C'è ancora chi lotta contro il modello Marchionne

Il modello Marchionne, con il sostegno politico degli ultimi governi, sta facendo scuola in tutto il paese.


C'è ancora chi lotta contro il modello Marchionne

Il modello Marchionne, con il sostegno politico degli ultimi governi, sta facendo scuola in tutto il paese. Per questo fu importantissimo scendere in piazza contro di esso nel 2010, facendo convergere le mobilitazioni degli studenti con quelle degli operai. Altrettanto importante è sostenere chi contro questo modello si batte ancora, come gli operai della Sevel di Atessa, di Melfi e Termoli con scioperi sempre più efficaci contro uno degli istituti più odiosi dell'accordo di Pomigliano: lo straordinario obbligatorio del sabato.

di Clash City Workers

Ci ricordiamo bene la storia dello stabilimento Fiat di Pomigliano d'Arco. Era il 2010 quando sugli operai calava l’infame ricatto aziendale: o avrebbero accettato gli ennesimi sacrifici oppure la dirigenza avrebbe spostato lo stabilimento in Polonia.

Quante storie analoghe avevamo già sentito? D'altronde questo nascondono le facili chiacchiere sulla “globalizzazione”: dietro gli anonimi flussi di capitali finanziari o produttivi alla forsennata ricerca del massimo profitto ci sono capitalisti e governi che mettono deliberatamente in concorrenza i lavoratori per poter sfruttare manodopera estera a basso costo o abbassarne il costo in patria.

A differenza di tanti altri, l'episodio che si stava consumando a Pomigliano però ruppe il muro del silenzio mediatico e impressionò l'opinione pubblica, come se racchiudesse e sintetizzasse tutti gli altri. Lo sguardo freddo e cinico dell'amministratore delegato Marchionne era l'emblema dei calcoli spietati dei suoi pari e sembrava annunciare una svolta. La prima grande vertenza, da quando era scoppiata la più grande crisi economia del dopoguerra, si consumava nell'azienda-simbolo del nostro Paese segnando un passaggio al “dopo Cristo”, come Marchionne definiva paradossalmente il ritorno a un passato precedente alle conquiste dei diritti dei lavoratori. E si abbatteva su uno stabilimento combattivo in cui gli operai erano riusciti a strappare alcune conquiste, che poi nei toni razzisti dei media diventavano privilegi di un territorio di “fannulloni”.

Un voto con la pistola puntata alla tempia ratificò il ricatto aziendale: il 62% dei dipendenti (operai, impiegati e quadri) cedevano al ricatto votando SI al referendum che si svolse a Giugno. Una percentuale ben più bassa di quella sperata dall'azienda e a cui faceva fronte il voto negativo del 40% dei soli operai, un gruppo molto più numeroso degli iscritti alla Fiom e allo Slai-Cobas, gli unici a dare indicazioni di voto contrario.

A essere attaccate non erano però solo le condizioni di lavoro: l'azienda provava a ridefinire lo stesso ruolo dei sindacati. Nell'accordo infatti si introduceva una clausola che avrebbe punito chiunque avesse messo in campo azioni che ostacolassero l'accordo approvato, anche chi fosse stato in disaccordo con esso. Anche uno sciopero diventava così perseguibile. E non bastava, quanto accaduto a Pomigliano doveva essere subito esteso a tutti gli stabilimenti. Per farlo Fiat formava allora una newco, l’FCA, uscendo così dal contratto collettivo dei metalmeccanici con un'enorme forzatura che aggrediva alla radice le relazioni industriali. All'azienda non bastava il contratto nazionale separato, quello che aveva visto l'opposizione della FIOM e che era quindi privo della firma del principale sindacato dei metalmeccanici, ne voleva uno tutto suo per poter imporre condizioni di lavoro ancora peggiori.

Questo in essenza il modello Marchionne: le imposizioni padronali una volta accettate non possono essere messe in discussione. E come già all'epoca si diceva e come si era già visto nella storia di questo Paese, la Fiat sarebbe stata solo l’inizio, la testa d’ariete di tutta la classe imprenditoriale del paese. Così è stato: dalla serie di accordi sulla rappresentanza sindacale firmati da CGIL-CISL-UIL e Confindustria, alle recenti discussioni sulla riforma contrattuale e sulla limitazione del diritto di sciopero, fino alle indicazioni sulla contrattazione sindacale del DEF 2016 per una “riforma volta a garantire la pace sindacale in costanza di contratto”, l'eccezione Pomigliano sta diventa norma, il modello Marchionne la realtà.

Intanto la battaglia contro il sindacato la FIAT continuava a svolgerla in casa. Dal trasferimento nel reparto-confino di Nola con conseguente cassa integrazione per i lavoratori dello Slai-Cobas (due dei quali si sono poi suicidati!) all'allontanamento degli iscritti FIOM nello stabilimento di Pomigliano, dal rifiuto di applicare la sentenza di reintegro di 3 lavoratori iscritti al sindacato in quello di Melfi fino alla mancata elargizione del premio di produzione per gli iscritti Fiom di Termoli, con motivi pretestuosi poi bocciati dalla magistratura. Questi sono solo alcuni esempi di una guerra continua, di intensità variabile, che ha fatto le sue tragiche vittime ed è stata portata avanti scientificamente dalla Fiat per creare un clima di terrore dentro le fabbriche.

Questo non è bastato però a frenare il malcontento. Perché intanto la nuova organizzazione del lavoro si faceva sentire sulla pelle degli operai. Come detto, con l'introduzione dell'Ergo-Uas l'azienda pretende di azzerare i tempi morti... che poi non son altro che i momenti di respiro. E dopo una settimana di turni massacranti ci sono pure gli straordinari obbligatori il Sabato. Una situazione insostenibile per gli operai, che infatti hanno cominciato a reagire. Negli stabilimenti del Sud, Termoli e Melfi comprese, nasceva così un anno fa un coordinamento di lavoratori di varie estrazioni sindacali, a partire soprattutto da un combattivo nucleo di delegati Fiom, con lo scopo principale di organizzare degli scioperi contro gli straordinari obbligatori. Scioperi difficilissimi, data il terrore che regna in fabbrica, ma che hanno intercettato un malcontento che montava sotterraneo. Passando nel giro di un anno da adesioni bassissime a percentuali di circa l'80% dei turnisti e costringendo l'azienda a tenere chiuso lo stabilimento di Termoli quasi tutti i Sabati negli ultimi due mesi!

La lotta prosegue. Ed è una lotta importantissima, che colpisce al cuore un modello che si sta estendendo in maniera apparentemente irresistibile a tutto il mondo del lavoro. E che invece le resistenze le trova, evidentemente. Che partano da una minoranza ristretta, che non riescano ancora a coinvolgere la maggioranza dei lavoratori interessati, poco importa. O meglio è importante perché ci dice che tanto ancora c'è da fare, da conquistare, da costruire. Ma non rappresenta un motivo per non mandarle avanti, come invece sembra pensare la dirigenza FIOM che non solo non le sta sostenendo, ma le sta addirittura ostacolando. Forse troppo presa dalla riabilitazione di Marchionne, ha sin dall'inizio fatto di tutto perché gli scioperi non ci fossero, dopodiché ha usato il pretesto del citato coordinamento tra lavoratori per dichiarare incompatibili con l'organizzazione i propri iscritti che vi avevano aderito, rei di aver scavalcato così le gerarchie interne.

Un'accusa non solo pretestuosa ma anche grave e sbagliata perché in questa fase piena di difficoltà e incertezze, in cui la confusione ci costringe a sperimentarci e ci potrebbe portare sorprese inaspettate, tentativi di coordinamento tra lavoratori in grado di promuovere e sostenere iniziative di lotta oltre le organizzazioni di appartenenza andrebbero preservati e promossi. La posizione scelta dalla dirigenza sembra segnare la fine della cosiddetta “anomalia FIOM” all'interno del quadro dei sindacati concertativi. Il suo ritorno nel quadro delle compatibilità confermato dall'allineamento alle posizioni di FILM e UILM nel rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici, il cui impianto è costruito sulla base di quelli precedenti che la FIOM rifiutò. E che è il primo contratto nazionale a contenere espressamente la famigerata clausola sull'esigibilità degli accordi firmati e le relativi sanzioni per chi li violasse di cui abbiamo parlato all'inizio e contro cui Landini, il segretario dell'organizzazione, si scagliò lungamente quando fu introdotto a Pomigliano.

E allora diventa fondamentale dare tutto il sostegno possibile alla lotta di questi coraggiosi operai, che si scontrano con uno dei padroni più potenti e spietati del Paese (nonché il meglio pagato!) e vengono ostacolati dalla loro stessa organizzazione sindacale. Ciò dimostra che non c'è bisogno di rivolgersi oltralpe per avere esempi di come il coraggio e la convinzione nel valore delle proprie ragioni possa portare, almeno, a dei piccoli cambiamenti e miglioramenti. Per quelli più grandi ci vuole costanza e organizzazione. E qui serviamo tutti noi.

10/06/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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