un’economia stimolante e sta scatenando l'innovazione. Ma sta anche sollevando serie domande circa le protezioni del posto di lavoro e quale sarà un buon lavoro in futuro”. Così parlava Hillary Rodham Clinton nel luglio 2015. Considerazioni e domande che non possono essere lasciate agli ideologi della classe dominante se vogliamo evitare di commettere sempre gli stessi errori.
Come visto nel primo articolo, infatti, sotto i nuovi vestiti cyber-fisici indossati dai moderni padroni troviamo il caro vecchio capitalismo. Con la ristrutturazione in atto molte mansioni, anche complesse, che oggi vengono svolte dagli esseri umani, domani saranno svolte da qualche super-computer con risultati estremamente migliori. Ma a farne le spese non saranno soltanto i lavori meramente esecutivi e manuali, quelli generalmente meno complessi dal punto di vista cognitivo. Al contrario, assisteremo alla dequalificazione massiccia anche di attività che oggi richiedono lavoratori qualificati e preparati, con conseguente svalorizzazione di molti tipi di forza-lavoro. Sempre più capitale, dunque, considerato sia nella sua fisicità che per il suo valore, sarà movimentabile da sempre meno addetti, con conseguente risparmio di manodopera. Ma come ribadito più volte su questo giornale, ciò non ci pone di fronte ad alcuna fine del lavoro. Al contrario, per dirla con Marx, col capitalismo “le macchine allargano fin dal principio anche il grado di sfruttamento, assieme al materiale umano da sfruttamento che è il più proprio campo di sfruttamento del capitale” col risultato di produrre - “in parte con la assunzione al capitale di strati di lavoratori in passato inaccessibili, in parte con il disimpegno degli operai soppiantati dalla macchina - una popolazione operaia sovrabbondante, la quale è costretta a lasciarsi dettar legge dal capitale”. Sempre più persone, infatti, in ragione del combinato disposto tra l’aumentata flessibilità del capitale fisso (a seguito dell’estensione delle applicazioni dell’elettronica) ed il perdurare della crisi, saranno chiamate a lavorare su basi estremamente flessibili e precarie, e quindi anche il salario sarà sempre più discontinuo e sempre meno legato agli orari e sempre più ai rendimenti, individuali e misurati dal successo del gruppo e dell’azienda cui si appartiene. Sempre più persone, infine, saranno costrette ad arrabattarsi per mettere insieme il pranzo con la cena.
Negli USA si usa definire questa (non) nuova configurazione del rapporto di dipendenza con il termine di economia del lavoretto, la cosiddetta gig economy [pronuncia “ghig”]. Ma a parte il fascino nostrano per gli anglicismi che sovente si accompagna all’acritica fascinazione per le nuove tecnologie e all’ignoranza della storia (condizioni funzionali all’egemonia imperialistica), l’economia del lavoretto altro non è che il risultato della dequalificazione e polverizzazione di numerosi posti di lavoro che accompagna la ristrutturazione tecnologica. In luogo di un posto fisso, per gli espulsi o per gli aspiranti dipendenti, tanti piccoli lavoretti precari. Immaginando la classe come fatta di cerchi concentrici al cui centro ci sono i lavori più garantiti e ben pagati e alla periferia quelli precari e sottopagati, possiamo immaginare il processo al quale assistiamo come la costante restrizione del nucleo centrale dei lavoratori garantiti sul quale va a pressare, limitandone le rivendicazioni, in maniera sempre più pesante una fascia di milioni di precari che svolgono i più svariati lavoretti.
Che questi impieghi siano il frutto dell’innovazione tecnologica non ce lo dicono solo i nomi delle grandi aziende che ci lucrano sopra - Uber, Foodora, Helping ma anche, seppur in modo diverso, di Airbnb, Fiverr e Blablacar - ma la stessa teoria economica. “Tutto il sistema della produzione capitalistica poggia sul fatto che l’operaio vende la sua forza-lavoro come merce. La divisione del lavoro rende unilaterale questa forza-lavoro, facendone una abilità del tutto particolarizzata di maneggiare uno strumento parziale. Appena il maneggio dello strumento è affidato alla macchina, si estingue il valore d’uso e con esso il valore di scambio della forza-lavoro. L’operaio diventa invendibile, come certo denaro fuori corso. Quella parte della classe operaia che viene così trasformata dalle macchine in popolazione superflua, cioè non più immediatamente necessaria per la autovalorizzazione del capitale, per una parte soccombe nella lotta ineguale della vecchia industria di tipo artigianale e manifatturiero contro l’industria meccanica, per l’altra inonda tutti i rami dell’industria più facilmente accessibili, fa traboccare il mercato del lavoro e fa scendere quindi il prezzo della forza-lavoro al di sotto del suo valore. Storpiati dalla divisione del lavoro, questi poveri diavoli valgono così poco fuori della loro vecchia sfera di lavoro che trovano accesso soltanto in alcune poche branche di lavoro, basse e quindi costantemente sovraccariche e sottopagate”.
Insomma una fascia crescente di sovrappopolazione relativa, presente in tutte le sue possibili sfumature di precarietà, costretta a svendere la propria forza-lavoro a prezzo stracciato facendo mille lavoretti che sommati tra di loro consentono a malapena di sopravvivere. Al contempo, in altre aree del mondo, dove le condizioni sono più favorevoli alla produzione viene assorbita forza-lavoro.
Se da un lato lo sviluppo delle forze produttive consente il movimento di una più ampia massa di mezzi di produzione a parità di operai impiegati dall’altro il processo di accumulazione può risolversi in un crescente assorbimento di forza-lavoro in nuovi cicli produttivi nella misura in cui il capitale si accumula. “Nonostante la massa di operai di fatto soppiantata e virtualmente sostituita dalle macchine, alla fine gli operai di fabbrica, col crescere delle macchine stesse possano essere più numerosi degli operai manifatturieri o artigiani da essi soppiantati”. Tale assorbimento, tuttavia, avviene ad un tasso minore del precedente a causa dell’aumentata composizione organica del capitale (il rapporto capitale/lavoro in termini statistico-borghesi) e, in assenza di conflitto di classe, tale assorbimento avviene ad un livello inferiore di garanzie e di salario proprio perché contemporaneamente va crescendo l’esercito di precari. La variazione della composizione organica del capitale, tuttavia, “è interrotta in modo altrettantocostante da momenti di riposo e dall’espansione puramente quantitativa su base tecnica data. Con questa espansione cresce il numero degli operai occupati. L’aumento del numero degli operai di fabbrica, infatti, ha la sua condizione nell’aumento, proporzionalmente molto più rapido, dei capitale complessivo investito nelle fabbriche. Ma questo processo si compie soltanto entro i periodi di flusso e riflusso del ciclo industriale. Inoltre viene sempre interrotto dal progresso tecnico che ora sostituisce virtualmente, ora soppianta di fatto gli operai. Questa variazione qualitativa nell’industria meccanica allontana continuamente operai dalla fabbrica, oppure ne chiude la porta alla fiumana delle nuove reclute, mentre l’espansione puramente quantitativa delle fabbriche inghiotte contingenti freschi oltre quelli gettati fuori. Così gli operai vengono continuamente respinti e continuamente attratti, vengono gettati continuamente da una parte e dall’altra, e questo avviene in una costante variazione di sesso, età e abilità di quelli che vengono arruolati.”
Il colpevole di tutto questo, giova ribadirlo, non è il robot in quanto tale, ma il meccanismo che sottende alla sua proprietà ed al suo utilizzo (cioè il modo di produzione capitalistico). Quello che in un mondo razionale (alias comunista) dovrebbe favorire la riduzione del tempo che le persone dedicano al lavoro in favore del tempo dedicato ad altro, qui condanna milioni di persone ad entrare a far parte di quel serbatoio di forza-lavoro da congelare e tenere pronto per l’evenienza, e milioni di altre a ritmi lavorativi ancora più serrati e con sempre meno diritti. Questo movimento, a vasi comunicanti, è sotto i nostri occhi. In alcune aree dell’occidente è la disoccupazione e la sotto e mala occupazione il processo dominante prodotto della crisi di accumulazione, dello sviluppo tecnologico, della dislocazione industriale e della riconversione industria/servizi; nell’oriente guidato dalla Cina, invece avviene l’opposto: il capitale assorbe manodopera nell’industria consentendo a tutt’oggi una crescita assoluta dell’occupazione globale anche se non ai livelli precedenti il 2008.
Tuttavia, non bisogna aver paura della tecnologia: essa contiene in nuce la possibilità di automatizzare ancora più attività di quanto già non faccia e di alleggerirci dai lavori usuranti spingendo l’intera umanità verso il progresso umano e ambientale. Per ottenere tale risultato è però necessario liberare lo sviluppo delle forze produttive dai limiti posti dal capitale. Malgrado l’impetuosità dello sviluppo tecnologico, infatti, non tutto il lavoro che si potrebbe sostituire con le macchine viene effettivamente rimpiazzato. In prima approssimazione potrebbe sembrare che il motivo del ritardo nella messa in commercio delle nuove tecnologie sia da imputare ai costi e non ai rapporti sociali. Nel capitalismo, però, le invenzioni non si concretizzano soltanto sotto forma di mezzi di sussistenza per consumatori bulimici ma soprattutto sotto forma di mezzi di produzione per diminuire i prezzi delle merci che con esse vengono prodotte. Pertanto, “considerata la macchina esclusivamente mezzo per ridurre più a buon mercato il prodotto, il limite dell’uso delle macchine è dato dal fatto che la loro produzione costi meno lavoro di quanto il loro uso ne sostituisca. Ma per il capitale questo limite trova un’espressione ancora più ristretta. Poiché il capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza-lavoro usata, per esso l’uso delle macchine è limitato dalla differenza fra il valore della macchina e il valore della forza-lavoro da essa sostituita. E poiché la suddivisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro è differente a seconda dei paesi, ed è anche differente nello stesso paese in periodi differenti o durante lo stesso periodo in differenti rami d’industria, poiché inoltre il salario reale dell’operaio ora scende al di sotto ora sale al di sopra del valore della sua forza-lavoro, la differenza fra il prezzo delle macchine e il prezzo della forza-lavoro che da esse deve essere sostituita può variare molto, anche identica rimanendo la differenza fra la quantità di lavoro necessaria per la produzione della macchina, e la quantità complessiva del lavoro da essa sostituito. Però, per il capitalista stesso, è solo la prima differenza quella che determina i costi di produzione della merce, e che influisce su di lui mediante le leggi coercitive della concorrenza. Nei paesi di più antico sviluppo la macchina stessa produce, per il suo uso in alcune branche d’industria, tale sovrabbondanza di lavoro in altre branche che la caduta dei salario al disotto del valore della forza-lavoro impedisce l’uso delle macchine, e lo rende superfluo e spesso impossibile dal punto di vista del capitale, il guadagno del quale proviene di per sè dalla diminuzione non del lavoro adoprato ma da quella del lavoro pagato”. Quindi, aggiunge il Moro in un’apposita nota a scanso di equivoci, “in una società comunista le macchine avrebbero ben più largo campo d’azione che non nella società borghese”. [1]
[1] Le citazioni apparse in questo articolo sono tratte da K. Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. 13