Le spiagge in Italia tra concessioni scadute, proprietà pubblica e beni comuni

In Italia le concessioni balneari assegnate ai privati sono scadute. Il Governo prova a prendere tempo e non decide, mentre i giudici amministrativi ritengono illegittima ogni diversa soluzione che non sia una nuova gara. Un’idea potrebbe allora essere quella di considerare le spiagge beni comuni.


Le spiagge in Italia tra concessioni scadute, proprietà pubblica e beni comuni

Ci avviciniamo ogni giorno di più all’estate ed estate ci fa venire in mente l’idea di vacanze, sole, mare, spiagge… Ma proprio qui casca l’asino, perché le cose diventano complicate. L’estate che sta per cominciare vede infatti in corso un contrastato braccio di ferro tra il governo Meloni e i giudici amministrativi proprio sul tema delle concessioni balneari scadute ormai da tempo e difese strenuamente dal primo, perché ampio bacino di voti sicuri per i partiti di destra che lo compongono, ma considerate illegittime dai secondi, in quanto contrarie alla normativa europea. Di fronte a tutto questo potrebbero però alla fine per una volta tanto goderne proprio gli italiani, con la possibilità quest’anno di andare al mare gratis, in barba ai chilometri di costa nazionale da anni in mano ai privati titolari di oltre 12mila concessioni balneari, che fatturerebbero ben 10 miliardi di euro, pagando però allo Stato appena 100 milioni per oneri concessori, come ampiamente illustrato dalla stampa in questi giorni. 

Com’è noto, per effetto della c.d. direttiva Bolkestein (2006/123/CE), varata in ambito europeo con l’obiettivo di armonizzare i regimi normativi di accesso e di esercizio delle attività di servizi e l'eliminazione degli ostacoli alla libertà di iniziativa economica, in modo da sfruttare appieno il mercato unico europeo, tutte le concessioni balneari attive in Italia sono scadute il 31 dicembre 2023, senza possibilità di ulteriore proroga, e da allora avrebbero dovuto essere pubblicati i bandi di gara per un nuovo affidamento dei beni pubblici sul libero mercato, anche a favore di nuovi soggetti concessionari e a canone sicuramente più vantaggioso per lo Stato. Ma tutto questo non è ancora avvenuto, anche perché non piace agli attuali concessionari dei lidi. Il governo Draghi, con la legge sulla concorrenza del 2022, aveva previsto la possibilità di una proroga tecnica di un anno, quindi fino al 31 dicembre 2024, mentre il successivo governo Meloni ha ulteriormente spostato tale termine al 31 dicembre 2025, col suo primo decreto milleproroghe. Ma il Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, con una serie di sentenze successive ha sempre ritenuto inammissibili tali proroghe generalizzate e automatiche delle concessioni balneari introdotte dai vari governi italiani, proprio perché in contrasto con l’articolo 12 della direttiva Bolkestein e con il principio della libertà di stabilimento contenuto nell’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ancora, poiché le concessioni attuali rimangono efficaci sino alla data di rilascio delle nuove, ne deriva che – sempre secondo i giudici amministrativi - mantenere in piedi le odierne concessioni balneari senza termine di scadenza – come vorrebbe il governo in carica - realizzerebbe in concreto una situazione di fatto illegittima, perché in contrasto con i principi dell’Unione europea nella costante interpretazione datane dalla Corte di giustizia, rendendo peraltro le coste italiane sempre più difficilmente accessibili in modo libero e gratuito a tutti, anche ai soggetti meno abbienti, che non possono certamente permettersi di accedere a pagamento ai lidi privati. Infine, sempre il Consiglio di Stato ha sottolineato che una nuova proroga tecnica al 31 dicembre dell’anno in corso potrà essere ammessa solo per consentire il completamento delle procedure di gara in corso, invitando pure i comuni a bandire subito le gare per l’assegnazione delle concessioni ormai scadute. 

Di fronte a questo granitico muro sollevato dalla giurisprudenza amministrativa contro la mala gestio delle concessioni balneari, al governo c’è pure chi ha pensato di sollevare innanzi la Corte costituzionale il conflitto di attribuzione contro il Consiglio di Stato, colpevole di essersi messo di traverso, oppure di imporre al concessionario subentrante di versare al vecchio titolare un indennizzo commisurato al valore aziendale dell'impresa, mirando così a salvare l’imminente stagione balneare dei proprietari dei lidi contro il popolo dei bagnanti che ormai – dopo le ripetute pronunce dei giudici amministrativi – sta già scaldando i motori per andare in spiaggia accedendo gratis ai lidi privati ormai scaduti. Intanto si diffondono sempre più le azioni di comitati e personalità politiche – come Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, di Alleanza Verdi Sinistra - che rivendicano l’uso libero delle spiagge, puntando pure a inserirle in una nuova categoria, altra e diversa dallo schema tipico proprietà pubblica-proprietà privata, cioè in quella dei beni comuni inalienabili, quindi non appropriabili in via esclusiva da nessuno, compresi i concessionari, in modo da garantirne a tutti, al di là delle proprie condizioni economiche e sociali, il libero accesso per godersi il sole e il mare.

Le spiagge come beni demaniali. Attualmente il regime giuridico delle spiagge italiane si basa sull’articolo 822 del codice civile, il quale stabilisce che “appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti”; per essere demaniali, i beni devono però essere idonei a soddisfare interessi pubblici, sia della collettività, che inerenti all'attività statale. Per il successivo articolo 823 poi “i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”. Così le spiagge fanno parte del demanio marittimo, ma per mezzo di una concessione la pubblica autorità, compatibilmente con il primario interesse pubblico e a certe condizioni, può permetterne l’uso ai privati per installarvi ad esempio un lido. Teoricamente la concessione dovrebbe essere rilasciata a seguito di un bando di gara pubblico aperto a chiunque ne abbia interesse; essa è temporanea e subordinata al pagamento di un canone; è soggetta a decadenza per non uso, per mancata realizzazione delle opere previste nel bando e per altre violazioni; alla sua scadenza non può essere prorogata e si dovrà indire un nuovo bando di gara.  

Le spiagge come beni comuni. Per ovviare ai possibili usi e abusi del sistema concessorio delle spiagge in favore di privati, qualcuno – come abbiamo visto sopra – propone il passaggio dei lidi nella categoria dei beni comuni. Ma di cosa si tratta? Anche se la sua nozione appare ancora incerta e ambigua, rischiando di ampliarsi a dismisura, fino al punto da includervi qualsiasi cosa, perdendo così le sue caratteristiche peculiari, possiamo affermare che il termine beni comuni (in inglese, commons) indica quei beni che sono condivisi da tutti i membri di una specifica comunità. La loro caratteristica consiste nel fatto che è difficile escludere qualcuno dal loro utilizzo, nessuno può apprenderli in maniera esclusiva e tendenzialmente sono non rivali, cioè possono essere fruiti contemporaneamente da più persone o da intere comunità di utenti o produttori, senza che ciò arrechi danni a terzi o che si possa impedire ad altri di fare altrettanto. Il punto chiave allora non è più quello dell’appartenenza del bene ad un soggetto pubblico o privato, ma quello della sua gestione, per garantirne l’accesso e le condizioni d’uso, la partecipazione degli interessati ed i necessari controlli. Così intesa la nozione di bene comune si rivela radicalmente incompatibile con quella di proprietà privata o pubblica accolta nel nostro ordinamento giuridico e definita dall’articolo 832 del codice civile come il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo” [1].  

Il concetto di commons storicamente fa riferimento alle terre comuni di uso collettivo nell’Inghilterra del XVII secolo, terre che vennero ad un certo punto recintate per effetto delle Enclosure bills per consentire l’allevamento intensivo delle pecore la cui lana veniva utilizzata dalla nascente industria tessile, favorendo così il boom della Rivoluzione industriale. Alla progressiva scomparsa dei commons seguì l’attacco ideologico contro di essi, permettendo in tal modo la loro trasformazione in bene commerciale, assoggettabile a proprietà privata. 

Solitamente i beni comuni sono tali sotto il profilo oggettivo, ma può accadere che un bene, oggettivamente non comune, venga però considerato e gestito soggettivamente come tale. Essi sono spesso beni privati o pubblici, che vengono però gestiti in maniera più efficiente dalla comunità di riferimento, piuttosto che dagli stessi privati o dallo Stato, come ha bene dimostrato Elinor Ostrom [2], perché basati su un modo di produzione cooperativo e non competitivo, autoregolato e fondato su gerarchie concordate e non autoritarie. La rete Internet, ad esempio, è gestita dalla comunità di scienziati, ricercatori, informatici, utenti, i quali impongono che i suoi standard non siano brevettati, ma aperti e gratuitamente fruibili da chiunque (si pensi al software Open Source di cui i detentori dei diritti rendono pubblico il codice sorgente, favorendone così il libero studio e permettendo a programmatori indipendenti di apportarvi modifiche ed estensioni a vantaggio dell’intera comunità mondiale di utenti). I commons vengono classificati in quattro diverse tipologie (beni privati, beni dei club, beni comuni, beni pubblici), costruite tramite l’incrocio delle due variabili che regolano il rapporto bene-utilizzatori (esclusività e rivalità) e diversamente graduate tra loro. Ma i beni comuni, oltre ad essere condivisi, devono essere anche universali, sottratti cioè alla logica capitalistica di mercato, e non devono ridursi a merci disponibili solo per chi ha risorse economiche sufficienti a comprarle e farle proprie in modo esclusivo, ecco perché il giurista Stefano Rodotà ha definito i beni comuni come “quelli funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato da generazioni future” [3].

Il concetto di bene comune si è diffuso in Italia piuttosto di recente, specialmente in occasione della consultazione referendaria del giugno 2011 sulla privatizzazione dell’acqua, ma già da tempo con il decreto ministeriale 21 giugno 2007 era stata istituita presso il Ministero della giustizia un'apposita commissione, presieduta da Rodotà, con lo scopo di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. Essa ha formulato una proposta che – tra l’altro – prevede la distinzione dei beni in pubblici, privati e comuni, inserendo in quest’ultima categoria anche i lidi e i tratti di costa dichiarati riserve ambientali. La proposta non ha però avuto seguito, anche se il tema - come si vede - è ancora ben vivo. 

Volendo adesso in conclusione ipotizzare la sussunzione delle spiagge nell’ambito dei commons, così facendo esse non potrebbero più essere apprese in maniera esclusiva da alcuno, ma dovrebbero venire usate nell’interesse della collettività. A tal fine sarà necessaria la creazione di una struttura giuridica in grado di garantire loro sia la natura di beni comuni, che il loro uso efficiente. Si potrebbe allora pensare di costituire un trust in cui il settlor (lo Stato proprietario delle spiagge) esprime la sua volontà di trasferire gratuitamente i suoi interessi sulla trust property (le spiagge) a vantaggio dei beneficiaries (la collettività). Compito del trustee sarà allora quello di consentire a tutti un uso libero e paritario delle spiagge, in modo che nessuno se ne possa appropriare a proprio esclusivo vantaggio. 

Note:

[1] Sui commons v. il mio L’acquisto delle parti staccate del corpo umano: Simpaty for the devil?, in Modernità del pensiero giuridico di G. Criscuoli e diritto comparato, cur. A. Miranda, v. III, Torino, 2015, 64 s. 

[2] E. Ostrom, Governing the commons. The evolution of istitutions for collective actions, Cambridge, 1988, tr. it. Governare i beni collettivi, Milano, 2006. Per tali studi l'autrice ha ricevuto nel 2009 il premio Nobel per l'economia. G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in Science, 162 (1968), 1243, ritiene invece che la gestione dei beni comuni determini una crisi di sovraconsumo per il loro uso intensivo e sconsiderato, fino a giungere al loro completo esaurimento, per evitare il quale egli suggerisce di privatizzare o statalizzare tali beni.  

[3] S. Rodotà, Il valore dei beni comuni, in http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/01/05/il-valore-dei-beni-comuni.html.



08/06/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Ciro Cardinale

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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