Il bisogno di felicità e il problema della sua negazione

La fertilità rimanda all’idea della coltivazione di qualcosa dalla quale nasce poi un frutto risolutivo che produce la soddisfazione di un bisogno (spesso mascherato da desiderio) o la risoluzione di un problema.


Il bisogno di felicità e il problema della sua negazione Credits: viverepiusani.it

“Ottimismo della volontà e pessimismo della ragione”. E’ così che Gramsci invita ad agire nella vita quotidiana che è in fondo un modo molto efficace per evitare di cadere davanti ad ogni sconfitta fisiologica che inevitabilmente si presenta sul sentiero esistenziale di ciascuno. In altro modo si può dire che, agendo come Gramsci insegna, vi è in qualche maniera il tentativo di preservare una condizione di serenità di fondo anticamera della felicità.

A quest’ultima è difficile dare una definizione scientifica considerato il carattere estremamente soggettivo di tale concetto. Quando ciò accade e nella necessità di partire comunque da un impianto teorico, molti studiosi vanno alla radice etimologica del termine. Felicità, dal latino, è “felix” cioè “fertile”. La fertilità rimanda all’idea della coltivazione di qualcosa dalla quale nasce poi un frutto risolutivo che produce la soddisfazione di un bisogno (spesso mascherato da desiderio) o la risoluzione di un problema. Ed è questo il centro della nostra riflessione.

Brevemente facciamo di nuovo riferimento, come è accaduto negli articoli precedenti, al sociologo polacco Z. Bauman, secondo il quale non è vero che una vita felice corrisponda ad un’esistenza priva di problemi ma casomai l’esatto contrario. Sono dunque i problemi che favoriscono la felicità. E’ quindi la capacità di risolverli che produce autostima e fiducia in se stessi proprio perché, tornando alla riflessione iniziale, il problema è stato seminato dal sistema e l’attore sociale è stato in grado di raccogliere i frutti risolutivi, con gli strumenti che la società gli ha fornito in termini di capacità, cultura e mezzi. Viene da sé pensare che in una società ipercapitalista tali strumenti di raccolta non siano equamente distribuiti e che siano di assoluta proprietà di una minoranza imperante.

Facciamo un passo in avanti e chiediamoci quale sia l’oggetto dei problemi. Inevitabilmente essi sono costituiti dalla mancata soddisfazione dei bisogni che a loro volta possiamo suddividere in oggettivi (o elementari) e artificiali (o indotti). I primi rappresentano la sfera fisiologica (la fame, la salute, il sonno, la sete ecc.). I secondi si articolano in maniera molto più estesa (la casa, l’auto, il telefono, i vestiti ecc.) e rientrano nel concetto sociologico di cultura che è intesa come “l’insieme delle invenzioni artificiali inventate dall’uomo”[1]. Per cui proporrei un’ulteriore distinzione all’interno della seconda categoria di bisogni che potremmo definire da un lato “socializzanti” e dall’altro “sistemici”. I primi sono costituiti dalla necessità di possedere gli strumenti fondamentali che ci rendono (come affermava E. Durkheim) degli “animali sociali”, cioè degli esseri in grado di soddisfare collettivamente ogni bisogno attraverso l’azione, il pensiero, la lotta avendo a disposizione i mezzi almeno minimali per farlo. Poi abbiamo quelli “sistemici” che sono i più artificiali di tutti svolgendo la funzione di moltiplicare all’infinito i bisogni stessi e che per il più delle volte sono del tutto effimeri. Un amico anticomunista una volta mi disse che alla fine degli anni 80, gli abitanti dell’Unione Sovietica non sapevano cosa fosse una lavatrice o una lavastoviglie aggiungendo poi che al momento i cittadini della Corea del Nord non sanno cosa sia internet. Questa affermazione renderà chiaro al lettore cosa intendiamo per bisogni “indotti dal sistema”.

La borghesia si è posta da secoli l’obiettivo di rafforzare questi ultimi sottraendo gli strumenti di risoluzione per la soddisfazione dei primi (i bisogni socializzanti, per intenderci). Il Capitale globalizzato ha quindi stroncato la dimensione comunitaria producendo la sola esistenza di quella individuale. La mancata soddisfazione collettiva del bisogno ha prodotto il moltiplicarsi di tutti gli altri che sono dunque effimeri e privati dei mezzi di soddisfazione per il fatto stesso che il luogo della loro risoluzione non esiste più (ovvero la comunità).

Ecco allora che i problemi moltiplicati dal sistema hanno per oggetto prevalente una pluralità di bisogni inconsistenti ma che il sistema stesso, determinando il senso comune, eleva a bisogni elementari e quindi indispensabili annebbiando, contemporaneamente, quelli autentici (necessità di un lavoro stabile, diritto alla salute ecc.). Questi ultimi pian piano si “naturalizzano” diventando, appunto, naturali, scontati, inevitabilmente accettabili. Tuttavia essi non smettono di essere oggetto dei problemi che a questo punto non possono essere risolti se sono percepiti come naturali. E’ da questo punto di vista che si colloca la bella riflessione di Carmine Tomeo su “La città futura”. Egli invita a far caso al fatto che uno scippo desti maggiore allarme e indignazione sociali rispetto (ad esempio) alla progressiva e inquietante privatizzazione della sanità che, al contrario dello scippo, costituisce un bisogno di natura più propriamente collettiva. Ciò, a mio parere, accade perché non essendoci più una comunità, diametralmente non ci sono più nemmeno quei mezzi e quelle risorse collettive in grado di elevare a bisogno il problema della sanità al punto di produrre una lotta risolutiva e, per tornare alla metafora precedente, di produrre una raccolta di “germogli risolutivi”. Il sistema devia le attenzioni e nel momento in cui scorge un senso minimale di comunità ( come ad esempio sul tema della precarietà e del lavoro), elabora dei mezzi che al posto di produrre risoluzioni, sono forieri di ulteriori problemi che si accumulano ai precedenti (ad esempio l’ostilità verso i migranti che il sistema offre come mezzo, produce ulteriori problemi a chi attiva tale mezzo come la ulteriore frammentazione delle classi subalterne ed il razzismo).

Evidentemente la felicità nell’epoca dell’ipercapitalismo finanziario è una condizione sostanzialmente negata. E’ solo la società che si fonda sulla “libertà dal bisogno” che mette sempre e costantemente a disposizione degli attori sociali quei mezzi e quelle risorse di cui prima parlavamo che sono fondamentali per liberarsi dai problemi e accrescere conseguenzialmente la propria autostima, la propria serenità, l’ampliamento dei propri orizzonti culturali. Viviamo, al contrario, nella società fondata sulla “libertà dallo Stato”. Lo Stato è però comunità. E’ la manifestazione più evidente del fatto che io sono, io esisto, io ho un senso nella misura in cui gli altri lo riconoscono per la sua plurale utilità. Senza lo Stato la mia biografia e la mia funzione iniziano e finiscono nella mia “volontà (o inevitabilità) di impotenza”.

Per cui vale la pena rispondere al quel mio amico che preferirei anche vivere senza lavatrice e senza internet se so di avere un sistema che produce un accesso universale all’istruzione, alle cure sanitarie, che produce condivisione, confronto, se so, tornando a Gramsci, di vivere in uno Stato che parteggia e che vuole che i suoi cittadini siano partigiani della propria collettiva e individuale esistenza e non uno Stato assente e che con questa sua assenza vuole un cittadino indifferente.


Note

[1] Bauman Z., “Lineamenti di Sociologia Marxista”, Roma, Editori Riuniti, 1972.

27/05/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Dario Leone

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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