Sulle scelte del PCI fine anni 1950: il milazzismo (I parte)

MUna brutta storia dimenticata, ma importante, in cui spicca il nome di Macaluso. “Nulla capiremo della mafia, finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda” (L. Sciascia)


Sulle scelte del PCI fine anni 1950: il milazzismo (I parte)

 

Una brutta storia dimenticata, ma importante, in cui spicca il nome di Macaluso. “Nulla capiremo della mafia, finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda” (L. Sciascia)

di Luigi Ficarra

Nel febbraio 1960 cadde in Sicilia nell’ignominia della corruzione il governo Milazzo, un grosso agrario di Caltagirone, un governo che rappresentò una delle pagine più arretrate e regressive della storia del Movimento Operaio italiano. (L’ignominioso fatto di corruzione fu il c.d. caso ‘Santalco’, in cui fu implicato un alto dirigente del PCI dell’epoca, oggi riformista dichiarato, lo stesso che nel 1983, al XVI congresso del PCI, definì un “povero cretino moralista” Diego Novelli, allora sindaco di Torino, già attaccato da Craxi per le denunce che aveva fatto di alcuni casi di corruzione di consiglieri comunali).

Quale fosse in quel tempo la tragica situazione economica e sociale della Sicilia occidentale è noto. I capitali si erano spostati dall’agricoltura all’industria dell’edilizia, in particolare nel settore degli appalti dei lavori pubblici, dove, usufruendo di notevoli agevolazioni-regalie regionali, venivano realizzati alti profitti. Pesante era la presenza della mafia anche in questo specifico settore e, quindi, ancor più elevato lo sfruttamento della forza lavoro. I rapporti sociali in agricoltura erano mutati per il superamento del latifondo e lo sviluppo, in alcune zone, del capitalismo nelle campagne; ma grave era rimasta la condizione di supersfruttamento della forza lavoro bracciantile e nessun reale beneficio apportò all’occupazione la riforma agraria del 1950 realizzata e gestita, sotto forma di ‘rivoluzione passiva’, dalla classe dominante. Infatti la conseguente trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura, generò, come spiega Renda, oltre duecentomila esuberi che diedero origine a una nuova grande ondata migratoria. Il settore minerario era in crisi, vittima di uno sfruttamento secolare da parte della rendita parassitaria del ceto proprietario nobiliare.

Il fatto nuovo, a partire dall’ottobre ’53, col ritrovamento dei primi giacimenti petroliferi a Ragusa da parte della Gulf, fu la calata in Sicilia di grossi gruppi capitalistici, quali la Montecatini, l’Edison, la Rasiom-Esso, la Snia Viscosa, e poi la grande industria capitalistica di Stato, l’Eni.

Macaluso, allora dirigente di primo piano del PCI in Sicilia, fu l’animatore della così detta “operazione Milazzo”, che dall’ottobre ’58 al febbraio ’60 portò alla costituzione - attorno a questo dirigente, democristiano da sempre, ed al nuovo raggruppamento da lui formato per scissione dalla DC, l’Unione Siciliana Cristiano Sociale - di una maggioranza formata da comunisti, socialisti, monarchici, fascisti, liberali, socialdemocratici e repubblicani, in mera funzione anti DC. E Macaluso ha nel tempo continuato a rappresentare detta operazione come una strategia quasi rivoluzionaria, non comprendendo di essere stato usato come parte sostanzialmente passiva di una scelta strategica dell’avversario di classe, quella pensata ed operata dalla Sicindustria di Mimì La Cavera, poi divenuto presidente onorario della Confindustria siciliana e successivamente sostenitore, non a caso, del governo reazionario di Lombardo. Quel La Cavera, che nel suo articolo, pubblicato su un’intera pagina de “L'Ora“” di Palermo del 27 dicembre 1959, a commento dell’operazione “Milazzo”, scriveva che “il fatto rivoluzionario della situazione siciliana è che una parte delle classi "agricole" del patriziato (i discendenti del Gattopardo) vuole essere classe dirigente (a differenza, spiega, di quanto fece nel 1860), ..alleandosi a coloro (il PCI siciliano) che "promuovono" lo sviluppo di una classe imprenditoriale moderna ….”; ed in questa alleanza egli chiaramente assegnava al Movimento Operaio una posizione di supporto allo sviluppo capitalistico del sud e, nella specie, della Sicilia. Parlando poi della forte presenza comunista in Italia e nel mezzogiorno in particolare, La Cavera scriveva che per combattere questa situazione politica occorreva “promuovere politiche di espansione  economica, che spezzando i privilegi da un lato (i così detti privilegi dei monopoli), e mantenendo la pace sociale dall'altro con una politica di lavoro aperta e progressiva (dare qualche soldo in più ai braccianti - egli diceva), tolgano di mano ai comunisti le ragioni della (loro) forza”. Occorre far sì - concludeva La Cavera nel suo articolo-manifesto del 1959 – che l'Italia non sia più il paese dell'occidente, dove …. i comunisti potrebbero vedersi aperta la via per giungere al potere per vie legali”. Ed aggiungeva che “La Sicilia indica una via per tutta la nazione: la via del giovane occidente capitalistico …. nella più pura linea della tradizione liberista italiana, quella che vide unita l'agricoltura meridionale (gli agrari) all'industria libera del nord (i capitalisti)”. La Cavera operava, nell'interesse della borghesia, il rovesciamento totale delle tesi rivoluzionarie svolte da Gramsci ne La questione meridionale. Ed il PCI siciliano, diretto allora da Macaluso, stabilendo con lui buoni ed amichevoli rapporti (mantenuti peraltro nel tempo) non se ne accorse, o più semplicemente non capì e, peggio, scelse di non approfondire. Il Comitato Centrale del PCI nella seduta del 2 dicembre 1958 diede un avallo alla scelta fatta in Sicilia col governo Milazzo: Amendola, capo della tendenza di destra, disse, come relatore, che detta scelta serviva ad impedire il consolidarsi del regime di monopolio politico della DC di Fanfani. Ed a proposito dell’alleanza stabilitasi a Palermo anche con monarchici, fascisti e liberali, così precisò:una cosa  è realizzare un accordo  ‘provvisorio’ coi partiti di destra per difendere l’autonomia o per impedire la chiusura di una industria, altra cosa è realizzarlo, come fa abitualmente la DC, per attuare una politica di conservazione sociale e politica”. Non tutti i componenti del C.C. furono consenzienti con l’analisi di Amendola, la quale ovviamente non eliminava la coltre di ambiguità che avvolgeva la eterogenea maggioranza milazziana, che non era, come nota lo storico Renda, “un accordo ’provvisorio’ coi partiti di destra ”, ma una solida alleanza destinata a durare nel tempo, e appariva come una contraddizione oggettiva della strategia comunista.

Sul piano politico sociale va notato che Macaluso nella seduta del 30 ottobre 1958 all’assemblea regionale siciliana, proponendo “un programma minimo e amministrativo” disse, quasi a rassicurare le forze dominanti, che “non bisogna fare nuove grandi leggi (cioè nuove riforme), bisogna applicare le leggi che ci sono”. E, invero, l’operazione Milazzo, in cui forte e decisiva era la presenza della destra, e, quindi, degli agrari, e che vedeva la sinistra alleata con essa, frenò al massimo lo sviluppo della lotta di classe nelle campagne, nell’industria dell’edilizia e nelle miniere; né avrebbe potuto essere diversamente in una situazione che vedeva, come scrive Renda, la “Cgil convergere coi padroni della Sicilindustria”.

Per comprendere quanto scriviamo, basti pensare che il governo Milazzo emanò nella primavera del ’59 una legge – detta “piano quinquennale di rinascita” - che richiedeva, da parte dei titolari delle miniere di zolfo, la presentazione di un progetto quinquennale di ristrutturazione delle zolfare, le cui spese - si diceva - sarebbero state, solo inizialmente, a totale carico della Regione. La legge, ben congegnata, prevedeva che il finanziamento, tramite il Banco di Sicilia, sarebbe stato erogato man mano che fossero stati approvati da commissione apposita, gli stati di avanzamento, molti dei quali furono iniziali e solo apparenti. Le somme erogate dalla Regione avrebbero dovuto essere teoricamente restituite alla stessa alla fine del quinto anno, una volta avviata la ipotizzata ripresa dell’attività economica zolfifera. Ma al termine dei cinque anni previsti dal Piano la quasi totalità dei padroni delle miniere risultò inadempiente, e pertanto essi vennero a godere in sostanza di un lauto finanziamento, che Alfio Caruso indica nella enorme somma di 12 miliardi di lire dell’epoca. Fu in tal modo realizzato in sostanza il salvataggio delle famiglie nobiliari padrone delle miniere, prefigurandosi, dopo il loro lauto pasto, il passaggio di queste ultime sotto la mano pubblica: come avvenne circa tre anni dopo con la creazione del discutibile Ente Minerario Siciliano, la cui presidenza venne affidata a Calogero Volpe, amico, come noto, del mafioso Genco Russo. Va pure detto che con la suddetta legge - che secondo alcuni ebbe come ispiratore di Milazzo il famoso avvocato Guarrasi, noto come il consigliere della borghesia mafiosa siciliana -, venne data una parziale copertura politica alla sostanziale operazione di salvataggio dei padroni delle miniere, stabilendosi - cosa indubbiamente positiva - che gli esercenti dovevano impegnarsi a mantenere occupati nelle miniere un certo numero di operai. Abbiamo parlato di “copertura”, perché nel giro di circa 10 anni si ebbe la sostanziale liquidazione dell’intero settore zolfifero siciliano, causa la passata politica di rapina e di bestiale sfruttamento della forza lavoro, senza alcuna innovazione tecnologica, compiuta per oltre un secolo dai parassiti signori proprietari delle miniere.

Il commento più pertinente sulla succitata operazione compiuta dal governo Milazzo lo fece Sciascia, dicendo:nulla capiremo della mafia, finché non metteremo in luce gli aspetti di questa vicenda”. (CONTINUA)

 

02/01/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Luigi Ficarra

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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