Riducendo l’essenza dell’individuo alla sua esistenza privata, il diritto dell’uomo, inteso come diritto del bourgeois, entra necessariamente in contraddizione con i diritti di cittadinanza su cui dovrebbe fondarsi l’universalità dell’uomo nella sua forma ideale di citoyen. Tale contraddizione formale fra diritto dell’uomo, nel senso di bourgeois, e diritti del cittadino è dispiegata e risolta da Marx riportandola sul piano materialistico della dialettica storica.
La preminenza dei diritti del cittadino su quelli naturalizzati dell’uomo, ridotto alla determinazione di bourgeois, è propria dello stato d’emergenza che attraversa la società borghese nell’epoca della sua gestazione rivoluzionaria, ovvero durante la fase più radicale della Rivoluzione francese, la fase democratico-giacobina, in cui il ceto medio – per mantenere il potere e difendere tale sviluppo della Rivoluzione – era costretto a un’alleanza tattica con la piccola borghesia rappresentata dai montagnardi e le masse popolari rappresentate dai sanculotti. Sulla base dell’ideale rousseauiano del superamento del dualismo fra cittadino e borghese attraverso il ritorno all’unità (immediata) di individuo e cittadino in armi dell’antica polis, il Comitato di salute pubblica fu costretto a violare, in talune occasioni, ciò che aveva sancito nella sua stessa Dichiarazione dei diritti: i diritti naturali dell’uomo, del bourgeois – e, quindi, in primo la salvaguardia e la sicurezza del completo godimento della sua proprietà privata – fondamento imprescrittibile dei diritti di cittadinanza. È, del resto, quanto esprime chiaramente l’articolo 11 della Dichiarazione del 1791, ribadito nella successiva Dichiarazione giacobino-democratica del 1793: “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescindibili dell’uomo”, sempre nel senso di bourgeois.
Lo Stato politico idealmente democratico si presentava, dunque, ai suoi fautori nella veste ideologia della compiuta emancipazione umana, ma essa – come fa notare Marx – non poteva realizzarsi in quanto non era in grado di togliere e superare dialetticamente, riorganizzandole, le differenze reali, materiali degli assetti proprietari su cui si fondava la divisione in classi della società. La negazione di quella parte dei rapporti di proprietà che entrava frontalmente in contrasto con le esigenze della comunità era astratta e necessariamente transeunte come il suo strumento: il Terrore, caratteristico di uno stato d’eccezione che non può divenire permanente, se non in una prospettiva distopica. Come mostra Marx, dovendo negare costantemente il proprio presupposto sociale, ovvero la sicurezza della proprietà del bourgeois, la rivoluzione politica giacobina poteva progredire verso l’emancipazione umana solo qualora lo stato d’emergenza divenisse, togliendo e superando dialetticamente se stesso, permanente. Altrimenti dall’utopia (in realtà distopica) della realizzazione d’una sovranità popolare, mediante la ricostituzione della comunità etica antica, si doveva passare all’affermazione della sovranità giuridica, caratteristica dello Stato liberale moderno.
La libertà dei moderni, per usare la terminologia hegeliana, negata soltanto astrattamente dal Terrore, finiva per affermarsi con il colpo di Stato liberale del Termidoro, rendendo il legame civico, l’essenza sociale dell’uomo un vincolo giuridico esterno al soggetto. Non appena la potenza trasformatrice della rivoluzione permanente s’arrestò, il presunto individuo pre-sociale, la persona, fu assunta quale cellula della sovrastruttura giuridica, dello Stato liberale.
Sciolta dai legami politici corporativi medievali la società civile liberava i suoi spiriti animali tanto idealisticamente, quanto distopicamente repressi dal Terrore. In tal modo l’epico cittadino rivoluzionario cedeva il passo al prosaico uomo borghese. Il Termidoro spazzava via le illusioni giacobine, che credevano possibile restaurare la democrazia reale del mondo antico, occultandone il suo fondamento nel modo di produzione schiavistico. Così anche l’ultima figura della idealistica fase eroica della borghesia, Napoleone Bonaparte, era votato – secondo Marx – a un altrettanto necessario fallimento, nel momento in cui, invece di limitarsi a soddisfare mediante la guerra i bisogni pratici ed egoistici della società civile (liberale borghese), che lo aveva portato e mantenuto al governo – sublimati nella forma di interessi della nazione francese – aveva preteso di sacrificare il mondo degli affari a un fine politico superiore dal punto di vista idealistico, ma distopico (il mito reazionario della ricostruzione dell’impero) in una prospettiva materialistica [1].
Con la Rivoluzione del 1830 – dopo la necessaria sconfitta della Restaurazione, che aveva preteso di far girare al contrario le lancette della storia – mediante lo Stato costituzionale rappresentativo, la borghesia abbandonava definitivamente ogni illusione idealista nello Stato politico, non pretendeva più – come fa notare a ragione Marx – di essere latrice di scopi universalistici [2].
Allo stesso modo, i legislatori rivoluzionari – pur pretendendo sulla scorta di Locke e Voltaire di preservare l’universalità dello stato politico, confinando il particolarismo nella società civile – assegnando alla comunità il compito di salvaguardare gli assetti proprietari esistenti, avevano sottoposto l’universalità civile alle differenze sociali materialistiche e storiche della società economica. Il diritto umano, in realtà del bourgeois, alla proprietà non è, dunque, che la pretesa a un arbitrario godimento dei propri beni privati sulla base del desiderio illimitato di soddisfazione di bisogni meramente individuali.
Non solo nelle successive differenti legislazioni positive, ovvero storiche, liberali e liberal-democratiche i diritti di proprietà conservarono la preminenza sui diritti politici, ma nella stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo i tre droits “naturali e imprescrittibili” dell’uomo, menzionati nell’articolo due, risultano sovradeterminati dal quarto: la proprietà privata. La libertà, che nelle intenzioni dei teorici dei diritti dell’uomo doveva costituire il fondamento di tale edificio, altro non era che la libertà negativa borghese “di fare tutto ciò che non nuoce agli altri”. La sicurezza della persona e dei propri beni privati diviene il fine ultimo dell’intera comunità, ponendo al suo servizio o, quantomeno sotto il proprio controllo, i diritti di cittadinanza e la sua idealizzata sostanza politica. Lo stesso diritto alla resistenza all’oppressione viene declinato quale diritto di resistenza dell’homme, ovvero del bourgeois, di fronte a ogni tentativo della comunità o dello stesso potere politico di limitarne il patrimonio privato. L’emancipazione politica aveva risolto la contraddizione ingeneratasi nel feudalesimo fra lo sviluppo delle forze produttive – che avevano gettato le basi della moderna società civile borghese – e rapporti di proprietà (fondati ancora sul tradizionale modo di produzione feudale) nel suo fondamento reale, materiale: l’individuo borghese. Fondamento del diritto è, dunque, l’uomo “naturale” hobbsiano che non si riconosce negli altri, ma li considera strumenti e vi si rapporta secondo la massima dell’homo homini lupus.
Nella rappresentazione giusnaturalista, alla base della filosofia politica e giuridica moderna borghese, perciò ripresa acriticamente dagli estensori della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, protagonisti sono degli individui indipendenti che sarebbero portatori naturali di diritti. Marx, che in un primo momento pare far sua tale rappresentazione della borghesia rivoluzionaria, ne mostrerà – approfondendo a partire dai Manoscritti parigini (economico-filosofici) del 1844 l’analisi dell’economia politica – tutte le contraddizioni, contestandone lo stesso fondamento antropologico.
Nella rappresentazione giusnaturalista a essere naturalizzata non è, come nell’età feudale, la comunità politica, ma l’individuo egoistico della società civile borghese moderna che “si può gonfiare, nella sua rappresentazione non sensibile e nella sua astrazione non vivente, fino a diventare l’atomo, cioè un’essenza irrelata, autosufficiente, priva di bisogni, assolutamente piena, beata” [3].
Al contrario, l’antropologia marxiana vede nell’uomo non un individuo isolato, ma un soggetto dotato di una essenza generica sociale. Marx riprende, infatti, da L. Feuerbach il concetto di essenza generica dell’uomo, ma ne riabilita l’origine hegeliana storicizzandolo. Il concetto d’uomo quale ente generico è presente in Hegel ed equivale all’universale della vita mediato nella singola autocoscienza. Originariamente anche la configurazione che assume in Hegel il concetto di essenza generica è ancora quella “naturale” della coscienza, analoga a quella elaborata da Feuerbach, tuttavia avendo in sé il momento della socialità, mediante lo sviluppo del riconoscimento dell’altro come sé, entra nella dimensione etico-sociale anche in modo consapevole (per sé). In Marx come già in Hegel l’uomo, quale ente generico, è riferimento a sé e riferimento ad altro, ogni ente umano/generico è operare verso sé e verso l’altro.
In quest’ottica, nella moderna società civile, andando perduta l’essenza generica dell’uomo anche il processo del riconoscimento fra autocoscienze sarà inceppato e gli individui si definiranno solo in una relazione di contrapposizione, fondamento della insocievole socievolezza caratteristica della società civile moderna borghese. L’essenza generica è funzionale a Marx a mostrare i limiti della Dichiarazione dei diritti umani, per il suo fondamento in una rappresentazione dell’uomo che universalizza determinate caratteristiche, per altro solo fenomeniche, della moderna società civile borghese. In realtà anche la concezione marxiana dell’essenza generica ha un limite interno, dal momento che finisce con il naturalizzare – in modo specularmente opposto al giusnaturalismo la comunità umana – tanto che lo stesso Marx ne prenderà definitivamente le distanze quando sarà in grado d’emanciparsi completamente dall’influenza feuerbachiana [4].
Dunque, Marx critica la rappresentazione fittizia d’un individuo-nomade autosufficiente, l’homme della Dichiarazione, che riproduce la reale alienazione dell’uomo, del bourgeois dalla sua essenza sociale. Un tale uomo limitato è rappresentato come l’homme naturale in quanto la borghesia rivoluzionaria, per affermare il proprio dominio particolaristico, doveva presentarlo quale Eden universalistico dei diritti umani. Pretendendo nel formalismo dei droits de l’homme di prescindere da ogni determinazione positiva, storica – in quanto costituirebbe una inevitabile caduta nel contingente – ha finito con l’occultare, dandogli una veste universale, una concezione dell’uomo molto particolare, naturalizzando un determinato tipo di struttura sociale, ossia quella liberale-borghese. Osserva a questo proposito, in modo emblematico, Marx: “tutto il mistero della moderna economia politica si svela ai nostri occhi. Esso consiste semplicemente nel trasformare i rapporti sociali transitori relativi a una determinata epoca storica e corrispondenti a un determinato stato di produzione materiale, in leggi eterne, generali e immutabili, leggi naturali, come vengono chiamate. La completa trasformazione dei rapporti sociali risultante dalle rivoluzioni ed evoluzioni che si verificano nel processo di produzione materiale è vista dagli economisti come una mera utopia. Essi vedono i limiti economici di una data epoca, ma non capiscono come questi limiti sono essi stessi limitati e devono scomparire ad opera della storia, così come da essa sono stati creati” [5].
Note:
[1] Cfr. K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 161.
[2] Cfr. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, tr. it. di P. Togliatti, Ed. Riuniti, Roma 1987, pp. 38-39.
[3] K. Marx, F. Engels, La sacra, cit., p. 157.
[4] Cfr. la quarta Tesi su Feruerbach.
[5] K. Marx, F. Engels, Opere complete, marzo 1853–febbraio 1854, tr. it. di F. Codino, vol. XII, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 256.