Modernità in chiaroscuro. Splendori e miserie dei diritti umani - Parte II

Seconda parte della riflessione sul legame tra diritti umani e capitalismo occidentale.


Modernità in chiaroscuro. Splendori e miserie dei diritti umani - Parte II

Seconda parte della riflessione sull'interessante lezione di Federico Martino sulla storia dei diritti umani, che mostra la stretta relazione che essi intrattengono con l'individualismo occidentale e con il costituirsi della borghesia. Tale legame di classe ostacola però la loro efficace applicazione.

di Alessandra Ciattini

segue da parte I

Martino sottolinea come, in particolare, nel celebre opuscolo dell'abate E. J. Sieyès (Qu'est-ce que le Tiers État?), si palesi l'orientamento politico della borghesia, che ha preso piena coscienza del suo ruolo e del suo peso e intende farli valere nello scontro con gli altri stati, attribuendosi il compito di rappresentare l'intera nazione. Grazie a tale identificazione con il “popolo” la borghesia   mette in second'ordine le differenziazioni presenti all'interno di esso e riesce a trascinare nella lotta gran parte della popolazione francese per il raggiungimento dei suoi propri obiettivi.

Ma a questo punto – si potrebbe dire – i conti non tornano e cominciano ad apparire una serie di elementi oscuri o se vogliamo di contraddizioni, ben espresse dal titolo balzacchiano della lezione (Splendori e miserie dei diritti umani). Potremmo richiamare anche un altro celebre romanzo di Balzac, Le illusioni perdute, nel quale ritorna il tema delle promesse non mantenute da quel grande rivolgimento sociale che è stata la Rivoluzione francese. Opera paradigmatica nella quale – come scrive G. Lukács - “...gli stessi massimi prodotti della rivoluzione borghese – le idee sull'uomo, sulla società, sull'arte - ...si rivelano come pure e semplici illusioni nel confronto con la realtà dello sviluppo rivoluzionario borghese e dell'economia capitalistica” (Scritti di sociologia della letteratura, Milano 1976, p. 260).

Tali elementi oscuri appaiono sin dal principio, quando viene posto il problema dell'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, in cui gli schiavi africani condannati a lavorare nelle grandi piantagioni erano in fermento ed esprimeranno tutta la loro rabbia con la Rivoluzione guidata da Toussaint Louverture a Haiti e diventata vittoriosa nel 1804. Ovviamente l'abolizione della schiavitù, approvata dalla Convenzione nel 1794, è una logica conseguenza dei principi rivoluzionari che, giacché sanciscono una serie di diritti inalienabili, debbono essere applicati a tutti gli uomini. Ma tale decisione ledeva ovviamente interessi profondamente radicati, cui la borghesia ormai giunta al potere non poteva rinunciare senza opporre una certa resistenza, come si può ricavare dall'intenso dibattito che si sviluppò sul tema. Nel corso di pochi anni tale decisione pericolosa, che metteva in discussione il predominio di classe della borghesia e la stessa stratificazione classista della società, fu annullata da Napoleone Bonaparte, il quale ripristinò la schiavitù nel 1802.

Tale vicenda, che sconvolse con una serie di guerre sanguinose le colonie francesi, illumina la contraddizione lacerante nella quale si trovò attanagliata la borghesia: affermare i diritti umani in quanto strumento della sua emancipazione dall'Ancien Régime, ma al tempo stesso riconoscere la validità di questi ultimi anche agli strati popolari o addirittura agli schiavi, minando così quei caratteri su cui si fonda la specificità di classe della borghesia che, in quanto tale e per riprodursi, ha bisogno della subordinazione dei lavoro salariato o schiavile.

Nell'analisi sviluppata da Martino tale angosciante dilemma si ripresenta costantemente nella società capitalistica, nella quale il riconoscimento dei diritti politici e sociali alle masse popolari è sempre accompagnato da una serie di limitazioni al loro effettivo esercizio; basti pensare al diritto di voto [1],  il quale fino al secolo scorso è stato limitato dal criterio del censo e non riconosciuto alle donne, e ciò perché la prospettiva di elezioni generali rende poco controllabile il loro risultato, mettendo a repentaglio la supremazia politica della classe dirigente. Tale aspetto, d'altra parte, era stato messo in evidenza da Marx, il quale a proposito della Costituzione francese promulgata nel novembre del 1848 scrive: “La Costituzione continua a ripetere sempre la formula che la regolamentazione e la limitazione dei diritti e delle libertà del popolo (come il diritto di riunione, il diritto di voto, la libertà di stampa, di insegnamento etc.) debbono essere fissate da una legge organica successiva – e queste 'leggi organiche' 'determinano' la libertà promessa annientandola. […] Le eterne contraddizioni di questa parodia di Costituzione mostrano con sufficiente chiarezza che la borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti; essa potrà riconoscere la verità di un principio, ma non la metterà mai in pratica” [2].

Che questa del resto sia la prassi politica che ancora oggi ispira la borghesia nella fase della globalizzazione, può esser dimostrato con vari esempi – osserva Martino a conclusione del suo appassionato intervento – tutti illustrativi della contraddizione su descritta. Possiamo citare, per esempio, tutte le ingerenze politiche messe in atto dalle potenze occidentali per annullare i risultati delle libere elezioni tanto auspicate in alcuni paesi arabi o anche in America Latina, perché tali esiti non erano in sintonia con le aspettative che queste ultime nutrivano e potevano danneggiare i loro interessi. O l'utilizzazione dei diritti umani per giustificare interventi che avevano e hanno solo lo scopo di mettere sotto il proprio controllo territori ricchi di risorse, non rispettando così i diritti delle popolazioni ivi stanziate.

Se, dunque, è la borghesia che proclama la libertà, ma immediatamente la viola, quando i suoi antagonisti la esercitano ledendo i suoi interessi di classe, l'unica strada percorribile  per l'efficace affermazione e praticabilità dei diritti umani, il cui nucleo costitutivo resta indissolubilmente legato all'individualismo occidentale, non può che essere il sovvertimento dell'organizzazione classista della società. Ma ovviamente - conclude lo storico del diritto messinese - questa è un'altra questione, a cui oggi non è certo facile dare una risposta, ma la cui formulazione sembra quanto mai urgente.

Note

[1] Si pensi anche al diritto al lavoro previsto dall'articolo 4 della nostra Costituzione e ridimensionato dalle varie leggi approvate negli ultimi decenni.

[2] Cit. in: Marx e la rivoluzione del 1848

27/05/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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