La crisi determinata dalla epidemia di CoVid-19 ha causato una frenata dell’intera economia mondiale. Le misure anticicliche proposte hanno necessitato la mobilitazione di tanti “risparmi” lasciati a riposo. Tale strada non è percorribile sul medio termine e comporta una inevitabile strozzatura. A tal uopo confrontiamo le mosse messe in atto da due diverse aree monetarie, gli Usa e l’Eurozona.
Trump decreta la stampa di 2.200 miliardi di dollari; 1.200 dollari andranno ad ogni contribuente con reddito annuo fino a 75mila dollari, per le coppie sposate la cifra sarà di 2.400 se con redditi fino a 150 mila, in entrambi i casi vi saranno 500 dollari per ogni figlio a carico, il tutto sotto forma di bonifico o assegno per chi fosse sprovvisto di conto corrente; 260 miliardi andranno a sostenere i sussidi, 504 miliardi alle grandi aziende, 377 miliardi alle piccole e medie imprese, 100 miliardi agli ospedali, 150 miliardi agli enti locali e 32 miliardi per acquisire le azioni delle compagnie aeree in difficoltà. Questo è il pacchetto varato a marzo.
Attualmente è in elaborazione un nuovo provvedimento da 500 miliardi a favore di piccole e medie imprese ed ospedali. Provvedimenti, questi, che per l’entità fanno figurare come esigui tutti i precedenti interventi governativi che viaggiavano su somme estremamente inferiori. È pur vero che questa è una crisi spaventosa per il sistema economico. Nei soli Stati Uniti la disoccupazione è passata dal record positivo del 3,4% del mese di febbraio, mai così bassa da 50 anni, a crescere in sole 6 settimane 30 milioni di nuove unità. Tanto che JP Morgan stima una disoccupazione presto al 20%, mentre il Pil nel primo trimestre ha perso il 4,8%. Intanto la Banca Centrale manterrà i tassi a zero fino al termine della crisi.
Nell’eurozona, invece, le misure sono al momento tutte a carico dei singoli governi. Questi hanno seguito lo stesso canovaccio della crisi post-2008: iniezioni di nuovo debito. Ciò causa una impennata del rapporto debito sul Pil, a causa della crescita del primo e della compressione del secondo. In Italia passiamo in breve dal 135% al 160% e le conseguenze sono facili da intuire. Questa sembrerebbe la stessa strada seguita dagli Stati Uniti, se solo non fosse che le emissioni di bond non sono europee ma nelle mani dei singoli stati membri, che le misure di questi agiscono slegate e che la Banca Centrale Europea continua a non operare a sostegno degli stati.
L’Eurobond non è passato al Consiglio europeo del 23 aprile, gli stati più ricchi (Austria, Germania, Danimarca, Paesi Bassi e Finlandia) non voglio condividere i rischi, ed il Recovery bond – che farebbe affidamento sull’esile bilancio dell’UE e per le sole nuove emissioni – è ancora poco più che una ipotesi. Da quest’ultimo potrebbero arrivare fondi, ma non è ancora chiaro in che modalità, a che condizioni e soprattutto quando. Come ipotesi restano quelle di mobilitare i soldi della Banca Europea degli Investimenti, che dispone però di pochi miliardi in pancia e che dovrebbe raccoglierne altri in prestito al fine di girarli alle imprese bisognose. Si propone di utilizzare i fondi del MES, per l’Italia ci sarebbe un massimo di 35 miliardi, col rischio delle condizioni cui sottoporsi. Infine il SURE, che è un fondo a sostegno della cassa integrazione, ma anche in questo caso si tratta di prestiti che farebbero seguito alla raccolta di liquidità da parte della UE.
In tutti e quattro i casi – recovery bond, BEI, MES e SURE – senza attingere alle risorse che può produrre la BCE. La Banca Centrale non interverrebbe direttamente per non aumentare la base monetaria. Ma è una posizione ipocrita, dal momento che il quantitative easing, che si continua a portare avanti, inonda il mercato di nuova liquidità. Ma la Consulta tedesca minaccia di porre un freno anche a quest’ultimo strumento, col chiaro fine di aumentare il peso negoziale del proprio governo al tavolo europeo. L’obiettivo è quello di non alterare l’andamento dei tassi, che mentre arricchiscono alcuni paesi, impoveriscono altri.
Dal momento che la moneta unica ha generato diversi problemi ed incongruenze, urge una soluzione. Soluzione neanche tanto lontana. Basta tornare indietro di poche settimane, al 25 marzo 2020. Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio e Lussemburgo, si opposero alla inflessibilità del fronte germanico ostile agli Eurobond. Depurando questo fronte dai paradisi fiscali, ed introducendo i rimanenti paesi balcanici, avremmo riunito le nazioni delle tre penisole, quella iberica, quella italiana e la balcanica. Ossia l’area economica del Sud Europa, che ha sofferto il forte tasso di cambio dell’Euro, che ha subito le politiche vessatorie della UE e che si è trovata travolta dalla crescita degli interessi passivi senza poterla neanche scaricare sull’inflazione. È il fronte dell’Euromed, ossia di una possibile nuova area valutaria, forte, credibile, in grado di agire all’interno del mercato unico europeo con una propria dignità e solidarietà.
D’altronde, l’organizzazione internazionale denominata “EuroMed 7” esiste già da diversi anni, occorre solamente trasformarla in area monetaria. Un’area che potrebbe riacquisire un corretto tasso di cambio, rilanciare turismo ed esportazioni e tenere sotto controllo i debiti pubblici. Un’area che potrebbe operare in periodi di crisi con la celerità dei governi supportati dalla propria banca centrale, diversamente da quanto può la pachidermica macchina dell’Eurozona. L’UE, dopotutto, ha due velocità, perché non dovrebbe avere due valute? L’Euromed era anche uno degli obiettivi del M5S, perduto come gli altri lungo il cammino verso il governo. Resta invece una prospettiva fortemente credibile ed altamente realizzabile.