Il 6 gennaio del 1941 il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt pronunziò un celeberrimo Discorso sullo stato dell’Unione, passato alla storia come il “Discorso delle quattro libertà”. In esso, in effetti, Roosevelt aggiornava il catalogo delle libertà fondamentali, cioè dei diritti umani enunciati durante la rivoluzione francese, affiancando alle classiche libertà di espressione e di culto la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura. Queste ultime due si differenziano sostanzialmente dalle tradizionali in quanto si tratta di libertà da qualche cosa e non, come le precedenti, di libertà di fare qualcosa. In altri termini la terza e la quarta libertà richiamate da Roosevelt nel suo discorso rappresentano l’esigenza della liberazione da un’oppressione esistente, come il bisogno e la paura. Si tratta, dunque, di libertà concepite non come mere manifestazioni autonome dell’individuo, che lo Stato deve limitarsi a rispettare; piuttosto esse esprimono l’esigenza di una liberazione collettiva, che richiede l’intervento attivo della società. Per quanto riguarda in particolare la quarta libertà, “la libertà dalla paura”, essa era enfatizzata da Roosevelt in quanto in quegli anni mediante una politica aggressiva gli Stati fascisti erano riusciti a imporre la propria egemonia.
Se nell’immediato il discorso sulle quattro libertà era funzionale a giustificare l’entrare in guerra degli Stati Uniti d’America, di contro alla maggioranza della popolazione che era contraria, dopo la fine della guerra tale discorso diverrà il fondamento della Dichiarazione Universale dei diritti umani, la cui redazione fu promossa dall’Onu nel 1948. Mediante tale Dichiarazione si intendeva sancire anche sul piano del diritto internazionale la decisiva sconfitta del tentativo dei regimi fascisti di rilanciare anche in Europa la politica coloniale e le discriminazioni razziali. Con il suo ambizioso tentativo di gettare le basi di una giurisdizione internazionale, ispirata alla tutela e alla promozione dei diritti umani, la Dichiarazione del 1948 ha rappresentato un significativo progresso nella storia delle relazioni fra i popoli.
Tuttavia, con lo scoppio della Guerra fredda, paradossalmente iniziata proprio nel momento in cui la Dichiarazione è stata promulgata, le solenni aspirazioni della Carta dell’Onu sono state subordinate alla logica della contrapposizione tra i due grandi blocchi in conflitto, rimanendo generalmente un mero dover essere. Come nel precedente caso del fallimento della Società delle Nazioni – di contro ai grandi ideali kantiani, che avevano ispirato la Carta – sembrava ancora una volta avere la meglio il realismo scettico di Hegel riguardo la possibilità di una giurisdizione sovranazionale, capace di regolare in modo duraturo i contrasti fra gli Stati. A parere di Hegel, in effetti, non sarebbe possibile un organismo superiore agli Stati che ne regoli le relazioni, ma nei loro rapporti il solo giudice resterebbe la storia e, perciò, per dirimere le controversie internazionali, a contare veramente sarebbero ancora i meri rapporti di forza fra le nazioni [1].
Così, la corsa al riarmo provocata dalla Guerra fredda e la spaventosa proliferazione delle armi di distruzione di massa rendeva lettera morta per tutti i paesi del mondo la libertà dalla paura; in diversi paesi anche la libertà di espressione è stata fortemente limitata, per non favorire il nemico esterno e, infine, le ingenti e crescenti risorse destinate al riarmo hanno impedito in molti Stati di realizzare la libertà dal bisogno. La necessità di prevalere in questa guerra di posizione globale ha anche giustificato il supporto, in primo luogo del mondo occidentale, a governi dispotici che hanno sistematicamente violato i diritti umani. Inoltre, a partire dalla metà degli anni Settanta, l’appello alla salvaguardia dei diritti umani è progressivamente divenuto uno strumento dell’egemonia globale del mondo occidentale, al punto che sempre più spesso chi si oppone a tale egemonia tende a considerare i diritti umani una foglia di fico atta a dissimulare la politica di potenza occidentale.
Le speranze sorte con la fine della guerra fredda di un rilancio a livello globale dei diritti umani sono state ben presto deluse. Consultando i rapporti di Amnesty International non si può che constatare che nel mondo post guerra fredda oltre due miliardi di uomini patiscono per la sistematica violazione dei loro diritti [2].
Inoltre, nonostante la sconfitta del loro grande antagonista sovietico, i paesi occidentali non solo non hanno sciolto la Nato, sorta appunto quale patto difensivo contro la minaccia sovietica, ma l’hanno rilanciata allargando il suo raggio d’azione su scala globale. In tal modo, la più potente alleanza militare che la storia abbia conosciuto non poteva che generare, con la sua aspirazione al dominio planetario, nuovi avversari. Per annichilire questi ultimi, la Nato non ha esitato a scatenare un vero e proprio sedicente “conflitto di civiltà”, giustificato dalla presunta esigenza di salvaguardare i diritti umani di contro a civiltà che, come quella islamica, non li rispetterebbero. Tale obiettivo è stato di recente aggiornato per giustificare il rilancio di una nuova Guerra fredda contro, in primo luogo, Russia e Cina, ma anche Cuba, Venezuela, Iran e Repubblica democratica di Corea che, in quanto regimi totalitari e antidemocratici non rispetterebbero i diritti umani.
In tal modo, l’appello alla salvaguardia dei diritti umani da parte del mondo occidentale rischia di divenire uno dei campi privilegiati della retorica politica, come dimostra il caso delle recenti “guerre umanitarie”. In esse il richiamo ai diritti umani è stato strumentalizzato allo scopo di salvaguardare gli interessi economici delle potenze imperialiste occidentali. Inoltre, la pretesa di affermare con le armi la propria concezione dei diritti umani in Paesi ove vi è una diversa concezione di tali diritti, come ad esempio la Cina, si configura come la nuova forma assunta dalla politica neo-coloniale [3].
Così le guerre combattute negli ultimi anni dalle potenze occidentali in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia, sono state in generale presentate come “guerre umanitarie” [4]. Tali guerre, con il loro portato di barbarie e violazione delle norme più elementari del diritto, sembrano dimostrare che i diritti umani nei paesi extraoccidentali sopra ricordati hanno finito con l’essere paradossalmente sacrificati dalle potenze imperialiste proprio in nome della loro salvaguardia. Tanto più che la pretesa di condurre guerre in nome dell’umanità, porta al non riconoscere al nemico alcuna qualità umana, a dichiararlo “hors-la-loi e hors-l’humanité [fuorilegge e disumano], in modo da poter usare nei suoi confronti metodi spietati sino all’estrema disumanità” [5].
Così i diritti umani, invece di divenire il fondamento di un diritto internazionale condiviso, rischiano di essere ridotti a strumento di un dominio di stampo neo-coloniale, imposto in nome dell’umanità dalle potenze occidentali che pretendono di rappresentare la comunità internazionale [6].
Note:
[1] Se per Kant il riferimento è ovviamente a Per la pace perpetua, per quanto concerne la prospettiva hegeliana su queste questioni si vedano in particolare i paragrafi 330-40 dei Lineamenti di filosofia del diritto.
[2] Tali violazioni, ricordava Danilo Zolo, “includono una lunga serie di atrocità e di violenze: fra le altre il genocidio, la tortura, la pena di morte, le esecuzioni sommarie, le sparizioni, gli omicidi politici, le violenze sulle donne, la schiavitù, le violenze sui bambini, le esecuzioni capitali di minorenni e di disabili, il trattamento disumano e degradante dei detenuti”. Zolo, Danilo, Tutti gli esseri umani nascono liberi?, «Il Manifesto» del 9-12-2008.
[3] Come ha ricordato Gaetano Azzariti: “i diritti umani possono rappresentare una modalità di lotta politico-culturale e strumento di affermazione delle culture egemoni qualora tendano ad opprimere le culture subalterne (come da tempo vanno denunciando i Subaltern e Cultural Studies), ovvero costituire un mezzo per l’affermazione dei valori europei in una forzata contrapposizione con i cosiddetti valori asiatici (Asian values)”. Azzariti, Gaetano, L'homo dignus del nostro tempo, «Il manifesto» del 25/09/2011.
[4] Emblematico appare il caso della guerra umanitaria mancata in Siria – grazie all’intervento in extremis della Russia – in cui sedicenti associazioni per la difesa dei diritti umani, spesso con sede proprio nelle capitali di paesi in prima fila nel tentativo di rovesciare il governo siriano, come ad esempio Londra, hanno quotidianamente denunciato, senza nessuna prova significativa, una quantità enorme di violazioni dei diritti umani, attribuite unilateralmente al regime al potere. Tali notizie sono state riportate in modo sostanzialmente acritico da quasi tutti i grandi mezzi di comunicazione, mentre non è stata neppure presa in considerazione la versione dei fatti fornita da osservatori non ostili al governo siriano.
[5] Salinari, Raffaele K., Diritti umani: dichiarazione sempre meno universale, «Il Manifesto» del 10/12/2011.
[6] Del resto, in paesi in prima fila in tutte le più recenti “guerre umanitarie”, come la Francia e la Gran Bretagna, è in atto un esplicito tentativo di riabilitazione del colonialismo. Per quanto riguarda la Gran Bretagna ha osservato, Seumas Milne: “è passata appena una generazione dalla fine dell’impero britannico e già la sua riabilitazione è oggetto di un’offensiva, discreta ma ben concertata, da parte di influenti giornali britannici, di professori universitari conservatori, fino al massimo livello del governo”. Milne, Seumas, La riabilitazione del colonialismo inglese, in «Le monde diplomatique» maggio 2005, http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/. Per quanto riguarda la Francia cfr. L’ombra lunga della guerra. La riabilitazione del passato coloniale in Francia, di Andrea Brazzoduro, pubblicato in «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale», 5 (2007), n. 12, pp. 114-21.