Sul presunto dovere di voto

La Costituzione non chiarisce se il voto è un obbligo del cittadino. In un sistema capitalista dove l’astensionismo è in crescita, l’unica risposta possibile rivoluzionaria è, ad oggi, il rifiuto del voto.


Sul presunto dovere di voto

Premessa della redazione

Come già avvenuto in altre occasioni abbiamo dato spazio su questo giornale anche a posizioni diverse da quella della redazione al fine di sviluppare il dibattito anche con validi compagni e compagne con i quali condividiamo tante altre cose. Anche  in questo caso, dunque diamo spazio ad una posizione differente, rimarcando però il fatto che alle prossime elezioni la redazione sostiene la lista per la Pace promossa da Santoro  e La Valle, ritenendo essenzialmente discutibile la posizione astensionista.

Testo:

Spesso l’esercizio del voto è presentato come un “diritto/dovere” del cittadino. Evidentemente, il solo limitarsi ad utilizzare i due termini - a seconda del caso, ponendo l’accento sull’uno o sull’altro - non aiuta a rappresentare compiutamente una questione che fu, in realtà, ampiamente dibattuta anche dai padri costituenti. Il confronto acceso sia all’interno delle Commissioni parlamentari sia nella stessa Assemblea Costituente, infatti, si concentrò proprio sull’opportunità o meno di dichiarare già in Costituzione l’esercizio del voto un obbligo del cittadino elettore ovvero esclusivamente una opzione di cui questo, e solo questo, può avvalersi. 

Sulla questione, nel tempo, si sono confrontati in tanti, compresa la Corte Costituzionale, senza mai pervenire ad una soluzione univoca e definitiva in merito al significato della tanto dibattuta espressione “dovere civico” inserita nell’art.48 della Carta Costituzionale. E’ obbligo o non lo è?

Non è semplice muoversi sul terreno di questo dibattito, tuttavia il tema continua a porsi e, anzi, diventa sempre più dirimente, anche alla luce dell’elevata percentuale di aventi diritto al voto che scelgono di non recarsi alle urne, nelle varie tornate elettorali così come alle consultazioni referendarie.

Vale la pena, dunque, porsi alcune domande e considerazioni.

Già in un precedente articolo approfittando delle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale della Basilicata del 21 e 22 aprile scorso, si è proposta una riflessione sul significato dell’astensionismo o meglio sul bisogno ad esso sotteso di rendere necessaria una revisione della forma e della struttura dello Stato, in tutte le sue ramificazioni. Stato inteso quale mezzo di produzione ad uso di una società di stampo capitalista. 

Tale revisione, si è detto, non è certo possibile attraverso un approccio di tipo riformatore che non minerebbe alla base né la struttura né la forma del modello di produzione capitalistico in cui lo Stato si spiega, rischiando al contrario di confermarlo. Ciò che serve, invece, è un approccio e un metodo di stampo rivoluzionario.

In questo senso, la questione dell’obbligatorietà o meno del voto non può che essere secondaria ad una preventiva appropriazione dei mezzi di produzione (compreso, appunto, lo Stato), da parte della classe più numerosa e rappresentativa della società: la classe lavoratrice. Solo allora sarà possibile chiedersi se il voto debba essere o meno obbligatorio, ammesso che tale strumento sia ancora necessario e che non si immagino, invece, altri mezzi attraverso cui garantire la piena e completa partecipazione di tutte e tutti alla vita sociale della propria comunità.

La questione, allora, diventerebbe piuttosto quale forma e quale struttura costruire affinché lo stesso concetto di classe sia definitivamente superato e ciascuno possa godere realmente degli stessi diritti e doveri degli altri.

Al contrario, continuare a confermare una disuguaglianza nella proprietà dei mezzi di produzione, dunque perseverare anche nel sostanziale mantenimento di una forma di Stato così come lo conosciamo, non può che rendere astratta e pleonastica, se non strumentale, qualunque presunta discussione intorno alla necessaria partecipazione attiva di tutti gli strati della società. Di più, un simile approccio, che vede nel riformismo la sintesi più avanzata e subdola, cela un intimo desiderio di suffragare proprio una composizione in strati della società stessa, per cui esiste e deve continuare ad esistere chi ha di più e chi meno o niente. Non sorprende, allora, che l’accento negli anni sia stato posto, già dal primo dopoguerra nei lavori della Costituente, non su quale fosse la forma migliore da dare allo Stato in funzione della classe lavoratrice, ma su quella confusione conservata in Costituzione, che è appunto il “dovere civile” di votare. Dovere neanche tanto avvertito dagli stessi difensori dell’obbligo di voto, già dal 1947 in poi, dal momento che tanto le prime blande sanzioni applicate raramente a chi disertava quanto le motivazioni che hanno portato all’abrogazione di norme che di obbligo parlavano, hanno sempre avuto il sapore più di un fatto filosofico o filosofeggiante intorno all’argomento, quando non somigliavano ad un facile pretesto per addossare su altri responsabilità che appartengono alla classe politica dirigente del Paese.

Da questo punto di vista, l’astensionismo, inteso come rifiuto, si configura al momento come l’unica risposta possibile, per quanto debolissima, fintanto che non si cominci ad operare affinché una forza antagonista possa nascere dalle stesse disuguaglianze prodotte da questo modello di società capitalistica.

17/05/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Lucia Pennesi

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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