Lenin critico dell’avventurismo

L’attitudine avventurista è l’esatto opposto di quella che deve avere chi aspiri a essere rivoluzionario non solo a parole, ma anche nei fatti


Lenin critico dell’avventurismo Credits: https://www.lacittafutura.it/dibattito/l-ottobre-e-la-storia

Segue da La critica di Lenin all’estremismo

1.3) L’avventurismo

Lo sviluppo del capitalismo tende inesorabilmente a proletarizzare ampi strati della piccola borghesia e del ceto medio, portando alcuni suoi membri ad abbandonarsi “con facilità a un rivoluzionarismo estremistico”, impotente, osserva a ragione Lenin, per la sua carenza di “tenacia, spirito organizzativo, disciplina e fermezza” [1]. Tali piccolo-borghesi o esponenti dei ceti medi, in genere intellettuali, sono – denuncia Lenin – restii a sottomettersi alla disciplina di Partito e non dispongono di un chiaro programma politico. La difficoltà ad attuare i loro astratti ideali li spinge a confondere la concretezza della pratica rivoluzionaria con “la tangibilità immediata e la sensazionalità dei risultati” [2], come conferma la prassi anche di tanti odierni “movimentisti” che, spesso, mira più ad azioni in grado di suscitare scalpore, piuttosto che lavorare per produrre risultati duraturi nel processo di accumulazione delle forze.

La mancanza di una salda preparazione teorica porta gli avventuristi a coltivare illusioni che poi non possono che tradursi in cocenti delusioni: “il loro avventurismo – fa notare Lenin – dipende dalla loro mancanza di princîpi. La socialdemocrazia [i bolscevichi erano allora una corrente della socialdemocrazia] metterà sempre in guardia contro l’avventurismo e denuncerà in modo implacabile le illusioni che inevitabilmente finiscono con una totale delusione” [3]. Tale pragmatismo empirista, inconsapevole delle radici strutturali delle contraddizioni immediate, li porta, sottolinea Lenin, a “sacrificare gli interessi fondamentali [del proletariato] ai reali o presunti vantaggi del momento” [4]. La loro opposizione astratta alla politica riformista non se ne differenza troppo nei risultati pratici. La differenza principale che li divide è che mentre i riformisti hanno un programma social-liberale, gli avventuristi sono privi di programma. Come osserva a questo proposito Lenin: “tali gruppi [ovvero i socialisti rivoluzionari] si rivelarono avventuristici nel senso che non avevano né idee salde e serie, né un programma, né una tattica, né un’organizzazione, né radici fra le masse” [5]. A tale proposito Lenin rivendica tutta l’importanza della teoria – soprattutto in un momento di crisi delle forze comuniste – contro i socialisti rivoluzionari che ritengono che la sua mancanza favorisca l’unificazione delle forze antagoniste. Dunque, come osserva a tal proposito Lenin, “secondo noi, la crisi del socialismo impegna precisamente i socialisti che abbiano un minimo di serietà a rivolgere la più grande attenzione alla teoria, a prender con maggior decisione posizioni rigorosamente determinate, a differenziarsi più nettamente dagli elementi tentennanti e malsicuri. (..) Secondo noi, la mancanza di teoria nega a una tendenza rivoluzionaria il diritto di esistere e la condanna inevitabilmente, presto o tardi, al fallimento politico. Secondo i socialisti-rivoluzionari, invece, la mancanza di teoria è cosa ottima, particolarmente comoda ‘per l’unificazione’” [6].

Dunque una parte di quello che oggi definiremo ceto medio riflessivo in via di proletarizzazione tende a schierarsi contro il blocco sociale dominante, ma al contempo tende a praticare una politica di tipo avventurista, in quanto priva di reali e saldi legami con le masse. Osserva a tal proposito Lenin: “una politica senza masse è una politica avventuristica (..). In un paese piccolo-borghese e in un periodo storico di riforme borghesi, è inevitabile che agli operai si uniscano intellettuali d’ogni specie, è inevitabile che essi tentino di creare gruppi d’ogni genere, avventuristici nel senso sopra indicato” [7]. Perciò Lenin insiste sul fatto che il partito realmente rivoluzionario non mira a unificare gruppuscoli di intellettuali, ma la componente più avanzata del proletariato moderno. Perciò, scrive Lenin: “in nessun paese i partiti operai unificano i gruppetti e le ‘correnti’ degli intellettuali. Essi uniscono gli operai a condizione che 1) gli operai accettino e applichino le risoluzioni marxiste ben definite sui problemi della tattica e dell’organizzazione e 2) che la minoranza degli operai coscienti si sottometta alla maggioranza” [8].

Il mancato radicamento nelle masse, di cui non si sentono parte, favorisce negli intellettuali piccolo-borghesi in via di proletarizzazione, come mostra Lenin, lo sviluppo di teorie e pratiche avventuriste, sino alle fughe in avanti terroriste. Queste ultime pratiche, particolarmente diffuse in Russia prima della Rivoluzione d’ottobre, dipendeva secondo Lenin dal mancato rapporto dei rivoluzionari non marxisti russi con il proletariato moderno. Per dirla con Lenin: “i socialisti-rivoluzionari ingenuamente non s’accorgono che la loro inclinazione per il terrorismo è legata, con il più stretto nesso causale, al fatto che essi sin dall’inizio erano, e continuano a rimanere, staccati dal movimento operaio e nemmeno cercano di divenire il partito della classe rivoluzionaria che conduca la lotta di classe” [9]. Tale pratica risulta inefficace poiché, come ricorda Lenin, qualsiasi armasenza il popolo lavoratore [..] è impotente, palesemente impotente” [10]. Solo i movimenti di massa sono in grado di risvegliare le coscienze, mentre gli attentati terroristici finiscono per passivizzare i proletari, relegandoli al ruolo di semplici spettatori. Come osserva a tal proposito Lenin: “sappiamo dal passato e vediamo nel presente che solo le nuove forme del movimento di massa o il risveglio alla lotta autonoma di nuovi stati popolari destano effettivamente in tutti lo spirito della lotta e l’ardimento”. I duelli fra Stato e terroristi suscitano fra i lavoratori, denuncia Lenin, “immediatamente solo un’effimera sensazione e mediatamente conducono persino all’apatia all’attesa passiva del duello successivo” [11].

Solo nel momento in cui il proletariato, abbandonato il ruolo di spettatore, si solleva, si ridesta nel popolo “lo spirito della lotta e l’ardimento”. In mancanza di ciò è, secondo Lenin, “un delitto” accettare lo scontro aperto in un momento in cui i rapporti di forza sono sfavorevoli. Allo stesso modo, “legarsi le mani in anticipo, dire apertamente al nemico, oggi meglio armato di noi, se e quando gli daremo battaglia, è una semplice stoltezza, non è spirito rivoluzionario” [12]. Tanto più che sottrarre quadri dirigenti all’indispensabile lavoro di organizzazione delle masse, per sacrificarli in attentati terroristici, ovvero come scrive Lenin “fare appello a un terrorismo quale l’organizzazione di attentati contro i ministri da parte di singoli individui e di circoli che non si conoscono fra loro, in un momento in cui i rivoluzionari non hanno sufficienti forze e mezzi per dirigere le masse che già si stanno sollevando, significa non solo minare il lavoro fra le masse, ma anche introdurvi una vera e propria disorganizzazione” [13]. Dunque Lenin respinge con fermezza il terrorismo individuale “per ragioni di ordine pratico”, ma non tollererebbe l’astratto ripudio della violenza oggi in voga, posizione da anima bella pronta a condannare “‘per principio’ il terrorismo della grande rivoluzione francese o, in generale, il terrorismo di un partito rivoluzionario vittorioso e assediato dalla borghesia di tutto il mondo” [14].

D’altra parte Lenin considera privi di valore i politici “che non sanno ‘manovrare, stringere accordi, stipulare compromessi’, pur di evitare una battaglia manifestamente svantaggiosa” [15]. Tanto più che, sottolinea a ragione Lenin, il rovesciamento della borghesia internazionale, cui mirano i rivoluzionari comunisti, comporta una “guerra cento volte più difficile, lunga e intricata della più accanita delle guerre abituali tra gli Stati” [16]. Per vincere un nemico tanto potente non è sufficiente la massima tensione delle proprie forze, ma è altrettanto indispensabile la capacità di sfruttare “nel modo più diligente, accurato, cauto e abile ogni benché minima ‘incrinatura’ tra i nemici, ogni contrasto di interessi tra la borghesia dei vari paesi, tra i vari gruppi e le varie specie di borghesia all’interno di ogni singolo paese, ogni benché minima possibilità di conquistare un alleato numericamente forte, pur se momentaneo, esitante, instabile, infido, condizionato” [17]. Dunque, se veramente si ha la grande ambizione di voler rovesciare la borghesia internazionale è, secondo Lenin, indispensabile giocare sui contrasti inter-imperialisti e non si può rinunziare ai compromessi con dei possibili alleati, per quanto non sia possibile essere certi della loro affidabilità. Quindi, afferma Lenin, “rinunciare in anticipo a manovrare, a sfruttare i contrasti (pur temporanei) di interessi tra i nemici, rinunciare alle intese e ai compromessi con eventuali alleati (pur se momentanei, poco fidati, esitanti, condizionati), non è cosa infinitamente ridicola? Non è come se nell’ardua scalata d’un monte ancora inesplorato e inaccessibile si rinunciasse in partenza a fare qualche zig-zag, a ritornare talvolta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all’inizio per tentare altre direzioni?” [18]. Chi non ha capito questo, sottolinea con forza Lenin, “non ha capito un’acca né del marxismo né del moderno socialismo scientifico in generale” [19].

Per altro Lenin, descrivendo l’arte del rivoluzionario la definisce in sostanziale opposizione alla attitudine avventurista, in effetti il vero comunista è colui che sa valutare le condizioni in cui è possibile prendere il potere e avere l’egemonia sui lavoratori necessaria alla sua salvaguardia. In altri termini: “l’arte dell’uomo politico (e la giusta comprensione dei propri compiti da parte di un comunista) consiste appunto nel valutare giustamente le condizioni e il momento in cui l’avanguardia del proletariato può prendere vittoriosamente il potere, in cui essa può garantirsi, per la conquista del potere e dopo tale conquista, un appoggio adeguato di strati abbastanza vasti della classe operaia e delle masse lavoratrici non proletarie, in cui essa riuscirà in seguito a mantenere il suo dominio, a consolidarlo, a estenderlo, istruendo e conquistando masse sempre più grandi di lavoratori” [20]. Del resto, dal momento che dopo la presa del potere permane il predominio della borghesia – a causa dei legami internazionali e della forza egemonica della piccola borghesia – anche per procedere sulla strada della transizione al socialismo è necessaria un’attitudine antitetica a quella avventurista. Così, ad esempio, nello scontro che ci fu dopo la rivoluzione nel partito comunista sul nuovo ruolo che doveva assumere il sindacato Lenin critica come avventuriste le posizioni di chi intendeva “scuotere i sindacati” rischiando in tal modo una scissione fra l’avanguardia, ovvero il partito, e la classe, ossia le masse [21].

Continua nel numero 249

Note

[1] V. I. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, pp. 416-17.
[2] Id., Avventurismo rivoluzionario [Agosto-settembre 1902], in op. cit. p. 53.
[3] Ibidem.
[4] Id., Marxismo e revisionismo [aprile 1908], in op. cit. p. 96.
[5] Id., Sull’avventurismo [9 giugno 1914], in op. cit. p. 231.
[6] Id., Avventurismo… op. cit., p. 47.
[7] Id. Sull’avventurismo… op. cit., p. 230.
[8] Ivi: p, 233.
[9] Id., Avventurismo… op. cit., p. 48.
[10] Ivi: p. 49.
[11] Ivi: p. 52.
[12] Id., L’estremismo op. cit., p. 464.
[13] Id., Avventurismo… op. cit., p. 52
[14] Id., L’estremismo…, op. cit., p. 418. Aggiunge Lenin: “questa gente era stata coperta di ridico e di vergogna da Plekhanov nel 1900-1903, quando Plekhanov era un marxista e un rivoluzionario” [Ibidem].
[15] Ivi: 464.
[16] Ibidem.
[17] Ivi: p. 457.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ivi: p. 437.
[21] Cfr. Id., Ancora sui sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski e di Bukharin [25 gennaio 1921], in op. cit., p. 493.

24/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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