Premessa
Il teatro in carcere, è una delle attività che da sempre ha suscitato in me, come in molti, vari interrogativi sia dal punto di vista etico che artistico, portandomi a riflettere sulla sua funzione ‘formativa’ e ri-educativa, cosa che di fatto lo rende, dove si riesca ad attuare, uno strumento a cui istituzioni ed enti dedicano energie e risorse.
Ma a Volterra questo discorso è stato capovolto, nel senso che il fine dell’impegno preso con il laboratorio di ricerca teatrale dall’associazione Carte Blanche, è quello artistico, il resto non è che conseguente. Qui c’è una lunga stabilità di fatto dell'attività teatrale tant'è vero che la Compagnia della Fortezza di Volterra rivendica da tempo il suo pieno riconoscimento come Teatro Stabile.
Per questo, non rinuncio a ricordare Cesare Beccaria, la sua riflessione filosofica sul concetto di “pena” nella società. Quale funzione deve avere una pena, e come può uno Stato rispondere, al reo e alla società, nel modo che gli deve essere proprio, che non è quello di terrorizzare o di scandalizzare, né di compiere delitti ancor peggiori di quelli commessi dagli imputati, ma, oltre che tutelare la convivenza sociale, di indicare, quando possibile, una strada per recuperare se stessi, per riacquistare dignità, per ‘farsi perdonare’ dalla società o, perlomeno, di rendere a questa qualcosa che le si è sottratto? Educare e prevenire. Per arrivare ai suoi ragionamenti sulla pena di morte e sulle torture, lucidissimi. Una riflessione che ancora attualmente viene fatta in Italia, proprio sulle condizioni e gli scopi della detenzione, sulla relazione tra rispetto della dignità umana da parte di chi amministra la giustizia, e la colpa.
Ho conosciuto alcune persone che svolgono o hanno svolto attività teatrale in carcere, e anche in un’altra “istituzione totale” come il manicomio, dove anche io ho insegnato e fatto teatro per un anno. Ma questa è la prima rappresentazione a cui assisto in carcere. Credo che non sempre si possa riportare in parole ciò che si vive o il significato che ha l’esperienza che passa attraverso l’arte. I linguaggi artistici non verbali hanno una loro potenza proprio perché non possono essere confinati solo nelle parole con cui si raccontano le opere e l’esperienza.
Qui racconto questa bellissima esperienza e qualcosa riguardo la storia della Compagnia, in più cercherò di registrare le mie ‘impressioni’ nell’assistere alla rappresentazione. Direi che ho più partecipato che assistito, in quanto è stata di fatto un’immersione totale nella dimensione creata dal regista, dagli attori e dai suoi collaboratori. Ho avuto poi la possibilità di fare un’intervista telefonica al regista Armando Punzo, con cui non ero riuscita a parlare al momento della rappresentazione; del dialogo cercherò di riportare ciò che sono riuscita a raccogliere, rispetto alle mie domande che volevano scavare in più direzioni.
La Compagnia della Fortezza di Volterra
Perché fare una premessa? Perché istituire un Laboratorio di Ricerca teatrale in un carcere non è la stessa cosa che farlo in una scuola; così come entrare in un carcere per assistere ad una rappresentazione teatrale, non è la stessa cosa che andare in un qualsiasi altro teatro, all’Argentina ad esempio, se stai a Roma. Certamente puoi fare la prenotazione online, ma poi la procedura, per cui, prima di accedere, devi dare i tuoi dati e poi lasciare il tuo documento, poi essere ‘scannerizzato’ dalla polizia penitenziaria, lasciando borse e accessori, già ti fa entrare in un’altra dimensione. Così come quando accedi agli spazi, passando attraverso cancellate e cortili ricchi di sistemi di sicurezza e di sbarre, sotto lo sguardo del personale di polizia penitenziaria. È davvero un contesto particolare che potrebbe divenire tanto suggestivo quanto inquietante.
La Compagnia, gestita dall’associazione Carte Blanche, quest’anno è al suo ventinovesimo anno di attività, iniziata da Armando Punzo nel 1988, e ha una storia complessa, come è scritto nel suo sito:
“Mettere ordine nella storia della Compagnia della Fortezza non è impresa da poco. Tanti i momenti e gli episodi che hanno costellato la straordinaria esperienza di questa compagnia e difficile sarebbe scartarne qualsiasi. La Compagnia della Fortezza è frutto di tutto e di tutti quelli che ne hanno “attraversato” o accompagnato le vicende. Così è stato, e così sarà.”
Nel tempo l’associazione Carte Blanche (fondata da Punzo nel 1987) sostenuta dal MIBACT, si è ben strutturata e ha raccolto uno staff articolato che cura relazioni e scambi, un’organizzazione in grado di gestire, oltre al laboratorio in carcere curato personalmente da Armando Punzo: rassegne, rapporti con le scuole e con la regione, con manifestazioni di livello internazionale, di attuare progetti europei e formazione professionale. Ha ottenuto premi e fatto nascere altre realtà associative con le quali interagisce, rimanendo un punto di riferimento per quanti, come studiosi o ricercatori, vogliano conoscere e capire la straordinaria vicenda umana e teatrale della realtà carceraria che si è realizzata nella casa di reclusione della Fortezza di Volterra.
Progetto Hibrys: Le parole lievi. Lo spettacolo.
“Voglio sognare un uomo e imporlo alla realtà”
Questo lavoro si ispira all’opera di Jorge Luis Borges.
Sulla scena circa settanta attori della Fortezza, inoltre alcune studentesse e alcuni studenti stagisti che il regista ha inserito nell’ultimo periodo del montaggio, per alcuni ruoli. Ogni aspetto della rappresentazione sembra far parte di un “quadro vivente” che cambia, più o meno velocemente, in relazione agli altri che ‘appaiono’, così da avere l’impressione di passare attraverso diversi mondi tanto inverosimili quanto straordinari, visioni che vengono da un luogo ‘altro’ e ci parlano, evocando le essenze di quei luoghi, mentre le azioni si susseguono, le parole ci portano lungo percorsi inesplorati. Tutto è in continuo movimento, come il divenire eracliteo che è l’unica certezza che il logos dà agli uomini. E l’acqua presente sulla scena in cui si immergono personaggi o galleggiano cose, rievoca il fiume e viene continuamente attraversato e percorso.
I personaggi sono visioni forti e penetranti, del tutto uniche e quando non sono mirabolanti immagini silenti, raccontano di sé o di un desiderio, di una storia probabile.
Il tempo si è fermato o meglio si è espanso, è quella durata bergsoniana, che in me non ha confini.
La musica accoglie e accompagna, emoziona, guida o segue, si intreccia all’azione, infatti è nata insieme alla creazione teatrale, ad opera di Andrea Salvadori che, insieme agli altri musicisti ci accompagna dall’inizio alla fine.
All’inizio, accedendo allo spazio della rappresentazione, il pubblico passa sotto una galleria formata da alte canne tenute in mano e battute tra di loro dagli attori schierati su due file, sembrano monaci buddisti o piuttosto samurai, non saprei definire…passando osservo gli sguardi degli attori nella loro particolarità e intensità.
Sulla scena, Armando Punzo è presente, e la sua presenza sulla scena non è solo quella dell’attore o del regista, è un punto di riferimento, orologiaio che sa come guidare l’ingranaggio perché tutto scorra, ma, ancor più forte, si sente il suo sguardo che accompagna, che incoraggia colui che ne ha bisogno.
Personaggi sognati come l’uomo con il pianeta in mano o quello della notte con la sua lanterna che camminano sull’acqua, guerrieri che attraversano lo spazio, ma anche un bambino che gioca e che guarda. L’eterno bambino sognatore o creatore? Il folle danza e pone assurde domande, raccogliendo i sorrisi del pubblico attorno a sé. L’ultimo quadro diviene un’emozione intima, commovente: un giovane dai capelli lunghi, dopo aver recitato il suo monologo al microfono tenuto in mano dal regista, che sembra sostenerlo con lo sguardo, danza con lui una milonga e l’abbraccio in cui si perde è sincero. Un’umanità che si apre nella sua eroica debolezza.
È un teatro visionario estremamente potente, per la presenza forte e autenticamente sentita dei componenti della compagnia della Fortezza. Per la corrispondenza dei particolari scenici, dei movimenti, dei costumi e delle musiche con tutto l’insieme. Si sente tutto il sapore del frutto di un lavoro di ricerca profondo e aperto a cui ognuno ha preso parte integralmente.
Ciò non toglie che ogni spettatore potrà sentire e recepire in modo del tutto personale le suggestioni e i pensieri che le narrazioni hanno portato sulla scena.
Terminata la rappresentazione sotto il sole, cerco l’acqua al tavolo predisposto; sono programmati interventi di esperti, ma non potrò rimanere… così mi guardo intorno, incontro una guardia penitenziaria che mi dà conferma della sensazione che avevo circa la relazione tra il regista e i detenuti della Fortezza. Mi ha parlato di una presenza costante, anche durante le feste, di otto ore circa al giorno in cui le attività che si svolgono, in collegamento al laboratorio teatrale, sono diverse. Mi chiede: “Vede che atmosfera c’è qui? Siamo tranquilli… Secondo lei si potrebbe stare così se non ci fosse stato questo tipo di lavoro continuo, da tanti anni? Ci sono 160 detenuti qui, tutti a tempo lungo.” Ha parole di gratitudine e di stima verso questo artista-ricercatore così speciale.
Ho la fortuna di incontrare anche una collaboratrice di Punzo, Rossella Menna, che mi dà alcune utili informazioni per reperire materiali e contatti. E poi incontro uno studente e una studentessa che mi dicono qualcosa sul loro stage, o tirocinio, di studenti universitari che vengono introdotti nell’ultima fase in alcune scene.
Dialogo telefonico con Armando Punzo
Alcune domande avevano trovato già risposta dagli scambi avuti dopo lo spettacolo. Il lavoro del laboratorio è a tempo pieno e questo consente una relazione profonda con i testi che vengono letti e discussi, e tra gli attori-detenuti e il regista-animatore del laboratorio.
Non ho potuto fare a meno di chiedere come e perché ha iniziato qui, in carcere, con quale intento, anche perché Borges, su cui il progetto Hybris si basa, ci consegna il compito della “reinvenzione della realtà” …
A.P.: Il teatro è prima di tutto ciò che rende possibile…il senso del teatro è far esplodere la realtà in cui si innesta, in questo caso il carcere, portare dentro il carcere il teatro è una situazione ‘anomala’. È modificare la realtà, far in modo che non rimanga uguale a se stessa…Questo è stato il mio punto di partenza, il senso che ho voluto dare a questa ricerca…
L.N. Borges reinventa la realtà, la sua opera letteraria sembra quasi essere la cifra del tuo lavoro, non solo di questo progetto…
A.P.: Vedi, ci sono vari autori, sui quali lavoro e coi quali ho amato confrontarmi… i testi vengono letti, analizzati, destrutturati… Borges è uno dei compagni di strada, per la sua capacità di mettere in crisi il principio di realtà. L’opera di Borges è difficile, devi farne una lettura attenta, critica. E poi non esiste un’iconografia dei suoi personaggi. I suoi personaggi sono extra-quotidiani, trasformano l’identità, vanno oltre la dimensione conosciuta. E poi, qual’ è la realtà, esiste una Realtà? Questo è un tema filosofico eterno…
L.N. (Mi viene in mente il tema del rapporto tra realtà e soggetto che Cartesio ha posto con il cogito ergo sum, anzi con il dubitare, che ci dà conferma solo del fatto di pensare…)
In effetti, questo è un teatro visionario, in cui lo spettatore “entra”, in cui ogni personaggio ha una profondità e un suo mondo, e ci interroga. Come ti avvicini per iniziare, come coinvolgi ogni detenuto? So che qui a Volterra risiedono solo coloro che hanno pene lunghe.
A.P.: Il teatro è il Progetto comune che abbiamo, questo ci tiene insieme. È un lavoro enorme, io sono qui otto ore al giorno. C’è un grande lavoro collettivo, ma c’è anche un grande lavoro personale da parte di ognuno: si leggono le opere, se ne fa una lettura completa e complessa che suscita idee e proposte sulle quali poi ragioniamo, perché siano indirizzate. C’è il gruppo degli attori-lettori, loro fanno un lavoro lungo, intenso. Poi c’è il gruppo che si dedica alla scenografia, che arriva dopo ed è guidato anche questo da un responsabile.
L.N.: Le relazioni. Ho notato gli sguardi degli attori, tra voi…ma ho anche osservato io gli sguardi degli attori, a volte curiosi (o timorosi?). Come anch’io d’altronde mi chiedevo il motivo della loro detenzione. Ho osservato il tuo sguardo verso gli attori, quello con l’interprete del monologo e della milonga finale, uno sguardo che esprimeva la tua funzione d’incoraggiamento e maieutica al tempo stesso.
A.P.: Sì, certo, ci sono anche delle relazioni, alcune sono più forti…io sto qui tutti i giorni per otto ore d’altronde, è naturale. Gli attori-detenuti sono abituati alla presenza del pubblico…E quella milonga finale è nata così dall’inizio, non si può mettere in parola…è qualcosa che va oltre… Danzare un’altra possibilità…per rispondere alla domanda che mi sono posto su che cosa ho fatto in tutti questi anni.
L.N. So che partecipate a rassegne, quindi andate fuori, in viaggio: come vi organizzate?
A.P.: Naturalmente non tutti possono uscire. Solo quelli che usufruiscono del permesso secondo l’articolo 21. Pensa che eravamo 72 in scena. Per le uscite, c’è da fare un adattamento, si riduce, a volte si inseriscono degli attori in sostituzione.
L.N. La musica è stata splendida, unica, ci ha accompagnati, quasi una colonna sonora, ma ancora più…
A.P.: La musica viene composta da Andrea Salvadori, insieme alla lavorazione dello spettacolo. Lui osserva, partecipa al laboratorio, segue e osserva le scene, compone. Eppure in questo caso - appunto Le parole lievi, una ricerca sulle parole - la musica doveva essere assente…