Pubblichiamo nella sezione Dibattito questo contributo del compagno Mario Gaglio. La redazione, mentre condivide il giudizio negativo sull’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, non ritiene che il problema unico, e nemmeno quello principale, della crisi in atto e delle crisi in generale sia la carenza di domanda aggregata, che costituisce solo una delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Altrove, infatti, abbiamo evidenziato il ruolo della caduta tendenziale del saggio del profitto. L’adesione dell’autore all’impostazione degli economisti keynesiani à la page lo porta a identificare le politiche keynesiane con quelle di sinistra tout court, trascurando che esistono anche politiche di destra di sostegno della domanda, a partire dalle spese per gli armamenti. Riguardo al debito, non si fa chiarezza sulla distinzione fra debito interno (in cui i debiti sono compensati dai crediti) e indebitamento con l’estero, che invece denota una difficoltà del paese a competere nei mercati internazionali, come non ci pare chiara la distinzione fra debito pubblico e debito privato. Infine, l'approccio neokeynesiano ci pare confligga con le condivisibili conclusioni dell'autore riguardo alla necessità di politiche rivoluzionarie e non di stampo socialdemocratico. Tuttavia l’articolo ci è sembrato utile per aprire un dibattito su un tema senza dubbio di grande rilevanza.
In questa calda estate, meno torrida delle precedenti, a tenere “impegnati” la maggior parte degli italiani, oltre alle vicende che ruotano al mondo del calcio, tra partite e calciomercato, vi è la “politica”.
Quest’ultima è diventata sempre più uno sport da bar, sostituendo i fanta-allenatori con gli “esperti” di politica da tavolino, una volta da salotto, che sorseggiando un drink, o tra un caffè e l’altro, disquisiscono sulle questioni da affrontare e come si dovrebbero risolvere; questi hanno sempre la soluzione a portata di mano.
Oltre al qualunquismo delle discussioni, quello che dovrebbe far riflettere maggiormente è l’incapacità analitica dei processi, sia sociali che economici.
Se da un lato tiene banco il tema dell’immigrazione, che è stato la fortuna elettorale di qualche partito, dall’altro lato l’accusa di scarsa capacità, rivolta al Movimento 5 Stelle, nell’essere forza propositiva per il “cambiamento” del paese, diventa sterile se si basa, solamente, sulla nomina di qualche dirigente, ad esempio in RAI, oppure sulla scelta di una “persona di fiducia” come capo di segreteria nel Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico.
D’altronde non ci si può sorprendere se, ad oggi, parte dell’editoria nazionale critica aspramente il M5S, accusandolo di poca coerenza e di essersi allineato sin da subito al “sistema” politico italiano. Queste sono le stesse “accuse” e lo stesso modus operandi che il movimento ha perseguito, e persegue, verso soggetti politici a loro distanti, creando tutti i presupposti per un conflitto, del tutto privato, tra due diversi sistemi divulgativi di informazioni.
I precedenti temi, utilizzati ad arte, distolgono l’attenzione dalle reali condizioni in cui si trovano a vivere i cittadini, non affrontando (volutamente) temi molto più significativi, i quali hanno risvolti sociali ed economici di primaria importanza.
Pareggio di bilancio
Con la legge costituzionale 1/2012 ("Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale") dell’Aprile del 2012, e approvata dal Parlamento Italiano nel mese seguente, è stata modificata la Costituzione italiana modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione stessa.
Il principio del pareggio di bilancio impedisce le politiche relative alla spesa in disavanzo (deficit spending), quelle stesse politiche che vennero adottate dal 2008 in poi dalla Germania e che, con successo, hanno consentito alla sua economia di riprendersi da una caduta dell’attività produttiva e della ricchezza creata.
In base al nuovo articolo 81, “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.
Lo stesso ex presidente della Corte dei Conti, Manin Carabba, afferma di considerare «abnorme e inaccettabile che il principio del pareggio di bilancio debba prevalere su ogni diritto dei cittadini costituzionalmente garantito».
La regola del pareggio di bilancio non solo lede salari e occupazione, accrescendo la disoccupazione strutturale (impedendo, così, la piena realizzazione degli articoli 1, 3, 4, e 35-37 della Costituzione), ma comporta, di fatto, l’impraticabilità di tutte quelle politiche industriali che prevedano investimenti pubblici e, più in generale, l’intervento pubblico in economia (articoli 41-47, e in particolare gli articoli 41, commi 2 e 3, 42, commi 1 e 3, e 43), costringendo lo Stato a cedere anche le sue residue proprietà.
Di fatto, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio è la costituzionalizzazione di una teoria economica sbagliata, nemica dell’intervento dello Stato nell’economia al punto di negare la necessità (e l’economicità) di investimenti pubblici in disavanzo per contrastare gli effetti di cicli economici recessivi.
In questo senso sono intervenuti anche cinque premi Nobel per l’economia, P. Diamond, R. Solow, K. Arrow, W. Sharpe e E. Maskin sostenendo che il pareggio di bilancio, mettendo un tetto rigido alla spesa pubblica, non fa altro che peggiorare le cose, aggravando il periodo di recessione economica, impedendo al governo di ricorrere al credito per finanziare il costo delle infrastrutture, dell’istruzione, della ricerca e dello sviluppo, della tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro della nazione.
Inoltre, affermano gli economisti, il pareggio di bilancio ha effetti nefasti anche in periodi di espansione dell’economia, in quanto un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica poiché gli investimenti ad elevata remunerazione – anche quelli finanziati interamente dal gettito, sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da una riduzione della spesa di pari importo. Così, un tetto vincolante di spesa comporterebbe la necessità, in caso di spesa di emergenza (es. in caso di disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi non di emergenza.
Politiche di sviluppo
Ciascuna “politica di sviluppo” che si rispetti deve rispondere, sempre, ad una domanda, o meglio alla “domanda” (aggregata).
La domanda aggregata, in economia, non è un mero desiderio, ma è domanda effettiva, capacità di spesa. Se il potere di acquisto dei lavoratori si sviluppa di pari passo alla loro produttività, la domanda potrà essere finanziata dai redditi dei lavoratori stessi, ma se la produttività cresce più velocemente dei salari reali, allora ci saranno in circolazione più prodotti che redditi da lavoro capaci di acquistarli.
Per “correggere” tutto questo si deve ricorrere ad uno strumento: il debito, che, messo in rapporto con il PIL, fornisce indicazioni sulla misura di quanto un Paese deve restituire ai suoi creditori, a tutti coloro che hanno acquistato titoli di Stato.
Questo problema può essere affrontato sia da destra, richiedendo maggiori riforme, quindi agendo sull’offerta, come da anni ha sempre fatto l’Italia (ma il problema non era la domanda?) che da sinistra, aumentando la spesa pubblica e riducendo le tasse.
Il debito di un Paese è strettamente correlato ad un altro indicatore: il deficit, che misura la differenza tra il gettito in entrata e le spese pubbliche sostenute e che, secondo i parametri UE, deve rimanere al di sotto del 3% del PIL. Pochi paesi sono stati virtuosi ed hanno rispettato tale limite, eccezione per Francia e Germania.
Ed è proprio il PIL che ci fornisce maggiori informazioni riguardo alla disoccupazione. Una maggiore disoccupazione – salvo il caso di un aumento della produttività, che può esserci ma anche no – vuol dire anche un maggiore output gap, cioè una maggiore differenza tra la produzione potenziale e quella effettiva e, quindi, per forza di cose, un PIL minore. Di conseguenza un rapporto debito/PIL maggiore.
Al contrario, una maggiore occupazione significherebbe un minore output gap, cioè una minore differenza tra produzione potenziale e quella effettiva, un PIL maggiore e, di conseguenza, fermo restando una costante o attenuata crescita di produttività, che può esserci, ma anche no, si ottiene un rapporto debito/PIL minore, che significherà minori sussidi e maggiori contributi, con un ovvio ritorno in termini positivi sul bilancio.
Sono, quindi, il lavoro, l’occupazione e la crescita le chiavi di volta per avere una diminuzione del rapporto debito/PIL e, quindi, l’allontanamento di cicli economici recessivi, dato che questi ultimi sono caratterizzati dalla diminuzione del PIL in almeno due trimestri consecutivi, non i tagli e l’austerità che stanno disgregando il tessuto sociale e produttivo del paese e dei suoi abitanti, mantenendo il paese al centro del vortice di una recessione economica che non si arresta a placare.
Le politiche sinora fatte sono state perseguite per distruggere la piccola e media industria del Paese, avvantaggiando i pochi, e senza scrupoli, grandi industriali, i quali hanno bistrattato i lavoratori: l’introduzione della Legge Fornero, l’approvazione del Jobs Act, l’introduzione dei Voucher come sistema di remunerazione (utilizzati spesso dalle grandi imprese) e l’alternanza Scuola/Lavoro, sono solamente gli ultimi episodi che mostrano come il conflitto in atto è orientato alla concentrazione delle risorse economiche nelle mani di pochi a scapito di una collettività inerme che non trova più nessuna rappresentanza, sia politica che sindacale.
Tutto questo è dovuto, principalmente, alla attenuazione delle rivendicazioni sociali mediante scelte e prassi “democratiche”, che hanno dato vita alla socialdemocrazia, alla politica borghese che richiede riforme, non per la eliminazione dei due estremi della società, il capitale e il lavoro salariato, ma per attenuare il loro contrasto.
È il trasformismo da un partito di rivoluzione sociale ad un partito democratico di riforme sociali che pone la socialdemocrazia di fonte alla negazione categorica dell’opportunità di fornire, in modo inevitabile e necessario, le fondamenta allo sviluppo del socialismo scientifico, nella sua elaborazione di materialismo storico.
Mediante la negazione dell’opposizione di principio tra capitalismo, con tutte le sue contraddizioni, e socialismo, la socialdemocrazia nega la teoria della “lotta di classe”, del tutto inapplicabile in una società rigorosamente democratica, in quanto da un lato afferma la soppressione del dominio di classe, ma dall’altro esige una collaborazione tra le classi stesse.
La sempre più fiorente “critica” al socialismo e ad un suo revisionismo, con l’introduzione di idee borghesi e uomini della borghesia, non è nient’altro che un nuovo modo di opportunismo. È l’opportunismo che ha reso la Politica “malattia infantile” ed è del tutto collaterale a forme di sfruttamento, più o meno subdole, della società a vantaggio delle “classi” dominanti della borghesia.