Qualche tempo fa, mentre portavo i miei figli a scuola, mi sono imbattuto in un grande cartellone pubblicitario che raffigurava un pugno sinistro maschile con al polso un orologio d’oro al cui centro erano raffigurati, rosso-incrociati, la falce e il martello e sopra la scritta: comunisti col Rolex. L’immagine mi ha molto incuriosito e chiedendo in giro ho capito che si trattava della promozione di un album musicale dall’omonimo titolo dei cantanti J-Ax (al secolo Alessandro Aleotti), già membro degli Articolo 31, e Fedez (Federico Lucia) giovane rapper divenuto famoso anche grazie ad una trasmissione televisiva (X Factor). C’è anche questo nell’anno in cui si celebra il centenario della rivoluzione d’Ottobre. La cosa sarebbe morta lì se poi non mi fossi imbattuto in una delle loro canzoni dove si dice che “Che Guevara e Fidel Castro facevano collezione di motociclette inglesi e di Rolex”. A quel punto, ho pensato, la questione meritava un più serio approfondimento.
Da un punto di vista musicale, la sezione italiana della rivista Rolling Stone definisce il disco “rap nella tecnica di canto ma smaccatamente pop nella musica e nelle intenzioni”. Una contraddizione che fa il paio con quella contenuta nel titolo dell’album. Il genere rap, infatti, è largamente utilizzato per denunciare lo stato di cose presenti, più raramente per glorificarlo o per dar voce ai rigurgiti dei fascisti del secondo o terzo millennio. Al contrario il pop - detto anche “musica leggera”, popular nel senso che va di moda, da non confondere con la musica frutto dell’estro popolano - si sviluppa organicamente all’industria discografica e si pone storicamente e maggioritariamente al servizio dei potenti e della reazione.
In prima approssimazione, dunque, si tratterebbe di indagare se, al di là della tecnica utilizzata, i due cantino la radice dei problemi o se ne rimangono alla superficie, finendo per fare il gioco per nemico, sviando e arrecando più confusione che benefici nelle menti dei giovani ascoltatori. Questo aspetto, tuttavia, non esaurisce il problema dell’utilità di un’opera e dei loro autori rispetto all’obiettivo dell’emancipazione del proletariato dal giogo capitalista. Come nessuno, credo, si sognerebbe di giudicare Giangiacomo Feltrinelli solo dai libri che come editore fece pubblicare, così per un giudizio complessivamente valido sull’operato di Fedez e J-Ax non basta valutare l’utilità per la causa delle parole contenute nelle loro canzoni o nelle dichiarazioni che ne hanno accompagnato il lancio. Da queste, infatti, emerge solo un po’ di superficialità, qualche equivoco e tanta approssimazione concettuale, ma per capire se siamo di fronte a degli alleati nella lotta per il socialismo o ad un vero e proprio inganno - alla normalizzazione di figure quali il Che e Fidel a tutti gli effetti scomode, depotenziando in questo modo il messaggio rivoluzionario che hanno incarnato, e quindi ad un disco e a degli autori che nuociono alla causa - non basta e bisogna andare a vedere anche altri aspetti, come la genesi del disco e l’utilizzo che si fa degli introiti e della fama che ne derivano.
Comunisti col Rolex nasce per rispondere a chi accusa i due rapper di fare canzoni anti-sistema o comunque di presentarsi come critici, senza rinunciare all’ampio e remunerato successo che ne deriva anche grazie all’indiscutibile velo pop che consente ad alcune tracce di candidarsi a tormentone dell’estate 2017. A parere di molti, infatti, l’aderenza formale alle istanze progressiste verrebbe meno a causa di una sostanziale ipocrisia. A questa accusa, J-Ax risponde dicendo che “abbiamo preso quello che per gli altri è un insulto, un dispregiativo e l’abbiamo trasformato in un merito. Ci hanno spesso chiamato così [comunisti col Rolex] - spiega Fedez - per mettere in risalto una contraddizione (che per noi non esiste) che fa leva sull’incoerenza di artisti imborghesiti (io mi definisco un povero arricchito) che oramai non possono più trattare tematiche sociali”. Un esempio “del cuore a sinistra e del portafoglio a destra” che i due rifiutano categoricamente anche perché, spiega Fedez, “ricercare l’incoerenza negli artisti è la cosa più inutile, perché non troverete artista coerente”. Comunisti col Rolex, dunque “è il simbolo del nostro riscatto sociale, la dimostrazione che in Italia ci si può ancora arricchire onestamente e che non per forza bisogna nasconderlo. Ed è una cosa di cui andar fieri” [1].
Il grande inganno a cui tentano di rispondere a modo loro i due artisti, dunque, è quello che fa leva su un senso comune che vuole chi diventa ricco e famoso persona da idolatrare sempre e comunque o, al contrario, incapace ipso facto di occuparsi in maniera efficace, credibile e coerente dei problemi che affliggono la gente comune. In altre parole, l’uguaglianza ricco=nemico-del-popolo, invece di esser posta come equazione viene spacciata come identità, per malafede oppure a causa del travisamento delle grandi scoperte scientifiche fatte da Karl Marx e da Friedrich Engels. Tra queste spiccano quella che consiste nello spiegare l’origine del plusvalore (surplus) generato nella società capitalistica a partire dallo sfruttamento da parte del proprietario dei mezzi di produzione (il padrone) della forza-lavoro mercificata (il lavoratore salariato), e quella che vede nella dialettica materialistica “la legge di sviluppo fondamentale della natura e della storia, scienza non soltanto delle leggi generali del movimento, e perciò del mondo esterno, ma anche del pensiero umano stesso”.
Dal mancato approfondimento di queste scoperte è facile approdare alla semplicistica conclusione che siccome all’origine del benessere dei ricchi c’è la quota di plusvalore non reinvestito che a sua volta rappresenta una quota di lavoro dipendente non pagato, ecco che ognuno di loro è ipocrita se parla in favore del popolo da cui trae il proprio personale vantaggio.
Rispondere, come fanno i due artisti, sostenendo che in Italia ci si può ancora arricchire onestamente, però, è demagogico, pericoloso e inutile. Demagogico in quanto bisognerebbe premettere che ciò vale solo per un ristrettissimo numero di persone. La stragrande maggioranza degli arricchiti, al contrario, lo sono solo grazie a qualcun’altro (i lavoratori presenti o passati, dai quali si è estorta la ricchezza ereditata) e non potrebbe essere altrimenti dato il modo di produzione dominante. Pericoloso, perché il richiamo all’onestà è facilmente equivocabile. Nel suo complesso, il capitalismo è un sistema che si fonda sull’equità e sulla libertà: le merci vengono pagate secondo il proprio valore mentre la schiavitù, i furti e le truffe vengono formalmente banditi. Se la merce-umana (alias la forza-lavoro), sul mercato vale meno di niente, tanto viene pagata, con buona pace dei perbenisti benpensanti più o meno indignati. Nel modo di produzione capitalistico, disonesto è chi ruba una proprietà altrui, non chi acquista la capacità lavorativa altrui ai prezzi di mercato. Che, per quanto siano alti, devono essere comunque minori di quanto il padrone intasca nel mettere all’opera il lavoro acquistato. Una specie di furto di tempo di lavoro, dunque, ma legale. Se tale diseguaglianza non sussistesse, dopotutto, ed il prezzo della forza-lavoro fosse più alto di quanto l’impresario guadagnerebbe impiegandola, allora la compravendita non avrebbe luogo, condannando Cipputi alla disoccupazione, libero… di morir di fame.
Il richiamo all’onestà del guadagno, infine, è pure inutile in quanto la coerenza tra ricchezza e comportamenti privati da un lato, parole e atteggiamenti pubblici dall’altro, va ancorata all’obiettivo finale - nel nostro caso, l’emancipazione del proletariato - che si ottiene cambiando il sistema che riproduce per sua propria intrinseca necessità e continuamente la separazione tra proprietari e non proprietari, sfruttatori e sfruttati. Il comunista che decide di spogliarsi della propria ricchezza o della propria posizione sociale, fosse anche quella di industriale sfruttatore, può non arrecare alcun beneficio alla causa o addirittura nuocervi, se così facendo perde la capacità di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo. Al proletariato come classe sociale, infatti, non serve che chi può permetterselo si astenga dal comprarsi una bella casa o dall’assumere una colf per delegare le incombenze domestiche, né che assuma Prozac invece di comprarsi una barca o l’ultimo modello di iphone.
In altre parole, per esorcizzare la critica da cui muovono i due rapper e per verificare se essi contribuiscono alla causa, non è sufficiente ricorrere al potere della parola, all’auto-ironia, all’auto-derisione e all’orgoglio. È necessario, invece, anche andare a vedere come e per che cosa la ricchezza estorta o accumulata viene utilizzata. Che in una società ove domina il modo di produzione capitalistico significa capire per che cosa vengono utilizzati i denari (e la fama) di cui si dispone. Il capitalista, ad esempio, sfrutta persone per accumulare ricchezza di cui poi si serve per sfruttare ancora più gente e accumulare ancora più ricchezza. Il rentier stacca cedole senza far niente se non godersi la vita nel lusso. Entrambi possono usare parte della loro personale ricchezza per fini caritatevoli, filantropici o socialdemocratici, facilitando così il loro dominio. I compagni, al contrario, devono far diversamente.
A quelli che affrontano il problema a cui Fedex e J-Ax tentano di rispondere, forse è più utile l’esperienza maturata in tal senso da colui che a questo punto potremmo definire un comunista-col-rolex ante-litteram: Friedrich Engels. Figlio di commercianti ed industriali tedeschi, amante delle donne, anche dai facili costumi, e della bella vita, fino ai 49 anni dovette lavorare nell’azienda di famiglia - percependo oltre ad un lauto stipendio anche la quota parte di profitto e infine una buonauscita che oggi definiremmo milionaria - e frequentare l’alta società di Manchester, con le sue cene di rappresentanza, i club esclusivi e la caccia alla volpe inclusi. “Fare il bottegaio fa troppo schifo… ma la cosa più schifosa è essere non soltanto un borghese, ma addirittura un industriale, un borghese che si schiera attivamente contro il proletariato. È bastato qualche giorno nella fabbrica di mio padre per trovarmi faccia a faccia con questo schifo, che avevo molto sottovalutato” confidò in una lettera del 20 gennaio 1845 a Marx. Uno schifo che, nel furore della lotta per conquistare l’egemonia ideologica in seno al proletariato, prima o poi sarebbe stato strumentalizzato: “aspetta e vedrai, diranno quei cafoni - scrisse al Moro il 13 febbraio 1865 - cosa vuole quell’Engels, come si permette di parlare per noi e di dirci cosa fare, quel tizio che se ne sta lassù a Manchester a sfruttare i lavoratori. Puoi star sicuro che non me ne frega un cazzo adesso, ma è solo questione di tempo e dovremo ringraziare il barone Izzy [Lassalle] per questo”.
Come giustamente sottolineato da Heinrich Gemkow “gli avversari del proletariato avrebbero preferito che Engels lasciasse il lavoro, rinunciando a quel reddito. In tal caso non sarebbe stato in grado di aiutare Marx, Il Capitale non sarebbe stato scritto e l’indipendenza politica e teorica della classe operaia sarebbe stata rimandata”. Ma per fortuna, “Engels considerava i suoi profitti da imprenditore e mercante come un contribuito alla lotta per l’emancipazione del proletariato e per tutta la vita li usò di conseguenza”. E anche quando nel 1869 si ritirò dall’attività di famiglia non smise mai di finanziare la lotta per il socialismo. “Anch’io possiedo azioni e titoli - scrisse a Eduard Bernstein il 18 gennaio del 1883 - e di tanto in tanto vendo e compro” per poi aggiungere, pochi giorni dopo, nella lettera del 27 febbraio - 1 marzo che “se avessi la sicurezza che domani vincessi in borsa un milione che mi permettesse di dare grandi risorse al partito in Europa ed in America, ci giocherei di corsa”. D’altronde, in queste lettere il Generale ci ricorda che “la borsa valori non fa che regolare la distribuzione del plusvalore già sottratto ai lavoratori e come ciò è fatto può essere in prima istanza irrilevante per il lavoratore in quanto tale. Tuttavia, la borsa aggiusta tale distribuzione nella direzione della centralizzazione, accelera fortemente la concentrazione dei capitali ed ha quindi un significato rivoluzionario tanto quanto la macchina a vapore”.
In conclusione, “si può benissimo essere giocatori di borsa e allo stesso tempo socialisti e quindi detestare e disprezzare la classe dei giocatori di borsa” purché - parafrasando un passaggio della risposta data dai compagni dell’ex OPG “Je so’ pazzo” di Napoli all’appello di Falcone e Montanari - gli artisti di successo come Fedez e J-Ax che vogliono essere utili non si limitino a mettere a disposizione solo la loro voce ma si mettano al servizio delle masse popolari e mettano a disposizione della causa socialista le loro risorse, i loro soldi, i loro contatti, la loro visibilità. [2]
Note:
[1] Le citazioni di Fedez e J-Ax sono tratte dal video della conferenza stampa di presentazione del disco disponibile su Repubblica TV.
[2] Gli estratti delle lettere di Engels (il Generale) dirette a Marx (il Moro) sono mie traduzioni effettuate a partire dalla raccolta Marx and Engels Collected Works, disponibile online sul sito internet del partito comunista dei lavoratori iraniano, cogliendo gli spunti sorti leggendo La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels di Tristram Hunt, libro che contiene anche le parole di Heinrich Gemkow, puntualmente verificate a partire dalla traduzione in lingua spagnola della sua biografia dedicata a Federico Engels disponibile sul Marxists Internet Archive.