Lukács e il metodo dialettico

Nell’Introduzione a Storia e coscienza di classe Lukács mette in luce la presenza e l’importanza della radice hegeliana nel pensiero di Marx, dando rilievo all’urgenza di ripristinare il rapporto del materialismo storico con la dialettica hegeliana.


Lukács e il metodo dialettico

Nell’Introduzione a Storia e coscienza di classe [1], la cui stesura risale al Natale del 1922, György Lukács mette in luce la presenza e l’importanza della radice hegeliana nel pensiero di Karl Marx, dando rilievo all’urgenza di ripristinare il rapporto del materialismo storico con la dialettica hegeliana.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, come avevano fatto notare Marx e Friedrich Engels, era trattato come “un cane morto” nella seconda metà dell’Ottocento; e Lukács richiama una lettera del 14.1.1858, nella quale Marx “sottolinea i grandiosi servigi che gli sono derivati, in rapporto al metodo di elaborazione della critica dell’economia politica, dall’aver ripreso tra le mani la Logica di Hegel” [2]. Il problema sollevato verte principalmente sulla validità dell'eredità di Hegel nel pensiero di Marx: “il problema di Hegel si presenta in modo opposto a quello di Marx. Mentre qui ciò che importa è comprendere il sistema ed il metodo nella loro coesione ed unità – così come essi ci si presentano – e preservare questa unità, nel caso di Hegel si tratta invece di distinguere le varie tendenze che si aggrovigliano fra loro e che in parte sono nettamente contraddittorie, per salvare per il presente ciò che è metodologicamente fecondo nel pensiero di Hegel in quanto forza spirituale ancora viva. [...] Quindi, se non si vuole trattare più Hegel come un “cane morto” bisogna allora distruggere la morta architettura del sistema che ci è dato dalla storia per ridare efficacia e vita alle tendenze ancora estremamente attuali del suo pensiero” [3]. Peraltro, la contrapposizione di metodo e sistema nel pensiero di Hegel, di derivazione engelsiana, sarà una costante della lettura lukacsiana fino alle opere della maturità.

Si tratta, quindi, di elaborare una “interpretazione della teoria di Marx nel senso di Marx” [4], e ciò non può significare l’accettazione acritica delle tesi marxiane o la stanca ripetizione di singoli punti accolti dogmaticamente: nel vero marxismo “l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo” [5]. La via al e del marxismo è perciò una via sempre aperta, un itinerario da percorrere in stretto collegamento con i problemi che, di volta in volta, si presentano nella prassi concreta. La teoria, in quanto comprensione della realtà in vista del suo cambiamento, non può essere un sistema chiuso di idee ossificate – che riproporrebbe la visione contemplativa tipica della scienza borghese e con ciò la scissione di soggetto e oggetto – ma, a partire dalla prassi e superando l’immediatezza della frantumazione in parti della società, deve tendere alla ricomposizione della totalità in sé mediata. Da qui l’affermazione, eretica per il marxismo dogmatico: “ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio determinante ed onnilaterale dell’intero sulle parti è l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base di una scienza interamente nuova” [6].

La centralità accordata alla categoria di totalità consente a Lukács il recupero della dimensione storica e della soggettività, non più riferita all’individuo che non può evitare il dualismo, ma alla classe che si identifica con la totalità dei rapporti storico-sociali. È l’essere sociale del proletariato, nella sua funzione di creatore del plusvalore e quindi della riproduzione dell’intero sistema capitalistico, che consente l’accesso al punto di vista della totalità. La coscienza di classe, ovvero la raggiunta consapevolezza dei propri compiti storici, è il risultato del processo attraverso cui il proletariato da classe in sé assurge a classe per sé.

Lukács traduce materialisticamente il programma hegeliano della Fenomenologia dello spirito di concepire “il vero non soltanto come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto”.

Gli strumenti metodici di Hegel, quali le coppie dialettiche immediatezza-mediazione e in sé-per sé vengono adoperati per confutare il punto di vista degli apologeti borghesi, i quali, assumendo i fatti nella loro immediatezza, li fissano nella loro separazione e li rendono eterni. La mediazione dialettica significa anzitutto che i fatti, le cose divengono di nuovo processi storici; il presente appare nello stesso tempo qualcosa di divenuto, frutto della lotta storica di soggetti in conflitto (le classi), e qualcosa in divenire rivolto al futuro.

La polemica intrapresa da Hegel nei confronti di Immanuel Kant e di Johann Gottlieb Fichte e, in genere, contro le filosofie della riflessione, sul fondamento dell’unità di forma e contenuto e di soggetto e oggetto, viene qui riattivata in funzione della critica militante alla realtà sociale reificata, quale necessariamente appare nella sua immediatezza e quale viene cristallizzata in astorica atemporalità dall’ideologia borghese.

Secondo Lukács, Marx avrebbe continuato e sviluppato la lotta teorica iniziata e non portata a termine da Hegel: “ma il punto di separazione è la realtà. Hegel non seppe giungere sino alle forze reali che muovono la storia. In parte, perché al tempo in cui si veniva formando il suo sistema, queste forze non erano ancora chiare e abbastanza visibili. Egli fu indotto perciò a considerare come autentici veicoli dello sviluppo storico i popoli e la loro coscienza (il cui sostrato reale nella sua struttura non unitaria non fu colto da Hegel e venne perciò da lui mitologizzata come “spirito del popolo”) [7].

Al posto dello “spirito del popolo” o degli “individui cosmico-storici”, Marx ha riconosciuto le classi come soggetto della storia. Mentre Hegel resta prigioniero di quelle forme mitologiche e riconduce l’intero movimento storico nella forma mitologica più grandiosa – lo “spirito assoluto” –, irrigidendo il presente nell’ipostasi dell’Idea, Marx, sopprimendo tale idealismo, “realizza proprio il programma della sua filosofia della storia” [8].

Il punto essenziale per la teoria della storia sta nella concezione dialettica del presente, perché qui si manifesta il nesso del concetto di soggetto con quello della prassi. In essa si schiude la “possibilità oggettiva” di superare nell’attività pratico-critica l’immediatezza dell’esistente, ma non alla maniera del “dover essere” kant-fichtiano: la trasformazione rivoluzionaria del presente, che nella sua dialetticità è gravido di futuro, non può essere compiuta dal soggetto astratto dell’etica, ma solo da un soggetto che concepisca la storia come storia della propria formazione: “la conoscenza storica del proletariato ha inizio con la conoscenza del presente, con la autoconoscenza della propria situazione sociale, con l’indicazione della sua necessità (nel senso della genesi)” [9].

Se il punto di vista della totalità determina, sul piano del processo storico, non solo l’oggetto ma anche il soggetto della conoscenza e della prassi, allora il metodo dialettico non può essere esteso alla conoscenza della natura. Un uso siffatto contraddirebbe la sua stessa essenza, perché verrebbero meno i presupposti necessari per l’unità di soggetto-oggetto. L’adozione fattane da Engels nell’Anti-Dühring appare illegittima agli occhi di Lukács: “questa limitazione del metodo alla realtà storico-sociale è molto importante. I fraintendimenti che hanno origine dall’esposizione engelsiana della dialettica poggiano essenzialmente sul fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura. Mentre nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l’interazione tra soggetto e oggetto, l’unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione nel pensiero ecc.” [10].

Tale applicazione priverebbe di forza la dialettica e offrirebbe il destro alla critica “spregiudicata” dei revisionisti; in tal senso si è mosso Eduard Bernstein, il quale nel suo opportunismo vedeva nelle categorie dialettiche un orpello inutile, una costruzione forzata, da cui liberarsi per poter meglio presentare la meta del socialismo come sviluppo “naturale”, senza rivoluzione. L’operazione dei revisionisti e degli apologeti borghesi consiste, infatti, nel trasporre il metodo delle scienze naturali alla comprensione della realtà storico-sociale. Il loro procedimento è del tutto simile all’empirismo acritico che, analizzando i fatti, li assume nel loro isolamento artificiale e, strappandoli dal loro contesto vitale, li riduce alla loro essenza semplicemente quantitativa. Lo scopo è quello di ottenere una conoscenza “obiettiva”, priva di elementi perturbatori sia da parte di altri fenomeni, sia da parte del soggetto conoscente; ma la presunta obiettività, perseguita metodologicamente con la separazione di forma e contenuto e di soggetto e oggetto, si rivela, come fa osservare Lukács, del tutto illusoria. Basta considerare che la scelta dei fatti, la loro semplice catalogazione presuppongono una teoria e una interpretazione, per cui la neutralità del soggetto viene più esibita che effettivamente raggiunta; inoltre, ed è la cosa più importante, tale metodologia cancella con il suo procedimento astrattivo l’aspetto più decisivo, ossia il carattere storico dei fatti.

D’altronde, secondo Lukács, questo procedimento conoscitivo ha la sua necessità in quanto corrisponde alla scomposizione reale, oggettiva della società capitalistica. Lo sviluppo della divisione del lavoro, il carattere feticistico delle forme economiche, la fissazione delle parti del sistema in settori specialistici con leggi proprie (economia, diritto ecc.) sembrano particolarmente adatti a un’indagine di questo genere: “cosicché assume necessariamente un valore particolarmente «scientifico» sviluppare conseguentemente questa tendenza – che risiede nelle cose stesse – elevandola alla scienza. Mentre la dialettica, che sottolinea la concreta unità dell’intero di fronte a tutti questi sistemi parziali ed a questi fatti isolati e isolanti – la dialettica, che rivela questa apparenza mostrando naturalmente come essa sia necessariamente prodotta dal capitalismo – sembra essere una mera costruzione” [11].

 

Note:

[1] In Storia e coscienza di classe Lukács ha raccolto, dopo averli elaborati e approfonditi, alcuni scritti del periodo 1919-1922. I capitoli originali dell’opera sono: La reificazione e la coscienza del proletariato e Considerazioni metodologiche sul problema dell’organizzazione.

[2] György Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], traduz. di G. Piana, introduzione M. Spinella, Milano, SugarCo Edizioni 1967, p. LXVI.

[3] Ivi, p. LXVIII.

[4] Ivi, p. LXV.

[5] Ivi, p. 2.

[6] Ivi, p. 35.

[7] Ivi, p. 24.

[8] Ivi, p. 26.

[9] Ivi, p. 210.

[10] Ivi, p. 6, in nota.

[11] Ivi, p. 9.

10/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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