Tornando sull’importanza delle parole e sul come il loro impiego spieghi la concezione del mondo soggiacente e talvolta volutamente nascosta, avrete probabilmente osservato che il linguaggio semi-colto, quello dei mass media, quello degli uomini di cultura, professori universitari, “esperti” che vengono intervistati per gettarci le perle del loro sapere è costantemente infarcito, in maniera a mio dire fastidiosa, dall’avverbio modale “in qualche modo”. Ci si potrebbe chiedere se non si tratti di una sciocchezza, di una minuzia, su cui non vale la pena riflettere. Eppure a me non sembra tale, perché getta luce su alcuni aspetti di quella che può essere definita “ideologia quotidiana” o anche “senso comune” [1], nell’accezione gramsciana, a sua volta definito dallo studioso marxista “il folclore della filosofia”, prodotto dalla sedimentazione dei contenuti delle correnti culturali e filosofiche precedenti.
Aggiungo che questo mio fastidio per “in qualche modo” è stato preceduto nel 2008 da un articolo di Adriano Sofri su Panorama, nel quale scrive che tale avverbio: “sembra riportare una vaghezza, un’attenuazione, in qualche modo (anche lui non ne fa a meno) un’attenuante generica alla sciocchezza che si sta dicendo…”. Tuttavia, Sofri ne fa una sorta di vezzo e non ne approfondisce le radici sociali.
Tale insistenza sull’uso di “in qualche modo” mostra che si prova una grande paura nei confronti della parola dichiarativa, categorica, e che non si intende assumere pienamente la responsabilità del significato di una parola pronunciata nell’interazione sociale. L’uso dichiarativo e categorico sembra essere limitato agli scritti scientifici, negli altri ambiti ci si contenta di esprimere opinioni opinabili che è sempre possibile rimangiare o rielaborare a seconda della reazione degli ipotetici interlocutori (basti pensare allo squallido dibattito politico, cui partecipano sempre i soliti protagonisti).
Naturalmente non voglio sostenere che in alcuni casi “in qualche modo” sia del tutto inutile, ma affermazioni del tipo: “I problemi ambientali ci mettono tutti in qualche modo nelle stesse condizioni” oppure “Dobbiamo in qualche modo capire noi stessi per migliorarci” non richiedono nessuna specificazione e nessuna ulteriore sfumatura, la frase aggiunge solo un senso di confusione e di oscurità e quindi avvolge di incertezza l’affermazione fatta. E sollecita altre domande: cosa significa capire noi stessi e in che misura dovremo modificarci?
Inoltre, c’è un altro aspetto interessante inerente al contenuto ideologico dell’espressione “in qualche modo”: essa intende introdurre complessità, articolazione di fattori diversi, la quale sarebbe negata da affermazioni secche e riduttive del tipo “la guerra all’Iraq è stata scatenata per controllare le sue riserve energetiche”. Tali affermazioni, volte all’individuazione dei diversi fattori – quali le differenze religiose e culturali -, non propongono tuttavia una gerarchia tra questi ultimi, i quali necessariamente possono operare con pressioni di portata differente. Oscurando il gioco dei fattori in un intreccio olistico e indeterminato, tali affermazioni hanno tuttavia il vantaggio, per chi le esprime, di non farci assolutamente capire qual è la posizione politica di chi parla, che diventa sfuggente e – come si dice assai spesso oggi – “negoziabile” e quindi “ritrattabile”. Atteggiamento questo tipico di quella che non si sa perché si continua a chiamare sinistra (dal PD ai suoi finti nemici scissionisti).
Naturalmente queste osservazioni non intendono sottacere che le parole possono essere intese in senso diverso, anzi tutto il contrario come si vedrà più avanti, ma la loro definizione implica un lavoro di riflessione concettuale, che gli odierni intellettuali, a parte le poche teste pensanti tuttora esistenti, non sono più in grado o non sono interessati a fare. Nessuno apprende più a nostri giovani che giungono intimoriti nelle università, che per esempio la parola “democrazia” ha una lunga storia e può essere intesa in sensi assai diversi e talvolta distorcenti, come quando la si usa subdolamente o per semplice crassa ignoranza per indicare un regime di fatto oligarchico, che sarebbe democratico solo perché di tanto in tanto i cittadini [1] sono chiamati alle urne.
Come si diceva, chiarire in che senso si usa una parola, avendo al tempo stesso evidenziato che può essere usata in sensi assai diversi, significa prendere posizione, schierarsi da una parte o dall’altra; niente di più assurdo in un mondo in cui non ci sono più modelli sociali alternativi e in cui, a livello internazionale, i vari partiti esistenti – come osserva Noam Chomsky a proposito dei repubblicani e dei democratici statunitensi – sono semplicemente due frazioni di uno stesso partito; frazioni che hanno barriere porose e friabili come mostra il trasformismo e l’opportunismo degli uomini politici.
Nella prospettiva che sto cercando di delineare, le parole sono i segni materiali nei quali è contenuto un tema a sua volta dotato di un’accentuazione differente, la quale si produce nell’interrelazione sociale, in cui si manifestano gli interessi diversi degli interlocutori, che pur condividendo una stessa lingua appartengono a classi sociali differenti. Sulla base di queste considerazioni Valentin N. Vološinov giunge ad asserire che la comunicazione sociale è un’altra forma della lotta di classe: “Il segno diventa un campo della lotta di classe. Questa multiaccentuitività sociale del segno ideologico è un aspetto molto cruciale. Nel complesso, è grazie a questo intersecarsi di accenti che un segno mantiene la sua vitalità e il suo dinamismo e la capacità di svilupparsi ulteriormente” (Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, 1976: 78). Quindi, in realtà ogni dialogo autentico costituisce una contesa, nella quale si dovrebbero scontrare punti di vista differenti, per far comprendere agli ascoltatori la dialettica democratica e farli ragionare sull’opzione migliore.
Questa analisi sociologica del linguaggio è condivisa anche da autori più recenti, come George Lakoff e Mark Johnson, i quali mettono in evidenza che “noi non siamo consapevoli del nostro sistema concettuale; nella maggior parte delle piccole azioni che quotidianamente compiamo, noi semplicemente pensiamo e agiamo in modo più o meno automatico, seguendo certe linee di comportamento. La difficoltà risiede proprio nel definire cosa sono queste linee. Una possibilità per individuarle è prendere in considerazione il linguaggio; infatti dal momento che la comunicazione è basata sullo stesso sistema concettuale che regola il nostro pensiero e la nostra azione, il linguaggio costituisce un’importante fonte per determinare come è fatto questo sistema” (Metafora e vita quotidiana, 1998: 21-22).
Sviluppando questo concetto Lakoff e Johnson mostrano per esempio che nel nostro linguaggio (ovviamente non solo in inglese) la discussione è spesso interpretata facendo ricorso alla metafora della guerra, come per esempio nei seguenti casi “le tue richieste sono indifendibili”, “Ho demolito il suo argomento”. Ora non è che questa metafora sia caduta in disuso, anzi spesso vediamo uomini politici che ai più alti livelli si confrontano in trasmissioni televisive forse ormai seguite solo da pochi aficionados o illusi, ma l’uso costante di “in qualche modo” sfilaccia il ragionamento, priva i concetti di ogni accento valutativo, lo trasforma in una schermaglia in cui quello che conta è l’aspetto seduttivo e il richiamo a una vaga quanto inconsistente tolleranza. Quest’ultima si è cristallizzata nella formula “non siamo nemici, ma avversari”.
Dicevo in precedenza che le lotte dall’aperto contenuto ideologico (forse con l’eccezione di Donald Trump) sono in decadenza e pertanto è diventato sempre più opportuno predisporre una via di fuga verso la parte “avversa”, ponendo le basi di un futuro trasformismo e mostrando in tutta la sua cinica chiarezza il più sfrontato opportunismo, il cui obiettivo è garantirsi uno scranno quando la propria fazione è in crisi o per aggregarsi ai futuri vincitori magari per quanto mai opportune ragioni di coscienza.
Note
[1] Per Gramsci anche gli intellettuali hanno il loro senso comune.
[2] Altra parola che usata acriticamente ci vuole solo far credere che siamo tutti portatori di diritti, cosa ampiamente contraddetta dalla nostra esperienza quotidiana.