Gramsci e la società regolata

La piena realizzazione storica degli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità costituirà, al contempo, la realizzazione e il superamento del concetto di diritto, quale strumento di un potere politico separato dall’insieme sociale.


Gramsci e la società regolata Credits: https://www.igsitalia.org/

Per Antonio Gramsci non si tratta di contrastare il necessario sviluppo di un conformismo sociale, ma di sostenere l’affermarsi di un conformismo orientato a un nuovo ordine nella sua lotta per l’egemonia, nella società civile, con il vecchio [1]. Gramsci vede nel progressivo sviluppo delle forze produttive, una volta liberate da rapporti di produzione poco funzionali al loro sviluppo, il fondamento dello sviluppo della vita etica che dovrà essere considerata sulla base del principio utilitarista dell’ulteriore espansione della struttura economica, che consentirà di superare anche le contraddizioni sovrastrutturali che potranno insorgere, creando “un nuovo ‘conformismo’ dal basso” il quale consentirà “nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale” (7, 12: 862-63).

Di per sé lo spontaneismo ha tutti i vizi dell’individualismo e deve perciò venir disciplinato. Come osserva acutamente Gramsci in riferimento alla dialettica fra spontaneismo e disciplina: “la sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questo caso è uguale a idiotismo). L’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla ‘socialità’, senza cui egli sarebbe un ‘idiota’ (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune).

C’è dell’originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente ‘gesuitico’: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi di un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia. C’è un conformismo ‘razionale’ cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare ‘spontaneità’ o ‘sincerità’. Conformismo significa poi niente altro che ‘socialità’, ma piace impiegare la parola ‘conformismo’ appunto per urtare gli imbecilli.

Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende più difficile la cosa. È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità. Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo. Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce il mondo a un convento. Intanto: qual è il ‘vero conformismo’, cioè qual è la condotta ‘razionale’ più utile, più libera in quanto ubbidisce alla ‘necessità’? Cioè quale è la ‘necessità’? Ognuno è portato a far di sé l’archetipo della ‘moda’, della ‘socialità’ e a porsi come ‘esemplare’. Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale), è un dato ‘oggettivo’ o universale, così come non può essere oggettiva e universale la ‘necessità’ su cui si innalza l’edificio della libertà. Libertà e arbitrio, ecc.” (14, 61: 1719-20).

Lo stesso grado di originalità dell’individuo è funzione della sua socialità. La giusta critica a un conformismo verso un progetto estraneo agli interessi delle masse, non toglie l’esigenza di sviluppare un conformismo razionale “rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare ‘spontaneità’ o ‘sincerità’” [2]. In effetti, a parere di Gramsci: “ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (cioè specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare). L’unità del lavoro manuale e intellettuale e un legame più stretto tra il potere legislativo e quello esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre che del controllo, si interessino dell’esecuzione degli affari di Stato) possono essere motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo della soluzione del problema degli intellettuali che di quello dei funzionari” (13, 36: 1632) [3].

Gli alti lai lanciati da settori conservatori degli intellettuali contro il conformismo sociale prodotto dallo sviluppo del nuovo modo di produzione sono il canto del cigno di chi sente venir meno la determinata civiltà di cui è esponente e crede, o vuole far credere, che ciò corrisponderebbe alla fine di ogni civiltà. D’altra parte, come chiarisce Gramsci: “conformismo significa poi niente altro che ‘socialità’, ma piace impiegare la parola ‘conformismo’ appunto per urtare gli imbecilli” (14, 61: 1719-720). L’edificio della libertà e della spontaneità dovrà fondarsi sulla base di una necessità e di una socialità oggettive in quanto universali e ciò richiede una complessa lotta sul piano sovrastrutturale e strutturale. La piena realizzazione storica degli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità costituirà, al contempo, la realizzazione e il superamento dialettico del concetto di diritto, quale strumento di un potere politico ancora separato dall’insieme sociale.

Dunque, la riflessione di Gramsci consente di far emergere il fondamento della debolezza delle risposte dell’attuale sinistra alla retorica dei diritti umani, che non si libera del cattivo dualismo in cui si inscrive la riflessione dominante, avendo perso di vista il progetto di una società maggiormente universale della capitalistica, in cui non sia più utopica la soluzione del conflitto fra ideali universali e interessi particolari, fra Stato e società civile, fra morale e pratica politica.

Note:

[1] Approfondendo il concetto di conformismo sociale in relazione alla necessaria dialettica fra spontaneismo e disciplina, sottolinea acutamente Gramsci: “tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo più estesa e più profonda che nel passato: (la) standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali. La base economica dell’uomo-collettivo: grandi fabbriche, taylorizzazione, razionalizzazione ecc. Ma nel passato esisteva o no l’uomo-collettivo? Esisteva sotto forma della direzione carismatica. (...) L’uomo collettivo odierno si forma invece essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettività nel modo della produzione: l’uomo rappresentativo ha anche oggi una funzione nella formazione dell’uomo-collettivo, ma inferiore di molto a quella del passato, tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia e la costruzione crolli. (…) Sul ‘conformismo’ sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che l’allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico. Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra ‘due conformismi’ cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, (...) quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo stato. (…) Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principi da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo rendimento dell’apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l’instaurazione progressiva delle nuove strutture saneranno le contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo ‘conformismo’ dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale”. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, pp. 862-63. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] A proposito della dialettica libertà-disciplina e responsabilità-arbitrio osserva acutamente Gramsci: “al concetto di libertà si dovrebbe accompagnare quello di responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà. Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella ‘responsabile’ cioè ‘universale’, in quanto si pone come aspetto individuale di una ‘libertà’ collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge” (6, 11: 692)
[3]. Per la formazione della concezione moderna degli intellettuali e del ruolo decisivo che svolgono nello Stato moderno, Gramsci sottolinea tutta l’importanza della riflessione hegeliana su tale problematica: “nella concezione non solo della [scienza] politica, ma in tutta la concezione della vita culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si comincia a non pensare più secondo le caste o gli ‘stati’ ma secondo lo ‘Stato’, la cui ‘aristocrazia’ sono appunto gli intellettuali. La concezione ‘patrimoniale’ dello Stato (che è il modo di pensare per ‘caste’) è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa ‘valorizzazione’ degli intellettuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle sue radici sociali” (8, 187: 1054).

09/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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