Tra classe e genere si palesa sempre di più una rilevante contraddizione, se si può perdonare il gioco di parole.
In passato, per il movimento femminista storico la contraddizione tra le categorie del maschile e del femminile era ovviamente quella centrale, la chiave esplicativa della dinamica generale delle società umane; per il marxismo è sempre stato l’esatto opposto: è la contraddizione di classe, capitale-lavoro, a dare luce anche a quella di genere, sussumendola.
Dal 1989 (davvero un anno fatale si potrebbe dire!) il panorama si è complicato con l’avvento della prospettiva intersezionale, promossa dalla giurista, attivista e accademica statunitense afroamericana Kimberlé Crenshaw.
Ma cosa ci dice Crenshaw che non per niente è stata membro dell’Istituto Aspen, finanziato da fondazioni come la Rockfeller Brothers Fund e la Ford Foundation?
In sostanza, l’intersezionalità afferma la pluralità delle identità sociali di un individuo alle quali corrispondono (si sovrappongono) i diversi tipi di oppressione che egli/ella subisce. È evidente pertanto che non vi è più una principale contraddizione che possa spiegare tutte le altre, ma al contrario ve ne sono molteplici (di razza, di genere, di classe, di religione, anagrafiche) tutte sullo stesso piano, quindi con pari dignità.
Peraltro, tutte queste contraddizioni generate da un sistema che non è più soltanto capitalista, ma anche razzista e patriarcale, non determinano soltanto e soprattutto lo sfruttamento nel senso preciso che Marx dà a questo termine, ovvero la relazione sociale entro la quale si genera plusvalore a favore dei detentori di mezzi di produzione. Queste contraddizioni riproducono, invece, una generica oppressione che impatta sulle diverse articolazioni dell’individuo, soprattutto a livello psicologico e relazionale, ma non ha una immediata connessione economica.
Intersezionalità: il punto di vista del singolo soggetto al posto di quello dei subordinati
La prospettiva intersezionale di Crenshaw ha avuto una vasta eco nel corso degli ultimi trent’anni, di essa si sono appropriati vasti movimenti di massa: femministi, transfemministi, Lgbtq, perfino di taglio anticapitalista. Tutto ciò è spiegabilissimo: il crollo del socialismo reale ha indotto l’oscuramento non solo del marxismo, ma in sostanza di ogni concezione esplicativa universale.
Chi si è posto in una prospettiva critica nei confronti del sistema e dell’establishment politico, lo ha ha fatto a partire da singoli interessi immediati al momento non “valorizzati” dal complessivo sistema sociale. Era invece difficile opporsi dal punto di vista dell’alternativa globale al sistema capitalista, considerando il rovinoso esito del blocco socialista.
Pertanto, introiettando la prospettiva fino a ora vittoriosa, tipica del pensiero liberale e borghese, ci si è opposti, partendo dal terreno dell’individuo concreto, dei suoi bisogni, delle sue speranze, delle sue illusioni. E certamente, qui Crenshaw ha assolutamente ragione. Se sono un’operaia, nera, giovane, omosessuale e magari appartenente a una minoranza religiosa (per esempio islamica), io sperimento diversi tipi di oppressione, in alcuni casi di eguale intensità, e la mia richiesta di riconoscimento di diritti si esplica attraverso piattaforme politiche diverse, spesso in concorrenza e/o in contrapposizione tra loro.
Il marxismo, però, non si è mai posto dal punto di vista del singolo concreto, ma ha sempre cercato di comprendere l’insieme della dinamica di una società a partire da un soggetto collettivo, la classe dei subordinati: di chi è costretto per sopravvivere a vendere la propria forza-lavoro ai detentori dei mezzi di produzione al costo della riproduzione di questa stessa forza-lavoro.
Come ha spiegato Lukács in Storia e coscienza di classe, non si può avere analisi storica senza la categoria di totalità, in assenza di questa si ha invece una serie disagregata di fatti di cronaca. Una totalità che va compresa nei suoi nessi dialettici che sono del tutto estranei alla cultura “liberal” nordamericana, tutto sommato da sempre improntata al pragmatismo e poco incline alla dialettica: su quella sponda dell’Atlantico John Dewey sopravanza facilmente Hegel.
Il capitalismo vive di “minoranze”, l’intersezionalità può fornirgli una graduatoria
Il sistema capititalista per sopravvivere ha incessantemente bisogno di frantumare il corpo sociale complessivo, di produrre nuovi segmenti da sfruttare o da valorizzare. Tutto ciò non soltanto per la ben nota legge del “divide et impera”, ma proprio perché nella sua dialettica complessiva di sviluppo, fondata sul binomio concorrenza-concentrazione e sullo sfruttamento dei mondi non capitalistici (natura, relazioni familiari, eredità di precedenti sistemi sociali), deve determinare incessantemente disuguaglianze, dislivelli tra classi sociali, popoli, nazioni, generi sessuali, identità individuali, mode, gusti ecc.
Pertanto, la logica del pensiero intersezionale è del tutto compatibile con il funzionamento del capitalismo, anzi per certi versi può fornirgli l’hit parade o la graduatoria aggiornata dei soggetti da escludere o da valorizzare secondo le circostanza e i rapporti di forza.
Questo significa che la contraddizione di genere non ha alcun valore scientifico o di trasformazione sociale? E così anche per la lotta alla discriminazione razziale o religiosa?
La risposta è: assolutamente no.
La contraddizione di genere, per esempio, è reale e impatta sulle condizioni di vita e di lavoro della attuale classe operaia in Italia e a livello internazionale. Secondo l’Ispettorato nazionale del lavoro il 73% delle dimissioni volontarie effettuate nel 2017 in Italia era di lavoratrici-madri, nel 2019 secondo Eurostat le paghe orarie delle lavoratrici nell’Unione Europea erano in media inferiori del 14,1% a quelle maschili e così via discriminando.
È pertanto evidente che chi intenda trasformare l’assetto attuale della società capitalistica verso un modello socialista deve affrontare anche le contraddizioni di genere, se non altro per rendere pienamente disponibile alla lotta rivoluzionaria l’intero corpo della classe lavoratrice, ovvero tutto il settore femminile che altrimenti rimarrebbe oppresso, oltre che dalle ineguaglianze interne alla classe, dal lavoro domestico e dalla cura dei figli e poco sensibile alla lotta politica.
La specifica lotta di genere è quindi assolutamente rilevante, ma assume il suo pieno significato nel quadro della generale lotta di classe contro il dominio della borghesia.
Il sistema del capitale ha certamente ereditato alcune disuguaglianze, per esempio, dalla storia precedente del patriarcato, ma queste contraddizioni che pure sono ben radicate in esso data la loro longevità, non gli sono però consustanziali come dimostrano le parabole di alcune donne pienamente parte dell’establishment politico ed economico (basti pensare a Margareth Thatcher).
L’intersezionalità può essere una proposta politica, ma non una prospettiva teorica
Dato per assodato che la prospettiva intersezionale della Crenshaw non si accorda affatto con il marxismo e appare una iniziativa teorica tutta chiusa nel campo riformista e liberaldemocratico, ci si può interrogare sulla possibilità di correzioni di questo strumento in un senso marxista e socialista. Una risposta positiva, a mio parere, può esserci soltanto nella misura in cui l’intersezionalità riconosca tuttavia la crucialità dello scontro capitale-lavoro.
Anche il tentativo recente dell’accademica statunitense Ashley J. Bohrer nel suo libro del 2019, Marxismo e intersezionalità [1], di conciliare le due prospettive mi pare giunga alla necessità del riconoscimento del confronto con l’unica struttura generatrice delle disuguaglianze, ovvero il dominio del capitale.
Per il resto, l’autrice in questione propone la costituzione di una coalizione dei “diversamente oppressi” che ha una valenza positiva, ma a me pare più sul terreno della pratica politica e non su quello della teoria.
Il pensiero liberale ha da sempre un approccio differenzialista su tutte le questioni, a maggior ragione nell’epoca attuale nella quale svolge un compito eminentemente reazionario di divisione delle forze potenzialmente ostili al sistema. Di qui nasce la necessità di chi si batte per una prospettiva socialista di utilizzare un pensiero “forte” capace di riunificare i diversi settori subalterni attorno a una chiara piattaforma teorica e una robusta proposta politica.
Nel farlo è necessaria un’attenta analisi dei materiali depositati nel campo dei subalterni dal pensiero politico borghese (anche illuminato) per capire se può effettivamente servire alla lotta per una società nuova. Sarà facile scoprirvi spesso il tarlo del corporativismo e della divisione tra chi si batte per i diritti civili e che si batte per quelli economico-sociali.
Sulla bandiera autentica del socialismo sono invece iscritti entrambi con caratteri indelebili.
Note:
[1] Marxism and Intersectionality: Race, Gender, Class and Sexuality Under Contemporary Capitalism, transcript publishing, 2019.