Al contrario delle illusioni degli idealisti, già per il giovane Karl Marx nella modernità a dominare è il duro realismo, il particolarismo imperante nella società civile è il suo fondamento meramente empirico, immediato: il bisogno pratico dell’individuo egoista, la brama di profitto [1] e l’implacabile legge del mercato. “Secondo l’Ideologia tedesca, lo Stato oggettiva – esteriorizza, esprime – per se stesso l’interesse comune degli individui che affermano mediante esso stesso, nella divisione sempre più avanzata del lavoro, il loro interesse particolare; l’universale (politico) è dunque la forma illusoria (ipostatizzata), ma efficace, del comune (socio-economico). Quanto alla sua essenza, lo Stato esprime dunque il rapporto degli individui, e, mediante ciò, delle classi che lo costituiscono” [2]. Il fondamento astratto – come si illudono gli hegeliani – lo Stato politico pare determinare il reale, ovvero la società civile, mentre in realtà ne è surdeterminato [3]. Lo stato politico “è dunque incapace di agire su quei presupposti socio-economici che gli appaiono come realtà naturali, una «ipotesi che non ha bisogno di essere fondata». Una realtà che lo Stato politico pretende di dominare e perfino di trascendere, mentre vi è esso stesso subordinato e condannato a riprodurne le separazioni costitutive” [4]. Il giovane Marx, pur da una posizione ancora democratico-radicale, ritiene che nel sistema borghese lo Stato sia un che di particolare contrapposto alla società, una totalità dell’intelletto che solo apparentemente unifica le differenze della società civile, ma ne è in definitiva sovradeterminato in quanto è esso stesso una differenza. Solo nella repubblica democratica reale, non più formale quale la borghese, tale dualismo potrà essere tolto, lo Stato sarà superato in quanto contrapposto alla società civile, alla sfera della particolarità e si porrà quale totalità organica che custodisce in sé la differenza.
Al contrario, il mondo moderno è dominato dall’anarchia quale unica legge della società civile; lo stato di diritto, lo Stato politico non sono altro che “la garanzia di questa anarchia”. Tanto appaiono opposti, “altrettanto si condizionano reciprocamente” [5]. Unicamente una visione del mondo idealista o ideologica può ritenere che sia lo Stato a mantenere unita la atomizzata società civile, mentre è l’interesse egoistico di quest’ultima che tiene unito lo Stato politico.
In effetti, sciolta dai legami politici medievali la società civile liberava i suoi spiriti animali idealisticamente repressi dal terrore ispirato a un’eticità “naturale”. L’emancipazione politica aveva risolto la contraddizione ingeneratasi nel feudalesimo fra forze produttive – la moderna società civile – e rapporti di proprietà – il sistema feudale – nel suo fondamento reale: l’individuo. “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale” [6]. Ciò non valeva solo per l’Inghilterra, come aveva intuito Hegel, ma anche per gli ideali della Rivoluzione francese sanciti nei diritti umani, come mostra Marx. Del resto “gli obiettivi dei dirigenti giacobini andavano precisamente oltre l’astrazione e l’uguaglianza semplicemente giuridica, e perciò si sono urtati, in maniera esacerbata, contro i limiti di una politica tagliata fuori dalle loro condizioni e che mobilitava tutte le proprie energie per tentare di agire su di esse da una posizione di irriducibile esteriorità”. È appunto questo del resto, secondo Marx, “la risoluzione dell’«enigma del Terrore», cioè i limiti del tentativo giacobino-robespierrista di risolvere l’antagonismo della società borghese” [7]. Così, anche nella fase giacobina, “in un momento in cui soltanto la più eroica abnegazione” poteva salvare lo Stato, “in un momento in cui il sacrificio di tutti gli interessi della società civile deve essere posto all’ordine del giorno e l’egoismo deve essere punito come un delitto” [8], i cittadini ribadirono la validità dei diritti dell’uomo della Dichiarazione del 1790. Ma i diritti dell’uomo in quanto tale non sono altro che “i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, (…) separato dall’uomo e dalla comunità” [9], dalla propria essenza di animale sociale. L’uomo egoista, il bisogno pratico, il presupposto del nuovo assetto della società emancipata politicamente fu sancito già nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: “i droits de l’homme vengono, in quanto tali distinti dai droits du citoyen. Chi è l’homme distinto dal citoyen? Nient’altro che il membro della società civile. Perché il membro della società civile viene chiamato «uomo», semplicemente uomo, perché i suoi diritti vengono chiamati diritti dell’uomo? Come spieghiamo questo fatto? A partire dal rapporto dello Stato politico con la società civile, a partire dall’essenza dell’emancipazione politica” [10]. “La società feudale fu risolta nel suo fondamento, nell’uomo. Ma nell’uomo che realmente costituiva il suo fondamento, nell’uomo egoista. Quest’uomo.. è ora la base, il presupposto dello Stato politico. Come tale è da esso riconosciuto nei diritti dell’uomo” [11].
Così anche l’ultima figura della fase eroica, idealista, della borghesia, Napoleone Bonaparte era votato a un necessario fallimento, nel momento in cui, invece di limitarsi a soddisfare mediante la guerra i bisogni pratici ed egoistici della società civile che lo aveva portato e mantenuto al governo – sublimati nella forma degli interessi della nazione francese – aveva preteso di sacrificare il mondo degli affari a un fine politico superiore. Con la Rivoluzione del 1830 infine – dopo la necessaria sconfitta della Restaurazione che aveva preteso di far girare al contrario le lancette della storia – mediante lo Stato costituzionale rappresentativo, la borghesia abbandona definitivamente ogni illusione idealista dello Stato politico, non pretende più di essere latrice di scopi universali. Come osserva a ragione Marx: “la monarchia di luglio non era altro che una società per azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, società i cui dividendi si ripartivano fra i ministri, i banchieri, 240 mila elettori e il loro seguito. Luigi Filippo era il direttore di questa società” [12]. “Non è dunque lo Stato che tiene uniti gli atomi della società civile, ma il fatto che essi sono atomi solo nella rappresentazione, nel cielo della loro immaginazione, – il fatto che nella realtà sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici. Solo la superstizione politica immagina ancora oggi che la vita civile debba di necessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre, al contrario, nella realtà, lo Stato è tenuto unito dalla vita civile” [13]. Anche in tal caso il fondamento reale, materiale ha la meglio sugli ideali politici universali. Perciò, come chiarisce ancora Marx, “Napoleone è stato l’ultima lotta del terrorismo rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla rivoluzione, e contro la sua politica. Napoleone possedeva già indubbiamente la conoscenza dell’essenza dello Stato moderno; sapeva che questo Stato poggia, come sul suo fondamento, sullo sviluppo non ostacolato della società civile, sul movimento libero degli interessi privati, ecc. Egli prese la decisione di riconoscere e di proteggere questo fondamento. Napoleone non era un terrorista fanatico. Ma considerava ancora nello stesso tempo lo Stato come un fine autonomo, e considerava la vita civile, rispetto allo Stato, solo come il tesoriere e come il subalterno, che non può avere una volontà propria. Egli ha perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente. Ha soddisfatto, fino alla completa sazietà. L’egoismo della nazionalità francese, ma egli pretendeva anche il sacrificio degli affari civili, del godimento, della ricchezza, ecc., ogni qualvolta il fine politico della conquista lo reclamava” [14]. Così “come, con Napoleone, il terrorismo rivoluzionario si è contrapposto ancora una volta alla borghesia liberale, così con la Restaurazione, con i Borboni, le si è contrapposta ancora una volta la controrivoluzione. Infine nel 1830, questa borghesia ha realizzato i suoi desideri del 1789, con la distinzione, tuttavia, che, ora, il suo illuminismo politico era finito; che essa, con lo Stato costituzionale rappresentativo, riteneva di raggiungere non più l’ideale dello Stato, non più la salvezza del mondo e fini generalmente umani, ma aveva invece riconosciuto questo stato come l’espressione ufficiale del suo potere esclusivo, come il riconoscimento politico del suo interesse particolare. La storia della Rivoluzione francese, che è iniziata nel 1789, non è ancora terminata con l’anno 1830, anno in cui ha riportato la vittoria uno dei suoi momenti, arricchito della coscienza del suo significato sociale” [15].
Allo stesso modo, la concezione giovane-hegeliana secondo cui il citoyen dovrebbe essere la verità del bourgeois riproduceva agli occhi di Marx l’illusione dei rivoluzionari francesi più radicali, ma essa poteva realizzarsi unicamente mediante la rivoluzione permanente, modello cui Marx si richiamerà almeno fino al 1853.
Note:
[1] “L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce.” Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 127.
[2] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 113.
[3] “La contraddizione in cui si trova la potenza politica pratica dell’ebreo con i suoi diritti politici, è la contraddizione della politica con la potenza del denaro in genere. Mentre la prima sta idealmente al di sopra della seconda, di fatto ne è divenuta la serva.” Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica [1844], tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 205.
[4] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 267.
[5] K. Marx, F. Engels, Opere complete 1845-1848, tr. it. di P. Togliatti, vol. VI, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 203.
[6] K. Marx, Per la critica dell'economia politica [1859], Editori Riuniti, Roma, 19693, p. 5.
[7] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, p. 69.
[8] Bruno Bauer, Karl Marx, La questione…, op. cit., p. 195.
[9] Ivi, p. 193
[10] Ivi, pp. 192-193.
[11] Ivi, p. 198.
[12] Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 153. Vale la pena di riportare integralmente questo brano di Marx ed Engels: “l’anarchia è la legge della società civile emancipata dai privilegi di casta, e l’anarchia della società civile è il fondamento della situazione pubblica moderna, così come, a sua volta, la situazione pubblica è, dal canto suo, la garanzia di questa anarchia. Tanto sono opposte, altrettanto si condizionano reciprocamente” ibidem.
[13] Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, tr. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 38.
[14] Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra…, op. cit., p. 158.
[15] Ivi, p. 160. "Rintracciando allora il destino storico di tale riconoscimento dapprima impacciato nell’illusione – robespierrista e napoleonica –, che lo Stato poteva e doveva affermarsi – mediante il terrore e la guerra – negando, dal fatto della sua alterità apparente, la sua propria base, la società civile, Marx ne scopre il compimento nella rivoluzione del 1830.” B. Bourgeois, Philosophie…, op. cit., p. 108.