Milano tra peste e corona

L’unica speranza è che, finita questa situazione, la gente non dimentichi. Non dimentichi che fino a pochi mesi fa era normale respirare un’aria irrespirabile, normale prendersela con il più diverso e non alzare mai lo sguardo con chi è responsabile o ha le responsabilità


Milano tra peste e corona

Alessandro Manzoni ci ha fatto conoscere (al tempo in cui la scuola superiore obbligava la lettura de “I Promessi Sposi”) una peste a Milano che non ebbe mai vissuto in prima persona. Riprese il tema anche nella “Storia della Colonna Infame”, stigmatizzando fino a qual punto arrivi l’idiozia disumana nella ricerca - indotta o meno - del colpevole, dell’untore, del capro espiatorio per sviare l’attenzione dalle responsabilità, un po’ come oggi quando si colpevolizza chi corre da solo in strada.

Da un approccio sanitario giusto e onesto, quale il rispetto delle distanze, si è andati sempre più potentemente e autoritariamente verso il mantra del “io resto in casa”, da arresti domiciliari. Ma tornando alla città della Madunina, va ricordato che prima della peste seicentesca, ce ne furono altre. Quella che si sviluppò dopo il 1450 comportò una rinascita per la città. Il tramonto del potere visconteo generò una terribile stagione, ricca di guerre, carestie e epidemie, fino a quando non uscì dalle pagine della storia un uomo di guerra, un capitano di ventura, un mercenario dedito al soldo di chi lo pagava per combattere un nemico, senza ideologie di sorta. Fortunatamente per i posteri, questa figura aveva l’ambizione giusta di farsi capo, non solo della soldataglia al suo seguito, ma di un nuovo disegno più ampio: governare un territorio, quello di Milano e sue pertinenze.

Francesco Sforza non aveva la nobiltà che spesso garantiva gli imbelli che regnavano la sua epoca, ma l’acquisì, sposando l’ultima erede dei Visconti, Bianca Maria. Anche quella non fu una scelta facile, visti i ripensamenti dell’ondivago suocero, Filippo Maria, sempre pronto a “promettere” la propria figlia alla migliore opportunità che gli avesse garantito l’ormai traballante potere. L’entrata a Milano, il 26 febbraio 1450, più che quello di un esercito di occupazione è più simile a una colonna di aiuti umanitari di viveri per una città stremata dalla guerra e dalla fame, e già da questo si può intravvedere un approccio molto diverso dai vincitori dell’epoca. Rifiutando tutte quelle manifestazioni inutili e di facciata, riunisce un consiglio e una cancelleria amministrativa che saranno modello per tutte quelle che verranno in futuro, non solo in Italia, ma in tutto il Vecchio Mondo, introducendo anzitempo un concetto ora ampiamente dibattuto, il welfare, specie per quanto riguarda la sanità pubblica.

Nella città infuria una pestilenza che ucciderà 30 mila persone, e per far fronte al morbo viene utilizzato un castello come ricovero raggiungibile via barca, per cercare di isolare i malati. Francesco vieta armi e prestiti degli usurai, chiude bordelli e case da gioco, luoghi affollati, i “focolai odierni” del contagio. Stabilisce che i morti vengano registrati dall’Ufficio di Sanità per nome, patronimico finora appannaggio solo dei nobili, residenza e professione, creando le basi di quella che oggi è l’anagrafe. Inizia i lavori del Duomo, indice feste celebrative, chiama artisti da tutta l’Europa, impone una tregua che garantirà per 50 anni un periodo di relativa pace in Italia. Chiama l’architetto più famoso e bravo del momento, il Filarete, per costruire l’ospedale più grande e innovativo del continente, la Ca’ Granda…

E qui mi sveglio, non perché non ci sia altro da scrivere, ma perché mi si materializza il volto di Attilio Fontana, il governatore della Lombardia, quello che ha chiamato Bertolaso dal Sudafrica, mica Renzo Piano o Portoghesi, per l’ospedale nell’ex Fiera, che (fortunatamente, aggiungo) ha avuto più pubblico all’inaugurazione che sanitari e utenti finora... E qui comprendo la differenza di chi ha fatto la storia di Milano e chi l’ha ridotta a una tragedia. Fontana, quello che fino a qualche mese fa voleva l’autonomia regionale, che si vantava di aver la miglior sanità dell’Italia, omettendo il particolare che forse andava riferita a quella privata, che i suoi predecessori l’hanno dolosamente arricchita a scapito di quella pubblica e alle spese dello Stato.

Certo sarebbe riduttivo buttare la croce sul Pirellone, quando tutto il resto del Paese ha fatto lo stesso, ma qui sono stati di una bravura unica! Hanno dato la caccia per settimana al paziente zero come alle armi di distruzione di massa di Saddam, mentre lasciavano le strutture sanitarie indifese, aperte a tutti, spostando i malati meno gravi di Coronavirus nelle residenze per anziani, condannando quest’ultimi a una morte quasi certa. Hanno subìto gli ordini degli industriali e poteri forti, lasciando intere aree ormai fuori controllo. L’unica speranza è che, finita questa situazione, la gente non dimentichi. Non dimentichi che fino a pochi mesi fa era normale respirare un’aria irrespirabile, normale prendersela con il più diverso e non alzare mai lo sguardo con chi è responsabile o ha le responsabilità. E forse tanti che ancora ci saranno terranno gli occhi bassi per la vergogna di aver votato questi tristi successori dello Sforza.

19/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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