Questo terzo articolo è dedicato all’illustrazione della terza lezione del corso Storia religiosa dell’America Latina e del Caribe tenuto all’Unigramsci. L’articolo riguardo la seconda lezione è disponibile seguendo questo link.
Dal punto di vista politico le nuove colonie, di cui ampie regioni sfuggivano al controllo militare, furono completamente riorganizzate. Nel 1524 fu istituito dalla Spagna il Consiglio delle Indie, organo che esercitava il potere legislativo, esecutivo, giudiziario sui possedimenti situati sia in America che in Asia, incorporati come domini della corona, che vigilava sulle sue decisioni. Tale organismo era stato preceduto dalla Casa de Contractación, con sede a Siviglia, porto dove giungevano tutte le merci dai possedimenti coloniali, che aveva il compito di controllare il commercio con il Nuovo Mondo e anche l’appartenenza religiosa di chi intendeva recarsi in quei luoghi lontani. Si voleva impedire in ogni modo che ebrei e musulmani si stabilissero nelle colonie, anche perché la limpieza de sangre era, qui e in patria, il criterio per stabilire la collocazione sociale di un individuo. Pertanto, nessuno poteva partire per le Indie senza presentarsi prima alla Casa de Contractación, la qualetassava anche ogni merce proveniente dalle colonie del 20%, detto il quinto real.
I portoghesi cominciarono a colonizzare il Brasile nel 1530, dividendolo in capitanías, affidate a membri dell’aristocrazia, che di fatto operavano come feudatari, alquanto riottosi al controllo regale. Per vigilare meglio sulla nuova colonia e le sue straordinarie ricchezze, nel 1548 il monarca decise di centralizzarne il governo, istituendo la figura del governatore generale, trasformato successivamente in viceré.
Verso la fine del XVIII secolo l’America Latina era divisa in vari vicereami e in alcuni capitanati, mentre una sua parte era stata inglobata dagli Stati Uniti, i quali a partire dal 1846 strapparono al Messico, ormai indipendente dalla Spagna, ampi territori.
Dal punto di vista religioso, le potenze iberiche si preoccuparono assai presto dell’evangelizzazione delle popolazioni scoperte, mentre i loro teologi e filosofi discutevano sull’appartenenza alla specie umana di questi esseri così diversi dagli europei, che avevano pratiche abominevoli come il cannibalismo e il sacrificio umano. Inizialmente si procedette alla conversione forzata sulla base dell’interpretazione agostiniana del passo del Vangelo di Luca “compelle intrare” (costringi ad entrare, ovviamente nella Chiesa). Ma la politica delle conversioni forzate, stimolate dall’iniziale conversione dei capi dei popoli nativi, si mostrò ben presto inadeguata al raggiungimento di un’effettiva cristianizzazione. Allora ci si scagliò contro i restanti sacerdoti e cacicchi, ritenuti i responsabili di mantenere saldo il legame con le antiche tradizioni religiose. Per esempio, in Messico negli anni 1536-1540 si svolse una serie di processi inquisitoriali, tra i quali non si può evitare di menzionare il celebre processo contro Don Carlos Ometochtzin, intentato dal vescovo francescano Juan de Zumárraga, che lo incolpò di aver nascosto “idoli pagani”, di venerarli e per questo lo fece ardere vivo nel 1539.
In tale contesto storico il dibattito sulla natura delle religioni native si fece incandescente: per alcuni esse erano demoniache, perché ispirate dallo stesso demonio, il quale suggeriva agli indigeni riti e pratiche similari a quelli cristiani per ingannarli. Pur condiscendenti verso la politica dell’estirpazione (v. più avanti), altri, come il gesuita José de Acosta (1539-1600), erano convinti, invece, che tali somiglianze dimostravano che ben radicati nella religiosità amerindia stavano i “semi del verbo”, che i missionari avrebbero potuto fecondare con la loro azione.
Agli occhi degli spagnoli e dei portoghesi la conquista del Nuovo Mondo e l’evangelizzazione dei suoi abitanti appariva come una continuazione della riconquista della penisola iberica attuata con la cacciata dei mori e degli ebrei. Si trattava, dunque, di una nuova crociata, il cui fine era l’espansione della “civiltà” e della “vera religione”. Tale maniera di sentire, che può apparire consona alla fase medioevale della storia, sembra essere in realtà una costante nel modo in cui il mondo occidentale si è rappresentato e continua a rappresentarsi il suo ruolo “epocale”, riassumibile nell’espressione il “Destino manifesto”. Con queste due parole negli anni ‘40 dell’Ottocento si intendeva affermare che agli Stati Uniti era stata attribuita la missione di esportare ovunque il loro modello di organizzazione politica, ossia la tanto invocata “democrazia”. Insomma, si potrebbe dire che proprio gli Europei e i loro discendenti hanno inventato il fondamentalismo [1] e ne abbiano fatto la loro vera bandiera, trasformando in universale con qualche formula filosofico-politica ciò che è specificamente europeo.
Come i missionari si divisero sulla maniera di considerare le religioni indigene, così cominciarono a discutere sulla strategia migliore da adottare per portare avanti l’evangelizzazione; dibattito che, del resto, persiste ancor oggi. Grosso modo possiamo dire che alcuni sostennero la necessità di estirpare le pratiche e le credenze tradizionali, distruggendo oggetti, immagini, suppellettili e castigando con severità i presunti colpevoli di idolatria, altri – come Acosta – ritenevano che con certe opportune modifiche qualche aspetto del retaggio ancestrale nativo poteva essere conservato. Per di più – come si è visto – lo stesso Acosta ed altri ritenevano legittime le due strade. La Chiesa cattolica decise, infine, di essere clemente verso gli amerindiani e di non farli più oggetto di persecuzione da parte dell’Inquisizione, istituendo a scopo repressivo l’estirpazione dell’idolatria. Gli addetti a questa pratica venivano inviati nei luoghi dove si sospettava l’idolatria fosse ancora seguita, sia pure celata da un velo di cristianesimo; il loro obiettivo era quello di individuare gli idolatri, sollecitando confessioni e denunce con l’uso della prigione e delle torture. Gli indigeni venivano considerati “nuovi convertiti” e quindi più inclini all’errore; per questa ragione si usava verso loro un certo riguardo: i colpevoli non venivano arsi sul rogo, ma imprigionati, deportati, condannati al lavoro forzato.
L’accettazione di quelle pratiche non in contraddizione col cristianesimo, definita nel Novecento inculturazione, fu adottata anche in America Latina, ma si affermò soprattutto in quelle regioni del mondo in cui non si era potuta realizzare la conquista militare del territorio da parte degli europei, come in Cina. In tali luoghi lontani, in cui erano ben radicate antichissime tradizioni religiose, si ritenne opportuno individuare quelle credenze e quei riti più simili al cristianesimo, che proprio per questo potevano essere utilizzati per veicolare il messaggio evangelico. È questa la strategia vigente ancora oggi nel settore progressista della Chiesa cattolica, dalla quale è scaturita la Teologia india, elaborata dagli stessi nativi, mescolando le diverse tradizioni religiose entrate in contatto (sincretismo). Infatti, possiamo senz’altro affermare che il risultato della colono-evangelizzazione non fu la cristianizzazione totale del subcontinente latinoamericano, ma lo sviluppo di una forma specifica di cattolicesimo, indicata col termine religiosità popolare, nella quale convivono in un groviglio inestricabile elementi propri della cristianità fusi con elementi propri invece del mondo precolombiano. Si tratta di un singolare processo che ha riguardato non solo le religioni indigene, ma anche quelle che gli schiavi africani, se riuscivano a sopravvivere alla traversata dell’Atlantico, portavano con loro quale strumento identitario e protettivo [2].
Qualcuno potrebbe ricavare da questa osservazione che il progetto missionario cattolico sia fallito, ma credo che questa conclusione sia da respingere perché, se l’obiettivo della Chiesa cattolica è quello di raggiungere e consolidare la sua egemonia, non ha bisogno che i suoi affiliati in tutto e per tutto adottino il cattolicesimo ufficiale; è sufficiente che essi riconoscano la supremazia dell’istituzione, pur elaborando letture assai diverse del messaggio religioso, le quali tuttavia non debbono andare oltre una certa soglia di differenziazione e soprattutto non debbono contenere elementi apertamente critici e contestatari. In questo senso, possiamo dire che la Chiesa cattolica ha sempre concesso un certo spazio di manovra ai suoi fedeli ubbidienti, accettando nel suo seno forme religiose di origine popolare e al contempo reprimendo con la violenza chi metteva in discussione il suo ruolo dominante [3].
Pertanto, avviandoci alla conclusione di questo breve scritto, si può affermare che il risultato della colono-evangelizzazione dell’America Latina fu lo sviluppo, a livello popolare, di un cattolicesimo che presenta forme più o meno accentuate di sincretismo e che, tuttavia, convive sia pure non sempre agevolmente con il cattolicesimo ufficiale. Un altro risultato è costituito sicuramente dal sottosviluppo del subcontinente, cui certamente ha contribuito la Chiesa cattolica, appoggiando il regime coloniale e i successivi governi antipopolari.
Un’altra conseguenza è rappresentata dal rafforzamento di quell’atteggiamento fondamentalista, cui si faceva cenno e che ha investito l’Europa e i suoi successori statunitensi di un ruolo speciale ed unico di preminenza nella storia. Non dobbiamo farci ingannare da coloro che esprimono pentimento (la Chiesa) per le distruzioni che hanno provocate: il pentimento è solo una vuota parola se non accompagnato da riforme radicali che eliminino la possibilità che quanto è accaduto si ripeta. Nel caso della Chiesa – come sostiene Hans Küng – si potrebbe per esempio cominciare con l’abolizione del dogma dell’infallibilità papale, che priverebbe il papa della sua aurea sacrale e farebbe delle sue parole semplicemente opinioni.
Note
[1] Invero, questa parola viene applicata alle correnti protestanti statunitensi che si fondavano e si fondano sulla lettura letterale della Bibbia.
[2] Processi simili si sono realizzati in altri momenti e contesti quando forme sociali diverse si sono incontrate e sono entrate in violento conflitto. Si pensi, per esempio, a quanti aspetti del paganesimo il cristianesimo ha assimilato nel passaggio dalla società antica a quella tardo-antica.
[3] Come fece il già citato Don Carlos, il quale si chiedeva perché mai avrebbe dovuto abbandonare il culto delle divinità appreso dai suoi antenati.