Grandezza e limiti della società borghese in Marx

Marx considera scientificamente la società capitalista, cioè da un punto di vista storico, perciò non assume mai un’attitudine di critica moralistica, ma analizza gli aspetti progressivi e i limiti storici necessari di tale modo di produzione, indicandone, nella misura del possibile, ipotesi di superamento dialettico.


Grandezza e limiti della società borghese in Marx

Come denuncia Karl Marx, di contro alle concezione ideologiche individualiste borghesi, in realtà solo nella società capitalista, in cui i rapporti sociali hanno conosciuto un enorme sviluppo, l’individuo può isolarsi, degradando la sua stessa essenza politica a mero “strumento per i suoi fini privati” [1]. È l’uomo individualista e utilitarista di Jeremy Bentham, alienato dalla sua stessa attività sociale. In altri termini è l’uomo “naturale” di Hobbes che non si riconosce negli altri, ma li considera, in modo strumentale, dei semplici mezzi. Come fa notare Marx nella società borghese “negli altri uomini ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro egoismo; a loro non parliamo mai dei nostri bisogni, ma sempre del loro vantaggio[2]. Perciò, quando domina il modo di produzione capitalista l’uomo si rapporta all’uomo secondo la legge della giungla dell’homo homini lupus, considerando l’uomo separato dalla sua essenza generica e dal prodotto della sua attività, l’uomo del/dal lavoro alienato. Come fa notare ancora argutamente Marx: “perciò il lavoratore salariato solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei” [3]. 

Quindi, ricapitolando, nella cosiddetta “società civile” (borghese) domina l’individualismo utilitarista di Bentham, mentre il lavoro, l’attività generica dell’uomo è ridotta a mezzo. Al contrario, fa notare Marx in aperta polemica con questa concezione liberale: “l’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce a isolarsi” [4]. Perciò l’uomo portatore dei diritti universali (dalla tradizione giusnaturalista alla Rivoluzione francese) non corrisponde al concetto d’uomo quale essere sociale, ma è l’uomo borghese senza tutti i veli di cui si ammanta quale membro della comunità statuale, come cittadino. I diritti dell’uomo in quanto contrapposto al cittadino sono i diritti, dunque, d’un individuo che vede nella comunità un limite artificialmente imposto alla sua libertà originaria pre-sociale. In tal modo la comunità umana è considerata esclusivamente necessaria alla comune difesa dei propri ambiti egoistici. In altri termini il “diritto dell’uomo” giustapposto a quello del “cittadino”, è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso. La società appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro presunta indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica. Perciò, come ha a ragione fatto notare acutamente Umberto Cerroni: “la comunità, dunque, che riesce concepibile alla tradizione giusnaturalistica è soltanto la comunità statuale o giuridica, lo Stato che, legalizzando i rapporti tra i privati – presupposti come tali – secondo una legge comune a tutti, rende possibile la convivenza: ma si tratta di una convivenza di privati che vengono in realtà eguagliati soltanto nel senso che si definiscono i confini delle singole sfere private” [5].

Quindi, come non si stanca di sottolineare genialmente Marx, “il singolo ed isolato cacciatore e pescatore, con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle invenzioni prive di fantasia del XVIII secolo. (…) Così come non poggia su un siffatto naturalismo il contrat social di Rousseau, che mette in rapporto e in collegamento, mediante un patto, soggetti per natura indipendenti. (…) In realtà si tratta piuttosto dell’anticipazione della «società borghese», che si preparava dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante verso la maturità. In questa società della libera concorrenza il singolo appare sciolto dai legami naturali ecc., che nelle epoche storiche precedenti fanno di lui una parte accessoria di un agglomerato umano, determinato e circoscritto. Agli occhi dei profeti del XVIII secolo, sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo del XVIII secolo – che è il prodotto, da un lato, della dissoluzione delle forme sociali feudali e, dall’altro, delle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal XVI secolo – appare come un ideale la cui esistenza appartiene al passato[6]. Quindi, conclude il suo fondamentale ragionamento Marx, “solo nel XVIII secolo, nella «società borghese», le diverse forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro strumento per i suoi fini privati, come una necessità esteriore. Ma l’epoca che genera questo modo di vedere, il modo di vedere dell’individuo isolato, è proprio l’epoca dei rapporti sociali (generali da questo punto di vista) finora più sviluppati” [7]. Perciò, sottolinea Cerroni, dal punto di vista marxiano, “se l’individuo naturale o uomo di natura è realmente da pensare come presociale, esso non può essere caricato di valori (eguaglianza, libertà, proprietà) che, come tali, sono necessariamente un portato della relazione sociale” [8].

Dunque, proprio al contrario delle ideologie liberaldemocratiche, l’antropologia marxiana vede nell’uomo non un individuo particolare né un zoon politikòn come era nella visione aristotelica dominante ancora nel mondo feudale, ma un come un soggetto dotato di un’essenza sociale [9] che va preservata dalla scissione in un individuo isolato e in una macchina statuale a esso giustapposto, come avviene nel mondo borghese.

Allo stesso modo, come denuncia ancora Karl Marx, unicamente una visione idealista o ideologica può credere che sia lo Stato a mantenere unita l’atomizzata società civile, mentre è, al contrario, l’interesse egoistico quale fondamento della società civile che tiene unito lo Stato politico (borghese). Così anche l’ultima figura della fase eroica, idealista, della borghesia, Napoleone è votata a un necessario fallimento, nel momento in cui, invece di limitarsi a soddisfare mediante la guerra i bisogni pratici ed egoistici della società civile che lo aveva portato e mantenuto al governo, sublimati nella forma di interessi della nazione francese, aveva preteso di sacrificare il mondo degli affari a un fine politico superiore [10]. Anche in tal caso il fondamento reale, materiale ha la meglio sugli ideali politici universali, astratti, idealisti e ideologici. Come hanno osservato acutamente Marx ed Engels, già nella loro prima opera comune, “Napoleone è stato l’ultima lotta del terrorismo rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla rivoluzione, e contro la sua politica. Napoleone possedeva già indubbiamente la conoscenza dell’essenza dello Stato moderno; sapeva che questo Stato poggia, come sul suo fondamento, sullo sviluppo non ostacolato della società civile, sul movimento libero degli interessi privati, ecc. Egli prese la decisione di riconoscere e di proteggere questo fondamento. Napoleone non era un terrorista fanatico. Ma considerava ancora nello stesso tempo lo Stato come un fine autonomo, e considerava la vita civile, rispetto allo Stato, solo come il tesoriere e come il subalterno, che non può avere una volontà propria. Egli ha perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente. Ha soddisfatto, fino alla completa sazietà l’egoismo della nazionalità francese, ma egli pretendeva anche il sacrificio degli affari civili, del godimento, della ricchezza, ecc., ogniqualvolta il fine politico della conquista lo reclamava” [11]. Ciò, naturalmente, era inaccettabile per i liberali borghesi che abbandonarono Napoleone al suo tragico destino, anche se ciò, nell’immediato, avrebbe significato il dover fare i conti con la restaurazione, cioè con la distopica pretesa delle precedenti classi dirigenti e dominanti di reimporre l’ancien régime. Dunque, osservano ancora a tal proposito Marx ed Engels, “come, con Napoleone, il terrorismo rivoluzionario si è contrapposto ancora una volta alla borghesia liberale, così con la Restaurazione, con i Borboni, le si è contrapposta ancora una volta la controrivoluzione” [12]. D’altra parte, anche la restaurazione era un ideale astratto e ideologico reazionario che, naturalmente, non poteva avere la meglio sulla realtà materiale, storica cioè sul fatto che ormai la borghesia era divenuta la classe dominante, aveva forgiato a sua immagine e somiglianza la società civile e, quindi, necessariamente il potere politico doveva, in primo luogo, scendere a patti con essa e, in secondo, luogo sottomettersi al suo fondamento materiale, economico.

Così con la Rivoluzione del 1830 infine, dopo la necessaria sconfitta della Restaurazione che aveva preteso di far girare al contrario le lancette della storia, mediante lo Stato costituzionale rappresentativo, la borghesia abbandonava definitivamente ogni illusione idealista dello Stato politico, non pretendeva più di essere latrice di scopi universali: “la monarchia di luglio non era altro che una società per azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, società i cui dividendi si ripartivano fra i ministri, i banchieri, 240 mila elettori e il loro seguito. Luigi Filippo era il direttore di questa società” [13].

D’altra parte, la spinta propulsiva della Rivoluzione francese non può considerarsi conclusa con il pieno affermarsi del dominio borghese mediante la rivoluzione borghese-liberale del 1830. Tale affermazione e sottomissione reale dello Stato, del politico alle esigenze degli spiriti animali della società civile, che con essa si realizzava, rappresenta l’affermarsi unilaterale di un singolo momento, aspetto del processo rivoluzionario, mentre altri, quali la rivoluzione permanente, saranno recuperati da Marx durante la rivoluzione democratica del 1848.

Note:

[1] Marx, Karl, Introduzione a “Per la critica dell’economia politica” [1857], in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 714.

[2] Id., Manoscritti economico filosofici del 1844 a cura di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, pp. 143-44.

[3] Ivi, p. 75, non vengono segnalate le modifiche alle traduzioni citate dell’autore di questo articolo.

[4] Id., Introduzione a…, op. cit., p. 714

[5] Cerroni, Umberto, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 257.

[6] Marx, K., Introduzione a…, op. cit., pp. 713-14.

[7] Ivi, p. 714.

[8] Da qui la decisiva critica mediante cui Marx ed Engels superano la precedente concezione di Feuerbach e sviluppano autonomamente il loro pensiero filosofico e scientifico: “egli [Feuerbach] resta sul terreno della teoria, e non concepisce gli uomini nella loro connessione sociale, nelle loro presenti condizioni di vita, che ha hanno fatto di loro ciò che sono, egli non arriva agli uomini realmente esistenti e operanti ma resta fermo all’astrazione «l’uomo», e riesce a riconoscere solo nella sensazione l’«uomo reale», individuale, in carne e ossa.” Marx, K., e Engels, Friedrich, L’ideologia tedesca, tr. it di Codino, F., Editori Riuniti, Roma 1967, p. 18.

[9] Cerroni, U., Marx e, op. cit., p. 246.

[10] Destino eguale vive Hegel, quando prova a sottomettere il mondo degli affari a un fine politico superiore. La borghesia, che nella sua fase rivoluzionaria eroica ne aveva difeso e fatta propria la filosofia, una volta conquistato il potere, proprio per questa pretesa superiorità dello Stato sulla società civile tipica della concezione idealista hegeliana scarica questa visione del mondo, tanto che diverrà presto oggetto di pesanti attacchi da parte dei liberali. D’altra parte, per giustificare il fatto che nella fase rivoluzionaria lo avevano esaltato, mentre ora tendono a considerarlo alla stregua di un cane morto, gli intellettuali liberali sviluppano la giustificazione ideologica secondo la quale sarebbe stato Hegel a tradire la rivoluzione borghese, divenendo un apologeta dell’ancien régime, che avrebbe dominato nella sua epoca in Prussia. In tal modo le critiche da sinistra, in senso progressista, rivolte da Hegel al liberismo vengono presentate come rivolte in realtà tese a sostenere una concezione precapitalista e preborghese di Stato e società. 

[11] Marx, K. e Engels, F., La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di Zanardo, A., Editori riuniti, Roma 1967, p. 160.

[12] Ivi, p. 162. 

[13] Id., Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, tr. it. di Togliatti, P., Editori Riuniti, Roma 1987, p. 38.

 

20/01/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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