I vari contributi che si sono avvicendati ne “La Città Futura” hanno, come filo conduttore, una questione di fondo che ritengo centrale e cioè la collocazione del tema sulla riduzione dell’orario di lavoro, dentro un più ampio contesto sistemico. Tale esigenza predispone ad un metodo di analisi in controtendenza a quello che sovente viene proposto dai più, teso sempre ad una parcellizzazione del problema costantemente disgiunto dallo scenario generale. Questo scenario è dominato da un Capitalismo che ha mutato il proprio paradigma di intervento, materializzando il suo dominio non più imposto dall’alto, mediante lo Stato e la politica, ma trasmesso dal basso. Un dominio che avvolge la sfera soggettiva dell’attore sociale ridefinendo la sua intimità, la sua identità, le sue relazioni sociali, in una parola, la sua esistenza. La dimensione collettiva (ovvero l’essere sociale del soggetto) che marxianamente determina la sua essenza, cede il testimone al trionfo della dimensione individuale, monadica, separata da ogni elemento di autentica condivisione comunitaria. Questo è senz’altro il prodotto di un nuovo concetto di potere capitalistico che non si serve più dello Stato e della politica, i quali, essendo espressione della comunità, abbandonano quest’ultima rendendola orfana dello strumento di risoluzione delle piccole e grandi questioni sociali che nel Novecento ha garantito ciò che i Greci chiamavano Agorà, ovvero quel ponte tra particolare e generale, strumento di collegamento tra individuo, collettività e potere. Quest’ultimo non agendo più attraverso i Partiti (cioè i rappresentanti della comunità ormai defunta), si colloca in una sorta di metafisica nebulosa rappresentata dai mercati finanziari che acutamente il sociologo Luciano Gallino definiva “troppo grandi per fallire (o per essere salvati)”. Il ragionamento sulla riduzione dell’orario di lavoro si dirama attraverso questa articolata ragnatela e ha a che fare con tre concetti: l’uomo, il suo tempo ed il suo senso.
Partiamo da quest’ultimo: per il sociologo Niklas Luhmann il senso è definibile come “mantenimento e riduzione della complessità” ed una società riesce a riprodursi non solo (come riteneva Pareto) riproducendo i ruoli degli attori sociali, ma anche il loro significato. Questo è un problema di non poco conto. I ruoli (e quindi l’appartenenza di classe) non sono mai distintivi una volta per tutte, del profilo identitario dell’uomo post moderno che in questa epoca contemporanea, assume una molteplicità di ruoli spesso disconnessi e temporalmente delimitati a tal punto da essere contraddistinto da un’identità che non è più un processo cumulativo ma semplicemente una cassetta degli attrezzi. Attrezzi monouso e tra loro disgiunti. Con l’intercambiabilità dei ruoli (imposta dal nuovo mercato del lavoro) è difficile sia mantenere, sia ridurre la complessità. Per cui l’attore sociale si ritrova immerso in una babele esistenziale circondato non da una società ma da singoli individui che condividono solo un indefinibile caos. L’uomo (altro punto di analisi) non è più quello senza qualità (descritto da R. Musil) dedito alla catena di montaggio a vita con un solo sentiero tracciato, privo di disorientanti novità, ma diventa un uomo modulare (come lo definisce il pensatore E. Gellner) con tante qualità mutevoli e monouso. La prima di queste qualità è adattarsi ad una molteplicità di cambiamenti. Prima di morire difficilmente quest’uomo saprà definire cosa è stato nella sua esistenza. Complice è il tempo, anch’esso succube della gestione dal basso da parte del Capitalismo post moderno. Come acutamente scriveva Carmine Tomeo, Valentino Parlato suggeriva di ampliare il tempo del non lavoro (dentro la questione della riduzione dell’orario di lavoro), per ampliare i consumi. In altre parole, lavorate di meno ma quel tempo che rimane passatelo dentro l’ipermercato. Se eliminiamo lo status di “auspicio/proposta” di questo concetto e lo collochiamo sul versante critico/analitico, non potremmo non constatare che è proprio questo che il sistema desidera e che impone. Allora l’uomo modulare, al di fuori del suo ruolo lavorativo, coltiva (potenziandoli) questi moduli, attraverso il canale del consumo cioè collocando la sua sfera intima e privata sempre dentro un circuito lavorativo rappresentato dalla fase finale del suo lavoro, ovvero il prodotto. La domanda che mi pongo è questa: pur volendo coltivare la propria vita extra lavorativa fuori dall’ipermercato, cosa troverebbe l’uomo post moderno? Troverebbe un arido deserto. La comunità (di classe, amicale, familiare, sentimentale) di un tempo è svanita. Per cui rischia di percepire uno stato di comunanza nelle sole pratiche che il sistema ha “naturalizzato” e cioè il lavoro e il consumo. La coltivazione del sé (concetto con il quale molti filosofi definiscono il termine “cultura”) risulta essere, dunque, incanalata dentro un vortice di produttività capitalistica, tale per cui la riduzione dell’orario di lavoro in realtà, fattivamente non esiste. Esisterebbe nel caso in cui l’attore sociale, nel suo tempo libero, coltivasse qualsiasi cosa al di fuori del sistema produttivo (sia esso materiale o immateriale).
Questa coltivazione capitalisticamente endogena al sistema, apre un’ulteriore riflessione sulla natura della proprietà privata (anch’essa fortemente “post- modernizzata”). Sulle macerie del feudalesimo e sulla vittoria della borghesia, la proprietà privata è stata concepita come il luogo (fisico, culturale e spirituale) della realizzazione dell’uomo, del senso della sua esistenza. Secondo questo concetto il tempo al di fuori dell’orario di lavoro potrebbe essere classicamente inteso come il luogo per coltivare la proprietà privata. Il filosofo Claudio Tuozzolo, direttore della “Rivista critica”, ci invita a considerare che la formula DMD (denaro, merce, denaro) si è oggi trasformata in DDD (denaro, denaro, denaro); in altre parole la merce prodotta dall’acquisto è il denaro stesso. Come dargli torto? I grandi mercati finanziari acquistano industrie in fallimento e al posto di rilanciarle rafforzando ricerca, forza lavoro, restituendo alla comunità un tessuto sociale economicamente “efficiente” (almeno secondo i criteri del capitalismo industriale), spezzetta la fabbrica acquistata, vendendo ogni frammento allo stesso costo di acquisto dell’intero fabbricato e producendo una speculazione nel mercato finanziario che non fa altro che produrre denaro. La merce è sostanzialmente scomparsa e con essa scompare lentamente e inesorabilmente la proprietà privata. Non è chiaramente un superamento della proprietà in modo socialista, ma un’altra forma che lo stesso Marx in modo più o meno velato aveva esso stesso previsto in caso di trionfo del sistema capitalista. Ecco, allora, che il tempo extra lavorativo è dentro un circuito sociale capitalisticamente circolare e autopoietico rafforzato dal trionfo della dimensione individuale (a discapito di quella collettiva), la quale, al tempo stesso, risulta privata di spessore autenticamente individuale, privata di qualsivoglia significato non rientri più o meno direttamente in una logica di sfruttamento e di mortificazione della dignità umana. Se chi detiene il potere è dentro un immateriale luogo che chiamiamo ”mercati finanziari”, significa che dobbiamo, sincreticamente, osservare almeno uno dei suoi protagonisti. Prendiamo ad esempio la Goldman Sacs. Era composta da 1984 soggetti finanziari. Un colosso incontrollabile dal suo stesso creatore (ovvero l’uomo) e che pericolosamente retroagisce determinando la sua esistenza. E se chi governa i processi sociali non è controllabile/ modificabile da chi subisce tale governo, il risultato è che ogni sfera vernacolare (e quindi ciascun individuo) perde qualsiasi significato e predomina l’idea dell’inutilità di dedicarsi al cambiamento delle proprie condizioni di vita perché il luogo del potere è un “non – luogo” e quindi irraggiungibile. Da dove partire allora? Dal mio punto di vista va ribadito un concetto e cioè che ogni cosa che ci circonda è frutto dell’invenzione umana ed essendo tale gli uomini stessi hanno la possibilità di cambiare, trasformare, sovvertire. Ecco allora che la riduzione dell’orario di lavoro può mettere i lavoratori nelle condizioni di dedicarsi alla modifica delle opzioni sistemiche, ma solo nel momento in cui si riuscirà a far passare l’idea che il Capitalismo non è naturale come la montagna, il mare o il cielo e che è possibile superarlo.